STRETTA ECONOMICA E POLITICIZZAZIONE DI MASSA NEGLI STATI UNITI. DI SINISTRA O POPULISTA ?

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DI DAVID KERANS
strategic-culture.org

La crisi finanziaria provocata da Wall Street che ha colpito gli USA nel 2008 è stata così improvvisa, severa e duratura da provocare una politicizzazione di massa. La comprensione delle sue radici e di ciò che l’ha catalizzata possono andare oltre le capacità di comprensione delle persone comuni, ma due conclusioni di tipo generale si sono fatte largo in modo abbastanza diffuso. Primo, gli Americani sono molto meno convinti nel sostenere il libero mercato rispetto a quanto facevano pochi anni fa (la percentuale che condivide l’affermazione che “il libero mercato è il miglior sistema economico su cui basare il futuro del mondo” è scesa dall’80% nel 2002 – la più alta registrata tra tutti i paesi scrutinati al 74% nel 2009 e solo il 59% nel 2010, molto al di sotto di Cina e Brasile). In secondo luogo, è oramai chiara la complicità dei due partiti dominanti nel facilitare la crisi e nello schermare il sistema finanziario e le classi agiate dalle sue conseguenze negative. Un recente sondaggio ha rilevato un 81% di persone favorevoli a una soprattassa per i milionari al fine di aiutare il pareggio del deficit di bilancio; un’altra inchiesta ha registrato un 81% di persone che vogliono che il governo faccia di più per ridurre la povertà e il 72% vuole regolamentazioni più stringenti per Wall Street.

La vetta nella partecipazione politica, che si è verificata nel 2008 (misurabile dalla partecipazione al voto e anche dal numero degli individui che ha fatto donazioni) è andata sicuramente a vantaggio dei Democratici, vista l’associazione del partito Repubblicano con gli interessi del capitale e delle classi più agiate. Le elezioni di medio termine del 2010, d’altro canto, hanno restituito con forza ai Repubblicani la maggioranza al Congresso e hanno fanno sorgere questioni importanti, come la natura della politicizzazione negli Stati Uniti nella condizioni di una crisi ancora sostenibile dell’economia.

I mass media hanno individuato nell’influente, anti-governativo e anti-tassazione Tea Party l’asse portante della politicizzazione di massa degli ultimi due anni, ma tutto questo è unilaterale e poco convincente. Come abbiamo già menzionato in questo forum, la vittoria dei Repubblicani nel 2010 deriva in larga parte dalla disillusione che serpeggia tra i tradizionali Democratici, motivata dalla capitolazione del Presidente Obama e della sua amministrazione alle ragioni della destra e tutto questo ha affossato la partecipazione al voto della base dei Democratici nel 2010. I favoritismi palesi e continui dell’amministrazione nei riguardi degli interessi delle grandi corporation, del settore finanziario e di quello militare non ispirano di certo i tradizionali votanti del partito Democratico.
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Per fortuna, i mass media si sono resi conto dello spessore dei sentimenti liberali e di sinistra quest’inverno, quando la resistenza alla legislazione autoritaria – sponsorizzata dai Repubblicani – nel Wisconsin e in altri stati è sfociata in un corteo, forte di 100.000 dimostranti. I decisori in politica, negli affari e nei media comprendono che una mobilitazione populista è possibile e che la sinistra si può rinvigorire dopo circa 30 anni di ibernazione. Il compito adesso quello di prevedere proprio che forma potrà assumere la mobilitazione che viene dal basso nel futuro ravvicinato. Gli analisti suggeriscono una rapida intensificazione del sentimento populista, ma le prospettive di vedere un indirizzo prolifico per questi sentimenti sono in realtà molto meno certe.

L’accordo stracciato tra lavoro e capitale

Una delle statistiche più significative nella storia economica statunitense è quella che descrive la traiettoria della produttività del lavoro e degli stipendi dal 1947 ai giorni nostri; prendendo come riferimento i livelli del 1947, questi si muovono verso l’alto in modo analogo fino al 1980-81, quando la Federal Reserve scelse di contenere gli stipendi per favorire l’abbassamento dell’inflazione e quando Ronald Reagan divenne presidente, abbassando le tasse per i redditi alti, in linea con le teoria economica del ‘supply-side’ a sostegno dell’offerta. Da quel momento in poi, la produttività del lavoro ha continuato la sua continua ascesa, mentre gli stipendi sono rimasti fermi. Il diagramma evidenzia la fine dell’accordo che il capitale ha stretto col lavoro dall’epoca del New Deal, a partire dal quale, al posto di un salario da fame, lo stipendio si sarebbe posizionato a un livello tale da permettere la fioritura di una classe media di consumatori.

