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DI GIAMPAOLO PANSA

liberoquotidiano.it

Non credevo di invecchiare con la paura di diventare povero. Invece sta accadendo proprio questo. Quando ero più giovane, l’ultimo dei miei pensieri riguardava la mancanza di denaro. Non me ne preoccupavo. Lavoravo per grandi giornali che non avevano problemi di cassa. E offrivano a chi era ritenuto utile e bravo stipendi generosi che i miei giovani colleghi di oggi non percepiranno mai. Avevo una sola cautela: non spendere tutto quello che guadagnavo. Mio padre Ernesto, cresciuto da bambino orfano di un bracciante insieme a cinque fratelli, mi aveva insegnato a risparmiare. E io lo facevo, mettendo da parte una quota del mio stipendio. Non ero un esperto di finanza. Mi limitavo a entrare in una banca che mi sembrava solida e aprivo un conto corrente.

Il timore di diventare povero la constatai per la prima volta un giorno del luglio 1992. Un anno disgraziato per l’Italia, ma fortunato per noi giornalisti. In febbraio era emersa Tangentopoli e il pool giudiziario di Milano, guidato da quel sant’uomo di Francesco Saverio Borrelli, stava portando in carcere vagonate di politici corrotti. In marzo, a Palermo, venne assassinato Salvo Lima, il democristiano più potente in Sicilia. In maggio, nell’attentato mafioso di Capaci, morì Giovanni Falcone insieme alla moglie e alcuni agenti di polizia che lo scortavano. Il 19 luglio fu la volta del magistrato Paolo Borsellino, assassinato con un’auto bomba.
Nove giorni prima dell’assassinio di Borsellino, il governo di centro sinistra guidato da Giuliano Amato ci presentò un regalo mai visto prima, almeno in Italia. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1992, attuò un prelievo improvviso e forzoso del sei per mille su tutti i conti correnti bancari di qualunque importo, da quelli maxi a quelli miseri. Era un brutto momento per la lira e il governo doveva varare una manovra pesante che a conti fatti sarebbe stata di centomila miliardi di lire. Il prelievo fruttò allo Stato appena undicimila e cinquecento miliardi di lire.

Servirono a qualcosa? Confesso di non ricordarlo. Però rammento bene la conferenza stampa di Amato, per annunciare ai media il prelievo già avvenuto nella notte. In quel momento il premier aveva 54 anni e a me piaceva. Ne apprezzavo l’acutezza che gli era valsa il soprannome di Dottor Sottile. Ma anche il secondo appellativo, il Topo, in fondo rendeva onore alla sua rapidità di comprendere subito quanto stava avvenendo. Era un uomo di Bettino Craxi, certo, però del genere non servile. E il leader socialista lo rispettava.

Su quella conferenza stampa ho ritrovato un vecchio articolo di Elena Polidori, una signora deliziosa e sempre molto informata, la numero uno della squadra economica e finanziaria di Repubblica. Elena raccontò ai propri lettori che il Dottor Sottile non sembrava più lui. Si muoveva a scatti. Picchiava i pugni sul tavolo. Fece saltare il castelletto dei microfoni. Intimò ai cronisti di smetterla di parlare tra loro. Poi chiese scusa per il salasso che aveva imposto a tutti i risparmiatori, anche ai più deboli.

Adesso siamo all’inizio di un altro luglio e nessuno sa prevedere come si concluderà. Anch’io temo che il governo, nonostante le vanterie rassicuranti del premier Matteo Renzi, voglia mettere le mani sui miei risparmi in banca. Ma che cosa posso fare per impedirlo? Potrei svuotare il mio conto corrente e nascondere gli euro sotto il materasso. Però, se ci penso e mi guardo allo specchio, vedo un vecchio signore spaventato che non sa più a quale santo votarsi. La verità è che ho perso fiducia nelle banche e non soltanto in quelle italiane.

