DI GEORGE MONBIOT
TheGuardian.com
Anche se regolata – dalle leggi dall’avidità – l’industria della pesca è la più grande minaccia per i nostri oceani. Dobbiamo fare qualcosa
È il monito più importante che abbia mai ricevuto l’umanità: la fine della vita sulla Terra. La valutazione internazionale complessiva sullo stato della natura, come ci hanno detto lo scorso lunedì, dice che la vita del pianeta è entrata in una spirale di morte. Eppure nemmeno ci sorprende il fatto che questa notizia sia apparsa in prima pagina solo su pochi giornali inglesi. Di tutti i modi che usano i media per creare dei pregiudizi, il peggiore è negare l’evidenza. Più è grosso il problema, meno se ne parla.
Ma c’è una ragione per questo, infatti se dovessimo prendere piena consapevolezza della situazione in cui stiamo vivendo, vorremmo subito cambiare tutto il sistema e un cambiamento del sistema è la peggior minaccia per quelli che hanno in mano il controllo dei media. Così ci distraggono con qualche fesseria, come il royal baby o qualche brutta litigata tra vicini dello stesso pianerottolo. Spesso mi dicono che abbiamo i media che ci meritiamo. Ma non è così, noi abbiamo i media che ci propinano i loro proprietari, i miliardari.
Questo significa che il primo dovere di un giornalista sarebbe trattare argomenti dimenticati, per questo motivo vorrei parlare di quel 70% del pianeta che è stato messo da parte, anche per colpa della scarsa attenzione che abbiamo trovato nell’ultimo rapporto: i mari. Nei mari la vita sta collassando ancora più velocemente che sulla terra, ma la causa principale – chiarisce il rapporto sulla biodiversità delle Nazioni Unite – non è la plastica. Non è l’inquinamento, non è il clima impazzito e nemmeno l’acidificazione dell’oceano. Il vero problema sta nella pesca. Perché la pesca commerciale è il fattore più importante ed è quello di cui parliamo meno. La recente serie Blue Planet Live della BBC, evitando accuratamente qualsiasi ingerenza negli interessi dei potenti, ha ben sintetizzato questa reticenza. Non ha detto, infatti, una sola parola sulle industrie dei combustibili fossili o delle materie plastiche – e ha fatto solo un riferimento fugace all’industria della pesca, che è protetto da una combinazione di forza bruta e fantasia bucolica.
Quando sentiamo la parola pescatore, cosa ci viene in mente? Non pensiamo a un uomo che somiglia a Capitan Nostromo: barba bianca, occhi scintillanti, seduto su una barchetta rossa che sbuffa, allegro, mentre naviga su un mare scintillante? In questo caso, sarebbe ora che aggiornassimo l’immagine che abbiamo nella nostra mente sull’industria della pesca. Una indagine di Greenpeace , fatta lo scorso anno, ha rivelato che il 29% della quota di pescato nel Regno Unito è di proprietà di cinque famiglie, tutte presenti nella Lista dei ricchi pubblicata dal Sunday Times. Poi c’è una unica multinazionale olandese, che gestisce una sola enorme nave da pesca e che detiene un altro 24% della quota inglese. Alle barche più piccole – quelle che non arrivano nemmeno a 10 metri di lunghezza e rappresentano il 79% della flotta – resta il diritto a catturare solo il 2% del pescato.
Lo stesso vale in tutto il mondo: enormi navi provenienti dalle nazioni ricche pescano tutto il pesce che si trova al largo nazioni povere, privando centinaia di milioni di persone della loro principale fonte di proteine, spazzano via nel contempo squali, tonni, tartarughe, albatros, delfini e gran parte della vita che resta nel mare. La coltura ittica in mare ha un impatto ancora maggiore, perché i pesci e i gamberetti spesso vengono nutriti con l’intero ecosistema marino: i pescherecci dragano indiscriminatamente tutto e lo trasformano in farina di pesce.
L’alto mare – in altre parole, il mare aperto oltre i limiti nazionali di 200 miglia – è un regno senza legge. Qui le navi da pesca buttano in mare lunghi filari di ami che arrivano fino a 75 miglia, che rastrellano e svuotano il mare dai predatori e da tutti gli altri animali che incontrano. Ma anche la pesca costiera è un disastro assoluto, le leggi sono troppo lassiste e riuscire a farle rispettare è impossibile.