Come corpo sociale, gli Americani erano abbastanza prosperi per poter digerire una graduale erosione di questo accordo nel corso degli ultimi tre decenni; inoltre, le donne sono entrate in massa nel mondo del lavoro: alla fine degli anni ’90, il 60% delle madri con bambini piccoli lavoravano fuori casa in confronto al 20% del 1966. Gli Americani oggi lavorano più a lungo: alla meta degli anni ’00, l’americano medio lavorava 2,200 ore all’anno, 350 più che in Europa. Si sono anche coperti di debiti: il debito delle famiglie (inclusi i mutui), che copriva in media il 50-55% dei redditi netti nel periodo che va dal 1946 al 1980, è salito al 100% nel 2001 e ha poi raggiunto il 138% nel 2007. Gli Americani erano in fondo spossati da questi ingranaggi anche prima che la crisi divampasse, così che una politicizzazione di un qualche tipo era da ritenersi altamente probabile. Adesso, sembra inevitabile.

Nel frattempo, la straordinaria distorsione nella divisione dei redditi e del potere all’interno della società è diventata chiara a tutti, quando ha fatto la sua comparsa anche sul posto di lavoro. Così i salari al netto dell’inflazione – per coloro che sono riusciti a mantenere il lavoro – sono fermi (adeguati all’inflazione, gli stipendi orari sono saliti di circa lo 0,3% negli ultimi due anni), mentre la produttività continua a salire: dalla metà del 2009 alla fine del 2010, solo il 6% del surplus dovuto agli aumenti di produttività è andato alla forza-lavoro sotto forma di stipendi, rispetto alla media storica del 58% (il quadro sarebbe ancora più fosco se mettessimo in conto anche l’erosione dei benefit).

E, mentre fagocitano tutti i profitti, le multinazionali stanno contribuendo ancora meno sotto forma di imposte. La notizia che General Electric non pagherà imposte su 15,2 miliardi di dollari di profitto del 2009 (e riuscirà anche a ricevere 3,2 milioni di dollari di credito d’imposta) ha fatto strabuzzare gli occhi a molte persone, ma questa non è una cosa insolita. L’imposizione fiscale per le aziende dovrebbe essere il 35%, ma nel 2010 le 100 compagnie più grandi degli Stati Uniti hanno versato sotto forma di imposta solo il 9,9% del loro imponibile; in relazione al PIL, le entrate fiscali delle grandi corporation ne costituivano circa del 4% duranti gli anni ’60, ma erano solo il 2% negli anni ’90 e sono precipitate all’1% nel 2009.

La Divisione Generazione del Bottino

“In mezzo alle grida strazianti per salvare i nostri bambini e i nostri nipoti dal debito eccessivo – un obbiettivo meritevole – sembra però che li stiamo salvando anche dalle devastazioni dell’educazione, del lavoro, della cura della salute, della ricchezza e delle opportunità. Non è certo un sistema per approcciare il futuro.” Max Fraad Wolff

Il rinvigorirsi di un sentimento populista, aggressivo e combattivo, sembrerebbe oggi assai probabile, vista la sproporzione con cui la recessione si abbattuta sui giovani, soprattutto sui giovani uomini. Il tasso di disoccupazione in rapida crescita per le giovani generazioni non induce in errore e viene largamente dibattuto: quello che non viene invece analizzato è il continuo calo della partecipazione dei giovani adulti alla forza-lavoro durante l’ultima decade. I dati del Bureau of Labor Statistics indicano che solo due degli ultimi dieci anni hanno visto un aumento della percentuale di lavoratori tra i 20 e i 24 anni nella forza-lavoro. Il declino durante questo periodo, preso nella sua totalità, va dal 78% al 70%: anche la percentuale per la fascia d’età tra i 25 e i 34 anni si abbassata dall’85 all’81%. Allo stesso tempo, la partecipazione alla forza-lavoro è sempre stata in aumento per le generazioni più vecchie, dai 55 anni in su.

