Shrdn, la Sardegna di (almeno) 6000 anni fa

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Di Verdiana Siddi per ComeDonChisciotte.org

Muore nel 1942 e tu vedova ad affrontare guerra e dopoguerra.
La maggiore delle vostre tre figlie ha sette anni, la più piccola tre.
A nove anni tutte a lavorare. Per tutte a diciotto il primo e a trenta il quinto figlio, o il nono.
Tuo genero è un minatore.
Te ne vai che la televisione è una perdita di tempo, una truffa impossibile, un inganno, che i medici non sanno curare e di quelle siringhe non ti fiderai mai. Te ne vai che l’auto che passa davanti a casa è come oggi una carrozza in autostrada, con te se ne vanno cose che sapevano gli antichi.

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Gli antichi scolpivano la pietra per chissà quale ragione o motivo, ma certo doveva essere importante. L’importanza risuona ancora, adesso che dei motivi e delle ragioni non conserviamo una memoria. Risuona altrove, non mente, come quella volta che un rettangolo ha destato il mio profondo interesse, era chiaro che qualcosa risuonasse, e forte.

Su Prunittu – Sorradile (OR)

Non si conosce con certezza la funzione esatta di tali ipogei artificiali, ambienti ricavati dalla roccia basaltica, nel calcare, nel granito e nel tufo, e presenti in gran parte del bacino mediterraneo, a migliaia nella sola isola di Sardegna.
Sono circa 2400 quelli attualmente ritrovati nella terra Shrdn (antico nome della Sardegna e del suo popolo), tanti altri potrebbero essere nascosti sotto i millenni.

Si parla del Neolitico, almeno. Oltre 6000 anni fa. Almeno, perché eventuali tracce di un passato antecedente potrebbero essere state occultate dagli utilizzi successivi o rimosse, perciò non è possibile attribuire con assoluta certezza un’origine temporale alla fase di realizzazione primaria (qualcuno azzarda che la realizzazione degli ipogei fosse in realtà parte integrante del rituale funerario stesso). Lavorare sui reperti e trovare chiavi di lettura di messaggi che resistono per migliaia di anni, è l’attuale direzione di ricerca dell’archeologia, diversamente non potrebbe essere.

Questi misteriosi ambienti divisi in vani e ricavati dalla roccia con grande maestria, si possono trovare isolati oppure come parte di intere necropoli; in certe aree sono stati trovati passaggi sotterranei di collegamento tra diversi ipogei, e questo induce ad ipotizzarne altri ancora sconosciuti.

Per quanto riguarda il “come le hanno fatte?” l’archeologia ci dice che dalle tracce dei residui di materiale lungo le pareti ed i soffitti, si può ipotizzare che gli ipogei siano stati scavati con scalpelli e mazzuolo. Gli stessi strumenti sono stati trovati all’interno, lasciati in un dato punto, all’apparenza non sempre casuale, dagli scalpellini che senza dubbio si direbbe fossero assidui, inarrestabili, ed alcuni anche bravi scalatori.

Su Prunittu – Sorradile (OR)

È fondamentale riportare che tuttavia in alcuni di questi siti non è emersa nessuna traccia del materiale che si ipotizza essere rimasto come residuo degli strumenti di realizzazione.

Sappiamo che gli ipogei sono costituiti da un ingresso di altezza di poco inferiore al metro, solitamente un rettagolo verticale. Le tipologie d’ingresso sono tre, a pozzetto ovvero interrato, sul piano di campagna, oppure sulla parete della montagna, in altezza. Alcuni ipogei presentano un ingresso a padiglione (area esterna prossima all’ingresso e ricavata dalla roccia) o dromos (solco scavato nella roccia), altre che definirei ad ingresso “diretto”, cioè sul piano naturale di scavo.

Is Piluncas – Sedilo (OR) – padiglione
Littos Longos – Ossi (SS) – dromos
Is Arutas, Monte Olladiri – Monastir (CA) – ingresso “diretto”

Per tornare alle cose di cui non sappiamo nulla, ovvero quelle riguardanti l’origine, vi dico che la scelta di scavare un affioramento anziché sfruttare l’inclinazione del versante della collina, oppure la parete verticale di una falesia, o ancora l’utilizzo di massi isolati con ingresso ben visibile, per l’archeologia può essere attribuibile non soltanto a ragioni tecniche, ma anche a motivazioni di tipo simbolico-spirituale.