Per qualche anno, le popolazioni di merluzzi e sgombri nel Regno Unito aveva ricominciato a recuperare e ci avevano detto che potevamo ricominciare a mangiarli con la coscienza tranquilla. Adesso tutte e due le speci hanno ricominciato a scarseggiare. I merluzzi troppo piccoli vengono scartati illegalmente (pescati e ributtati fuori bordo) su scala industriale, con il risultato che il pescato autorizzato legalmente nei mari del Regno Unito viene probabilmente superato di circa un terzo. Lo sgombro in queste acque, grazie all’avidità senza regole della pesca, poche settimane fa ha anche perso il marchio di denominazine ecologica .
Il governo dice che il 36% delle acque inglesi sono “salvaguardate come aree di mare protette” (MPA). Ma questa protezione si riduce a semplici linee tracciate sulle carte geografiche. La pesca commerciale è vietata in meno dello 0,1% di queste false riserve. Un recente articolo sulla rivista Science Journal ha messo in evidenza che la pesca a strascico nelle aree protette europee è più intensa che non nelle aree senza nessuna protezione. Queste MPA (aree protette) sono una vera farsa: il loro unico scopo è convincere la gente a credere che i governi stanno facendo qualcosa.
Qualcuno potrebbe aver sperato, visti i fallimenti dell’Unione europea, che la Brexit avrebbe offerto qualche opportunità di fare meglio le cose (almeno in GB). Certo, ma non si è fatto niente, al contrario, mentre l’UE introdurrà un impegno di legge per impedire che qualsiasi specie ittica venga sfruttata oltre il suo tasso di riproduzione nell’anno successivo, la fisheries bill non contiene nessuna salvaguardia del genere per la pesca nel Regno Unito. Non ci sono progetti per trasformare le nostre “aree protette” in (vere) aree protette. Anzi il saccheggio dei nostri mari, semmai, potrebbe aumentare.
Quello che rende tutto veramente frustrante è che regolamentare l’industria della pesca sarebbe facile e costerebbe poco. Se fosse vietata la pesca commerciale in vaste aree del mare, il pescato totale probabilmente, paradossalmente, potrebbe aumentare per quello che i biologi chiamano effetto ricaduta. Pesci e molluschi si riproducono e raggiungono grandi dimensioni nelle arre delle riserve, solo dopo si riversano nelle acque circostanti. In altre parti del mondo, dove i mari sono protetti, il pescato è aumentato enormemente. Come si legge in un articolo sulla rivista PLOS Biology, anche se la pesca fosse vietata in tutto l’alto mare – come dovrebbe essere – il pescato totale (nel mondo) aumenterebbe, dato che i pesci aumentando di numero migrerebbero verso le acque nazionali.
E nemmeno è difficile far rispettare le regole. Come ha dimostrato il World Wide Fund for Nature, far equipaggiare, con apparecchiature di monitoraggio remoto, tutti i pescherecci di oltre 10 metri che pescano nelle acque del Regno Unito, costerebbe solo £ 5 milioni di sterline. Telecamere e sensori registrerebbero quanto e dove pesca ogni barca, rendendo impossibile la pesca illegale. Ma munirsi di questa attrezzatura è volontario. In altre parole, è obbligatorio rispettare la legge che vieta di pescare oltre le quote permesse, di ributtare in mare quello che non è commercialmente utile e pescare nelle zone di divieto di accesso, ma è volontario munirsi dell’attrezzatura che dice se si sta rispettando la legge o no. Non deve sorprendere pertanto che meno dell’1% dei pescherecci abbia accettato di mettere a bordo questo tipo di attrezzatura. E allora, visti gli enormi profitti che si ottengono tagliando le curve, c’è da sorprendersi se questa industria continua a spingere verso il baratro le popolazioni di pesci, e tutti i sistemi viventi collaterali?
Ormai sono veramente pochi i pesci o i crostacei che possiamo mangiare tranquillamente. I recenti scandali fanno comprendere che neanche l’etichetta del Marine Stewardship Council, che dovrebbe garantire la qualità del pesce che acquistiamo, è più garanzia di buona pratica. Ad esempio, il consiglio ha certificato la pesca del tonno senza vietare che vengano catturati anche esemplari di squali in via di estinzione, ai quali vengono tagliate le pinne e, nelle acque del Regno Unito, è stato approvato il dragaggio per pescare le capesante, un tipo di pesca che distrugge i fondali marini.
Fino a quando la pesca non sarà regolamentata e fatta con un minimo di correttezza, non dovremmo più dare il nostro consenso. Evitiamo di buttare i sacchetti di plastica in tutti i modi, ma se vogliamo veramente fare la differenza, smettiamo di mangiare pesce.
George Monbiot
Fonte: https://www.theguardian.com
9.05.2019
Il testo di questo articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte comedonchisciotte.org e l’autore della traduzione Bosque Primario