Di questi tempi, il lavoro va ai più maturi. Il profilo occupazione dei giovani Americani sta subendo un declino strutturale, che la recessione sta certamente accelerando. I proprietari di case al di sotto dei 35 anni sono scesi dal 43 al 39% negli ultimi sei anni: questo evidenzia un ostacolo alla formazione delle famiglie, che avrà effetti permanenti (la formazione di una famiglia è meno comune dopo i 35 anni). E anche per quelli che hanno trovato lavoro e formato una famiglia, la mobilità verso l’alto della scala sociale è diventata sempre più irraggiungibile. Già dalla metà degli anni’ 00, persino sui bastioni della stampa schierata con il business, si poteva leggere, da parte di affermati ricercatori, che la mobilità sociale verso l’alto era maggiore nelle economie basate su principi socialdemocratici rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti e questo accade da molto tempo. La minaccia della discesa lungo la scala sociale, nel frattempo, si ingigantisce anche tra la classe lavorativa dei colletti bianchi; in base ai dati di uno studio ben conosciuto del 2007, gli Stati Uniti avrebbero spostato all’estero 42 milioni di posti di lavoro nell’arco di un decennio.

Comunque, rimanendo sulla stessa lunghezza d’onda della situazione ambientale, la giovane America non va a votare: solo il 20% della fascia d’età tra i 18 e i 29 anni ha votato nelle elezioni di medio termine del 2010 contro il 51% del 2008 (il 2008 era un anno di elezioni presidenziali; l’affluenza alle urne dei giovani era stata del 25% nel 2006). Il susseguirsi di tagli al bilancio costerà caro ai più giovani, sotto forma di evaporazione dei sussidi di disoccupazione, dei programmi di formazione-lavoro e di alti sussidi per gli studi. Che tipo di espressione politica potrà essere generata da tutta questa disillusione? Per molti aspetti, la scena è pronta per un revival politico giovanile, vociante e progressista, simile a quello degli anni ’60. In modo tragico, il paesaggio istituzionale della politica statunitense sta facendo fallire questa specie di revival.

La capitolazione ultra-ventennale del partito Democratico ai voleri delle aziende-sponsor e la miriade di ostacoli che i Democratici e i Repubblicani hanno eretto per impedire la crescita di un terzo partito generano tutta una serie di problemi. Comunque, il forte contrasto che esiste tra l’influenza del Tea Party sulle sorti del partito Repubblicano odierno e la totale mancanza di influenza ‘progressista’ sul comportamento del presidente Obama e di quello del partito Democratico richiedono una spiegazione ulteriore. La differenza-chiave sembra risiedere nella capacità del Tea Party di presentare, durante le primarie, candidati chiassosi e vocianti che vengono opposti a personaggi più moderati, provenienti sempre dalle file dei Repubblicani. Visto che gli sfidanti alle primarie sono costretti a spendere le scarse risorse a loro disposizione per assicurarsi la candidatura, la sola minaccia di tali sfide obbliga i responsabili del partito Repubblicano a accogliere le richieste del Tea Party.

I Progressisti, dall’altro lato, non possono rispecchiare la tattica del Tea Party, semplicemente perché non ne hanno i soldi. Mentre il Tea Party ci riesce, loro non riescono a attrarre nella propria orbita i miliardari che sperano nella riduzione delle tasse e nella diminuzione delle regole sancite dal governo per le attività economiche; i Progressisti possono raccogliere qualche fondo dai sindacati e dalla rete degli attivisti, come ad esempio da Blue America, ma le somme impiegate sono irrisorie a quelle di cui dispone il Tea Party. Vista l’assenza di una legge di riforma sul finanziamento ai partiti, coloro i quali vorranno sfidare alle primarie i Democratici che sono in carica rimarranno ben pochi. Purtroppo, non c’è nessuna riforma per le campagna di finanziamento all’orizzonte.

Ignorata e tradita dall’amministrazione Democratica, la massa della popolazione che si è rapidamente radicalizzata non ha sbocchi politici. L’aumento delle convinzioni politiche di sinistra coesiste con un aumento delle adesioni a destra; mentre la crisi economica si intensifica, sembra abbastanza ragionevole prevedere ondate di migrazione anche verso il Tea Party, che ne modificheranno le posizioni retrive in modo solo marginale. Il precedente ministro del Lavoro Robert Reich ha tratteggiato un quadro sconvolgente di quello che potrebbe provocare una mobilitazione di massa e così ci allerta che la reazione violenta e distruttiva punirà tutti, anche le classi più abbienti: imporrà l’innalzamento dei dazi doganali, la remissione dei debiti internazionali, il sequestro degli asset bancari, la privazione della cittadinanza ai possessori di depositi off-shore, il divieto di portare all’estero il lavoro dagli Stati Uniti, eccetera. I sondaggi hanno evidenziato un crescente disgusto degli Americani nei confronti del Tea Party durante l’anno passato. Ma se il sistema politico non offre nessun altra possibilità?

David Kerans
Fonte: www.strategic-culture.org
Link: http://www.strategic-culture.org/news/2011/04/13/economic-stress-and-mass-politicization-leftist-or-nativist.html
13.04.2011

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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