L’assoluzione del magrebino Daki
DI MASSIMO FINI
Allora il giudice milanese Clementina Forleo non era una mezza matta o addirittura una simpatizzante della jihad, come strillò scandalizzata, la destra quando lo scorso gennaio assolse Mohammed Daki e altri due magrebini dall’accusa di “terrorismo internazionale”, pur condannandoli per altri reati, quali la ricettazione di passaporti falsi e la alterazione di documenti ad uso di immigrati clandestini. La terza Corte d’assise d’Appello di Milano ha infatti confermato la sentenza di primo grado, assolvendo peraltro Daki da tutte le imputazioni condannando gli altri due per i reati minori.
Si tratta di sentenze importanti perché operano una distinzione fra guerriglia e il reato di “terrorismo internazionale” introdotto in Italia dopo l’11 settembre.
Il nuovo articolo del nostro Codice penale (270 bis) non specifica cosa si intenda per “terrorismo internazionale”, ed è toccato quindi ai giudici, di merito, mettere i paletti per definirlo.
È stato infatti accertato che Daki e gli altri reclutavano elementi per rifornire l’organizzazione “Al Ansar Al Islam” che in Iraq combatte contro gli occupanti angloamericani e italiani. Per il Pm milanese Stefano Dambruoso questo era sufficiente per considerare i tre complici del terrorismo. Ma “Al Ansar Al Islam” in Iraq fa soprattutto guerriglia e solo marginalmente atti di terrorismo e non c’era nessuna prova che gli elementi reclutati da Daki e gli altri avessero partecipato a questo tipo di azioni. I giudici hanno quindi applicato innanzitutto il principio generale del diritto secondo il quale nessuno può essere condannato se nei suoi confronti non sono state raccolte prove che ne dimostrano la colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ma così facendo hanno anche operato, implicitamente ed esplicitamente, una distinzione fra guerriglia e terrorismo, perché era provato “oltre ogni ragionevole dubbio” che Daki e i suoi reclutassero elementi che andavano a combattere in Iraq contro gli occupanti.
La Forleo aveva motivato la parziale assoluzione dei tre magrebini – e non c’è dubbio, anche grazie ad autorevoli indiscrezioni, che la Corte d’Appello ne abbia ricalcato l’impostazione – affermando che “Condannare come terrorismo ogni guerriglia violenta significherebbe negare l’elementare diritto di resistenza all’occupazione di truppe straniere” e quello dell’autodeterminazione dei popoli solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e firmato da quasi tutti gli Stati del mondo. “È guerriglia – diceva la sentenza della Forleo – quando l’attacco violento è indirizzato su obbiettivi militari, è terrorismo quando colpisce indiscriminatamente militari e civili”.
Fin qui le sentenze. Io andrei più in là, comprendendo nella guerriglia anche gli atti violenti che avendo principalmente obbiettivi militari coinvolgono anche civili. Altrimenti dovrebbero essere condannati anche i militari americani ogni volta che le loro “bombe intelligenti” o i “missili chirurgici” provocano i devastanti “effetti collaterali” che conosciamo.
Mi pare che queste sentenze dei giudici italiani in materia di guerriglia e terrorismo, anche se possono sconcertare un’opinione pubblica ormai imbottita di propaganda e fanno gridare allo scandalo i “falchi” di casa nostra fra i quali ci spiace annoverare il Pubblico ministero Dambruoso che vorrebbe istituire delle Corti speciali per questo tipo di reati (i Tribunali Speciali c’erano sotto il fascismo e sono vietati dalla nostra Costituzione), siano quanto mai opportune in questi tempi confusi, perché restituiscono il suo posto e, oso dire, la sua dignità alla guerra i cui atti non possono essere penalmente valutati alla stregua del diritto vigente in tempi di pace. Altrimenti tutti i combattenti sono degli assassini, potenziali o reali. Queste sentenze restituiscono anche valore al concetto schmittiano di “iustus hostis” per cui il nemico è il nemico, ed è quasi legittimo ucciderlo, ma non è, per ciò stesso, un criminale, che è invece la linea americana da Norimberga a Guantanamo passando per Milosevic. Una linea secondo la quale la guerra è tale solo quando la facciamo noi occidentali (anzi, se conviene, non è nemmeno guerra ma “operazione di pace”) mentre quando la fanno gli altri contro di noi è sempre e solo terrorismo e crimine.
In margine alla sentenza della Corte d’Appello, Daki ha lanciato accuse gravissime, affermando che il Pubblico ministero Dambruoso lo ha fatto interrogare per due giorni, senza l’assistenza del difensore, da agenti americani “che dicevano di essere dell’Fbi” ma che secondo lui erano uomini della Cia fra cui c’era anche quel “Bob” accusato di aver rapito, in Italia, l’egiziano Abu Omar per consegnarlo, via la base extraterritoriale americana di Aviano, alle prigioni e alle torture del suo paese.
Vogliamo sperare che le affermazioni di Daki appartengano alla malabitudine degli imputati ormai invalsa in Italia proprio grazie al cattivissimo esempio di alti e altissimi esponenti della nostra classe dirigente, di accusare i propri giudici. Però la smentita di Dambruoso è stata debole: il Pm nega che l’imputato non fosse assistito dal difensore, ma tace sul fatto che gli interrogatori venissero condotti da uomini dell’Fbi e della Cia. Se così fosse sarebbe un fatto di una gravità eccezionale, giuridicamente e politicamente, una ulteriore lesione alla nostra sovranità nazionale; già abbondantemente compromessa dai disinvolti comportamenti americani. E di questo ci sarebbe da menar scandalo da parte dei nostri ipernazionalisti a corrente alternata invece di prendersela, more solito, come fa il ministro Calderoli, con le sentenze e i giudici “di manica larga” (che poi, quando assolvono o prescrivono i reati di “lorsignori” ridiventano invece dei sacrosanti “garantisti”).
Massimo Fini
(www.massimofini.it)
Fonte: www.gazzettino.it
30.11.05
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