Tomba del Capo – Bonorva (SS) – pianta

All’interno ogni ipogeo è composto da due o più ambienti, di cui uno principale o centrale, comunicanti tra loro. L’area di questi ambienti varia, come si può vedere dall’immagine precedente, l’altezza dei soffitti anche non è sempre regolare, abbiamo ambienti in cui si supera sensibilmente l’altezza umana media, altri che non arrivano al metro e mezzo.
Alcuni di questi conservano ancora i dettagli costitutivi delle decorazioni scolpite, altri ne sono privi. Laddove si trovino, queste non solo rappresentano simboli, ma suggeriscono (o dedicano) uno spazio ad elementi architettonici degli interni, come soffitti a doppia falda o semiconici, letti di sepoltura (in rilievo o scavati), riproduzione gradini, di banconi, porte o portali, etc.

Necropoli di Brodu (NU) – decorazioni
S’Angrone – Nughedu Santa Vittoria (OR) – decorazioni

L’elemento circolare che viene indicato col termine focolare è ricorrente anche se in differenti versioni

Mesu e Montes – Ossi (SS) – elemento focolare
S’Incantu, Monte Siseri – Putifigari (SS) – elemento focolare

Uno dei simboli più frequenti è quello che l’archeologia chiama toro, inizialmente frainteso con la rappresentazione stilizzata di imbarcazioni, e solo dopo divenuto oggetto di riflessioni circa il tema della virilità e della fertilità maschile [in evidente contraddizione con l’ipotesi di funzioni sepolcrali come motivo della realizzazione, a meno che non si ipotizzi che le decorazioni siano databili diversamente dal resto dello scavo, idea quest’ultima che personalmente non riesco ad escludere]. Qualcun’altro sostiene fossero elementi di protezione magica del defunto, e non simboli significanti.

Quel che è innegabile è che sono anche molto diversi fra loro e questo potrebbe alimentare il dubbio che tali simboli possano essere non solo frutto dell’evoluzione stilistica di un linguaggio, ma anche di una volontaria scelta per diversa esigenza espressiva. Il toro ritrovato ad esempio nella domus dell’Orto del Beneficio, realizzato in una delle sue versioni più simili all’animale toro, è in verità anche molto simile ad alcune incisioni trovate sulle pareti de Sas Concas ad Oniferi, in quel caso attribuite però alla rappresentazione di una figura umana (o umanoide) ribaltata.

Necropoli dell’Orto del Beneficio – Sennori (SS)
Sas Concas – Oniferi (NU)
S’Angrone – Nughedu Santa Vittoria (OR) – elemento toro

Il pozzo sacro di Santa Cristina a Paulilatino rievoca queste forme durante gli equinozi, entrando dall’ingresso e scendendo la scala ci si reca in visita all’acqua. Durante gli equinozi, che i raggi solari realizzano una proiezione del visitatore perfettamente corrispondente alla parete del pozzo, lo specchio d’acqua ribalta l’ombra della figura. Se da una parte scendendo la scala sembra di vedersi entrare con la testa nell’acqua (una sorta di simbolico battesimo pagano), dall’altra risalendole questa proiezione ascende lungo la parete del pozzo verso l’apertura, verso il cielo. È solo una mia ipotesi di assonanza tra i simboli detti taurini e la figura umana o umanoide.

Pozzo Sacro di Santa Cristina – Paulilatino (OR)
Pozzo di Santa Cristina – Paulilatino (OR) – durante gli equinozi

In alcuni siti con datazione nel Neolitico recente, il toro diventa invece un elemento quasi puramente geometrico posto come decorazione, in forma essenziale, sullo stipite superiore delle finte porte. Un esempio è S’Incantu di Monte Siseri:

S’Incantu, Monte Siseri – Putifigari (SS) – elemento toro stilizzato

Le ossa ritrovate all’interno di questi luoghi ci dicono molto del periodo in analisi, i defunti venivano deposti unitamente ad un corredo, con il capo rivolto ad est, spesso recanti tra le mani statuine votive raffiguranti la Dea Madre, e ricoperti infine di ocra rossa, come anche le pareti, i soffitti e i pavimenti. Questo è chiaro segno di una solida conoscenza del cielo e di un modo arcano d’intendere la spiritualità, definita in rituali a noi complessi da dedurre come esatta visione, proiezione del tempo, ma dei quali ci arriva l’assoluta potenza.

