DI GIANLUCA BIFOLCHI
Uruknet
Il discorso di Romano Prodi tenuto oggi a Gerusalemme al termine dell’incontro con Ehud Olmert era incentrato sugli attacchi ai negatori della Shoah , sui riferimenti agli Israeliani come “il popolo ebraico” senz’altro, e sul diritto di Israele ad esistere nella sicurezza. Ad un giornalista che glielo chiedeva ha risposto che l’Italia, attualmente al comando della missione UNIFIL in Libano, è pronta a modificare le regole di ingaggio se l’ONU lo richiederà, e la contemporaneità di questa dichiarazione con l’affermazione di Sarkozy che Hezbollah deve “rinunciare al terrorismo” suggerisce che il tipo di cambiamenti a cui Prodi stava pensando non riguardano l’uso di missili antiarei contro le violazioni dello spazio aereo libanese da parte dell’aviazione israeliana.Alla pratica degli assassini mirati che in queste ore Israele sta praticando con molto zelo nella West Bank e nella Striscia di Gaza Prodi non ha dedicato alcun commento. Peraltro, dato che nei giorni precedenti a questa visita di stato in Israele la Grande Stampa Libera italiana ha dedicato dotte riflessioni sull’aberrazione morale di quei medici britannici di origine arabo-musulmana che vengono meno al giuramento di Ippocrate e mettono a repentaglio le vite e l’incolumità fisica di innocenti con atti terroristici, sarebbe stato interessante sapere cosa Prodi pensa dei malati gravi al valico di Rafah — sigillato da Israele — che dopo un viaggio della speranza in Egitto, sono abbandonati e lasciati a morire senza assistenza nel deserto. Ma anche su questo, Prodi non ha fatto commenti. Sappiamo che ha espresso “soddisfazione” per la decisione di Israele di rilasciare 250 detenuti palestinesi, scelti in base al criterio di affiliazione a Fatah, cioè la cupola dell’OLP, l’Organizzazione per la Libagione della Palestina. Fa indubbiamente piacere sapere che i rilasciati non hanno le “mani macchiate di sangue ebraico”, ma sarebbe interessante sapere cosa ci facevano nelle prigioni israeliane dato che la Convenzione di Ginevra impedisce il trasferimento all’estero di residenti in zone di occupazione militare, e che le condizioni di cosiddetta “detenzione amministrativa” a cui erano soggetti non contemplano né un processo né la formalizzazione di accuse. Prodi avrebbe potuto chiarire l’enigma per noi facendo una semplice domanda, ma deve essersene dimenticato.
Aspettiamo comunque che, come già accaduto mesi fa in occasione della vista di Olmert a Roma, l’emittente televisiva israeliana Channell 10 mandi in onda la nuova Candid Camera in cui si vede Olmert che imbecca il Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana prima della conferenza stampa.
Sul personaggio sarebbe ora che anche gli ultimi illusi aprissero gli occhi e si rendessero conto come il sempre più liso velame di bonomia cattolico-bolognese non può più nascondere la trama personale di amoralità e assoluto cinismo. Sul piano politico, il viaggio in Israele fornisce la misura di quanto qualsiasi atto da parte dell’Europa che ponga pressioni su Israele per un serio impegno in veri negoziati di pace, per non parlare della denuncia della natura di regime apartheid di Israele, sia completamente fuori dalla rosa delle opzioni contemplate. Da oggi è vietato dire che l’Europa ha “rinunciato ad esercitare il suo ruolo”. L’Europa svolge un ruolo quanto mai attivo nel sostenere Israele nelle sue politiche di espansionismo, annessione, genocidio, pulizia etnica, apartheid, e discriminazione razziale dei suoi stessi cittadini di origine araba.
Perché l’Europa abbia adottato una politica di tale sfacciata luogotenenza agli interessi USA e israeliani, proprio nel momento di più profonda e disperata sofferenza della Palestina dai giorni della Nakba, una sofferenza a cui spesso in passato si è mostrata sensibile anche se in modo sterile e inconcludente, non è facile da spiegare. E’ come se di fronte all’insuccesso dei deboli e futili tentativi attuati nei decenni per moderare il progetto sionista di avida espropriazione e pulizia etnica del popolo palestinese, abbia ora deciso la linea del “colpo di grazia” per sbarazzarsi definitivamente del problema e non pensarci più.
In un’intervista rilasciata alla New Left Review nei giorni immediatamente successivi alla Guerra dei Sei Giorni, l’intellettuale ebreo marxista Isaac Deutscher sosteneva che la paranoia degli Israeliani per la propria sicurezza, e l’idea che l’unico modo di andare d’accordo con gli Arabi era di atterrirli con la propria potenza militare (il cui potere di deterrenza doveva essere “dimostrato” di tanto in tanto, cogliendo la prima occasione propizia), non appartenevano in principio al modo di pensare degli Ebrei di recente immigrazione. Il diffondersi di una tale mentalità fu piuttosto il risultato di una insistente campagna dei loro leader politici, che avevano bisogno di creare un grande consenso alle politiche di espansione di Israele, che andavano molto oltre le porzioni di territorio assegnate dal Piano di Partizione del 1947. Questa campagna, a sua volta, ebbe successo perché trovava un terreno estremamente fertile nel senso di colpa che gli Ebrei provavano verso quei Palestinesi che avevano scacciato dalle proprie case e dalle proprie terre, riducendoli ad un popolo di apolidi. C’erano due modi per fare i conti con questo senso di colpa: riconoscerlo e cercare di compensare in qualche modo l’ingiustizia che era stata commessa con un compromesso che tenesse conto dei bisogni di tutti e due i popoli; o altrimenti negarlo, affidando alla potenza militare il compito di evitare ritorsioni.
L’Europa si è trovata ad una svolta simile a quella descritta da Deutscher per Israele. Come le prime generazioni di Israeliani prova verso i Palestinesi un grande senso di colpa, e ne ha ben donde anch’essa. Poteva riconoscere i suoi peccati di omissione ed impegnarsi in un nuovo attivismo diplomatico volto a promuovere pace e giustizia. Ma ha scelto di guardare dall’altra parte mentre il boia prende la mira per sparare alla nuca dell’agonizzante popolo palestinese.
Gianluca Bifolchi
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09.07.2007