Sono anch’io schiavo del “Complesso Etruria”. Provocato dallo choc del fallimento di quella banca toscana della quale a Palazzo Chigi non si parla mai, perché evoca sempre il padre della ministra Maria Elena Boschi, la preferita di Renzi. E qui voglio raccontare una storia che non ho mai narrato. Ha per protagonista un signore toscano, lettore dei miei libri revisionisti sulla guerra civile. Mi aveva cercato nei giorni del crack, poi era venuto a trovarmi. Voleva che ascoltassi quello che gli passava per la testa.
Lo chiamerò Guido, settant’anni, scapolo, ormai in pensione dopo aver lavorato tutta la vita come operaio specializzato negli impianti petroliferi, spesso su piattaforme in mezzo al mare o all’interno di qualche deserto. Era sempre stato un risparmiatore e la sua piccola ricchezza l’aveva affidata a una banca di Arezzo, la sua città: l’Etruria.

In quell’istituto Guido conosceva tutti perché era uno dei correntisti di più vecchia data. Si fidava del direttore e dei funzionari. E accettò di sottoscrivere un certo numero di obbligazioni subordinate, che offrivano un interesse superiore ad altri investimenti. Ma un giorno, aprendo il giornale, scoprì che la sua banca non gli avrebbe più restituito l’importo di quelle obbligazioni. E una settimana dopo apprese che un altro risparmiatore nelle sue stesse condizioni si era impiccato.

Guido mi disse: «È stato allora che ho meditato di vendicarmi». «In che modo?» gli domandai. «Adesso glie lo spiego, dottor Pansa». E mi espose un piano folle. «Per prima cosa la farò pagare cara a un giornale finanziato da quella banca. Mi preparerò tre bottiglie Molotov e, di notte, incendierò la tipografia che lo stampa. Poi metterò in atto un sistema usato dai primi terroristi delle Brigate rosse. Compilerò un elenco nominativo dei dirigenti e dei funzionari della banca, colpevoli di aver tradito i correntisti. Ne farò cento copie e di notte andrò ad affiggerli in tutto il centro di Arezzo. Quindi farò la posta a uno dei vicedirettori, quello che mi ha convinto ad acquistare le maledette obbligazioni subordinate. Frequenta una ragazza allegra e va a trovarla il martedì e il venerdì. Lo aspetterò quando lascia la casa della squillo e lo massacrerò con una mazza da baseball. Lui crollerà a terra e gli metterò accanto un biglietto che dice: “Colpirne uno per educarne cento”, lo slogan preferito dai brigatisti. Infine ammazzerò a rivoltellate il direttore della banca. In questo modo, la mia vendetta sarà completa».

Gli spiegai che era pazzo: la polizia l’avrebbe scoperto e lui si sarebbe beccato l’ergastolo. Il fantasma del carcere a vita lo calmò. Non mise in atto nessuna delle rappresaglie che aveva immaginato. Ma compresi che la disperazione dei risparmiatori traditi poteva suggerire qualunque colpo di testa. Adesso si ricomincia a parlare di banche in difficoltà. Se ne parla persino troppo. Ma è fatale che certi nodi vengano al pettine. Tuttavia non credo sia giusto che a pagare siano i soliti noti. Ossia gli italiani per bene che si sono sempre comportati onestamente. Sono molto meglio dei boss politici nulla facenti. Lo dico da sempre, senza nessun risultato. Cinque anni fa ho pubblicato con la Rizzoli un libro dal titolo esplicito: Poco o niente. Eravamo poveri. Diventeremo poveri. Spero di aver sbagliato previsione. Ma se dovesse accadere, la Casta politica, dal premier Renzi in giù, non creda di cavarsela con qualche voto in meno. Deve sapere quel che può succedere: se toccano i nostri risparmi, milioni di italiani gli daranno la caccia. E non voglio neppure immaginare l’inferno che ne verrà.

Giampaolo Pansa

Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/

4.07.2016

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