Necropoli di Montessu – Villaperuccio (SU)

Per il popolo sardo sia il nome che la narrazione sono diversi a seconda della località, come per molte cose, qualcuno li chiama is forrus o is forreddus, concheddas, grutas… ma sono ora comunemente chiamate domus de janas. Si badi che solo dalla prima metà dell’Ottocento son note queste “groticelle artificiali” al mondo accademico.
Le janas (fate o streghe) – il cui nome ci porta dalla dea Diana al Sudafrica, da minute fatine a donne del popolo con un sapere o un dono – tessevano fili d’oro [anime] nelle loro domus (dimore). Questo secondo la credenza popolare recente, che arriva a noi dopo stratificazioni di ogni sorta.

Dagli studi è emerso che nel Neolitico i riti funebri comprendevano una serie di azioni dirette sul corpo del defunto, anche attraverso il fuoco, che dilatassero l’attimo della morte e permettessero ai vivi il tempo di salutare l’anima cara che si metteva in cammino. Le pratiche dedotte e teorizzate dagli archeologi sono piuttosto crude e preferisco non riportarle, ma che rimanga al lettore la misura della cura che questi antenati avevano per chi andava, ma anche per chi restava ad elaborare la perdita, il lutto.
Sulla magia e sulle figure femminili che la praticavano in Sardegna il capitolo è vasto, ma nel caso delle domus de janas penso che anche prestando attenzione, non udirò il rumore dei loro telai, ma la mia immaginazione mi farà continuare a pensare che dovevano avere degli amici davvero giganti e di buona volontà, che han scolpito per loro gli occhi alle montagne.

Is Ogus de su Monti – Monastir (SU)

È chiaro che la materia è ancora limitata ad essere postuma della verità, tanto più se su queste preziose rimanenze di un pezzo radicale della Storia si preferisce produrre silenzio. Gli antichi scolpivano la pietra per chissà quale risonanza importante e noi ci facciamo cadere una bella colata di cemento per [non] preservare le pitture all’interno? [1] Lo sanno tutti che il cemento ostruisce ed impedisce la traspirazione, provoca eventi di umidità innaturale e col tempo rischia semmai di danneggiare eventuali pitture, compromettendo inoltre la stessa integrità dell’ipogeo ed impedendo fisicamente visite, studi, interventi di restauro e mantenimento.

Sa Pala Larga – Bonorva (SS)
Sa Pala Larga – Bonorva (SS)
Sa Pala Larga – Bonorva (SS)

“Un tramonto meraviglioso illuminava l’orizzonte: pareva un miraggio apocalittico. Le nuvole disegnavano un paesaggio tragico; una pianura ardente solcata da laghi d’oro e da fiumi porpurei, e sul cui sfondo sorgevano montagne di bronzo profilate d’ambra e di neve perlata, qua e là squarciate da aperture fiammanti che sembravano bocche di grotte e dalle quali sgorgavano torrenti di sangue dorato. Una battaglia di giganti solari, di formidabili abitanti dell’infinito, si svolgeva entro quelle grotte aeree: balenava il corruscare delle armi intagliate nel metallo del sole, ed il sangue sgorgava a torrenti, inondando le infuocate pianure del cielo.
Col cuore balzante di gioia Anania rimase assorto nella contemplazione del magnifico spettacolo, finché le ombre della sera, fugato il miraggio, stesero un drappo violaceo su tutte le cose: allora egli rientrò nella casa della vedova e sedette accanto al focolare.”

(tratto da “Cenere“, Grazia Deledda. 1916)

Di Verdiana Siddi per ComeDonChisciotte.org

NOTE
[1] https://www.nurnet.net/blog/sa-pala-larga-la-storia-minore-e-nascosta-di-una-necropoli-della-preistoria-sarda/

Fonti:
Corpora della antichità della Sardegna: La Sardegna Preistorica. Storia, materiali, monumenti”, a cura di Alberto Moretti, Paolo Melis, Lavinia Foddai, Elisabetta Alba. 2017

L’arte delle Domus de Janas nelle immagini di Jngeborg Mangold”, Giuseppa Tanda. 1985

Sardegna e Sicilia”, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Redazione a cura di Monica Miari. 2020

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