SE IL PIANETA MUORE DI BISTECCA

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DI MARIO TOZZI
La Stampa

Proviamo a riflettere ancora una volta sulla scelta degli uomini di «sacrificare» animali in grandi quantità in occasione delle feste comandate, magari appena dopo un digiuno o un venerdì «di magro». Atteso che quasi nessuno ricorda più neppure lontanamente l’eventuale origine religiosa o tradizionale, resta l’ecatombe priva di senso logico e del tutto fuori linea rispetto al futuro ambientale del pianeta. Non è questione di empatia con altri esseri viventi. Non è, in altre parole, questione di decine di migliaia di agnelli sgozzati, di centinaia di migliaia di maiali dissanguati e milioni di polli costretti a vivere tutta la loro vita nello spazio di un foglio A4: nessun animale si comporta così verso gli altri, e già questo uso industriale e massivo di altri viventi ci porrebbe oggettivamente fuori dal corso naturale della storia del pianeta.

Il fatto è che gli uomini non nascono carnivori né predatori, al contrario, come testimoniamo i ritrovamenti paleontologici per anni male interpretati: noi eravamo oggetto della caccia di tigri dai denti a sciabola insieme ai mammuth, non gli uccisori degli altri. Dentizione, lunghezza dell’intestino e molti altri caratteri testimoniano che eravamo destinati a mangiare vegetali e solo occasionalmente proteine di origine animale, carogne o animali malati cacciati per caso, un po’ come fanno altri primati.

Non è neppure questione di salute, sebbene da tempo i dati medici espongano molto chiaramente che un eccesso di consumo di carni produca malattie cardiovascolari, diabete e tumori. I tre milioni di danesi che furono costretti dall’embargo del 1917 a una dieta di patate e orzo (da grandi consumatori di burro, latte e carni bovine che erano) videro ridotto il tasso di mortalità di quasi il 35%. Come a dire che vivere al vertice della scala delle proteine è piuttosto un rischio che non un vantaggio. Nelle culture carnivore occidentali l’incidenza del tumore al colon è dieci volte superiore a quella delle culture vegetariane asiatiche, tanto da arrivare alla conclusione che la sola quantità ottimale di consumo di carne rossa è zero.

E’ un’altra, però, la ragione per abbattere il consumo di carne. E’ una ragione ambientale nel senso più ampio del termine. Per allevare il complesso bovino mondiale, composto da quasi un miliardo e mezzo di capi, ci vogliono pascoli sempre più ampi: ma dove li impiantiamo, visto che la superficie di terre emerse è sempre quella e che, anzi, la terra migliore, quella più fertile e più vicina alle fonti d’acqua, è già virtualmente esaurita? Pervicacemente si sottraggono territori sempre più ampi alle foreste tropicali e pluviali, che però reggono uno sfruttamento industriale solo per cinque o sei anni, dopo di che non sono più fertili e dunque spingono a disboscare nuove terre. La carne sottrae foresta al mondo, visto che per ottenerne 1 kg ce ne vogliono 9 di mangimi: gli animali di allevamento non consumano liberamente erba come si crede, ma vengono «finiti» (come si dice) a cereali. E a chi verrano sottratti quei cereali, se non ad altri uomini, che per questo patiranno la fame? Un manzo di allevamento di 500 kg ha consumato 1200 kg di granaglie, come a dire che, solo negli Usa, 157 milioni di vegetali, che potrebbero essere consumati dagli uomini, finiscono invece a produrre 28 milioni di tonnellate di carne. E per allevare un manzo ci vuole tanta acqua quanto quella che serve a far galleggiare un incrociatore. Ha un senso tutto questo in un pianeta in cui sono milioni coloro che non hanno il mais per sopravvivere, mentre altri si devono mettere a dieta per ridurre i rischi del consumo di carne? Desertificazione, disboscamenti, sprechi d’acqua, alterazioni degli ecosistemi, inquinamento delle falde, incremento dei gas serra sono questi i veri motivi per cui dovremmo ridurre il consumo di carne. Ma mettere in conto i danni ambientali della bistecca è un tabù che nessuno si sogna di discutere seriamente.

Mario Tozzi
Fonte: www.lastampa.it
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25.03.08

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