DI GIULIETTO CHIESA
megachip.info
Pubblico (attraverso i link qui sopra) tre interventi di Paolo Barnard che mi riguardano direttamente, anche per dimostrare subito che Megachip non censura niente, come non ha mai censurato niente. E anzi ha spesso pubblicato le cose che Barnard ha scritto. Cominciando dal pezzo più breve, e più sbrigativo, laddove afferma alcune cose curiose, come quella secondo cui Alternativa sarebbe «non una parrocchietta, ma una parrocchiona», da me guidata.
No, purtroppo Alternativa non è così grande come forse se la figura Barnard, anche se non mi pare abbia l’aria di una “parrocchiona”.
La seconda cosa curiosa è quella successiva, che riferisce di “gente” che gli scrive “in privato” per dirgli di essere “disperata” per quello che io faccio (e sono), presumo, e per dargli ragione.
Immagino che quelle lettere le abbia ricevute davvero, ma mi domando: perché sono disperati? Hanno un modo molto semplice di uscire da quella disperazione: dirmelo, facendo le loro legittime rimostranze. C’è bisogno di disperarsi e di andare a piangere sulle spalle di Paolo Barnard? Il quale, rivelando gentilmente questa, per me importante, notizia, sembra pensare che io abbia una qualche milizia segreta che impedisce a questi poveri militanti della”parrocchiona” di poter esprimere liberamente i loro pensieri all’interno della stessa. Rassicuro lui e gli autori delle disperate missive (quante siano, purtroppo, Barnard non ce lo dice) che c’è un modo semplicissimo per tranquillizzarsi, oltre a quello di parlarne con franchezza dove ritengono opportuno (pubblicamente, privatamente, in una riunione, telefonandomi, scrivendomi qualche mail): questo modo addizionale e oltremodo sicuro è quello di andare a cercarsi un’altra parrocchietta dove sentirsi meno disperati. Semplice no?
È ben vero – come si dilettano a ricordarmi, a mo’ di rimprovero, tutti i miei antagonisti televisivi – che ho lavorato per vent’anni a Mosca, ma questo non significa che io abbia la possibilità di ricreare un gulag in Italia dove incarcerare i dissidenti disperati di Alternativa.
E qui veniamo a una delle lettere più lunghe, direttamente rivoltami con un intreccio complesso di complimenti e rimproveri. Dei complimenti, che mi assicurano «un 10 e lode», ringrazio umilmente, sebbene io faccia fatica a vedermi ritratto come «talmente established da essere perfino sospettato di contatti ambigui con ambienti dei servizi USA e dell’Est». Come suol dirsi: dagli amici mi salvi Iddio che dagli amici mi salvo io.
Ma qui finiscono i complimenti e comincia la ramanzina. Ora, io vorrei qui rivelare, al colto e all’inclita, che non mi sono mai permesso di rivolgermi a Paolo Barnard con la minima critica. Ho letto qualche cosa da lui scritta e mi sono taciuto. Ho solo risposto, mi pare sempre con grande rispetto, alle numerose sollecitazioni che mi sono giunte, in tempi molto diversi, a trovare un linguaggio comune con lui o addirittura a trovare un’intesa operativa. Ho sempre risposto che apprezzavo il valore delle analisi di Paolo Barnard, ma che era stato fino a quel momento impossibile ogni contatto. Coniugato, a suo tempo, con una sua dura polemica nei miei confronti per il lavoro che stavo facendo sulla vicenda dell’11 settembre. Non ho mai risposto. Mi limitai a dire, in qualche occasione, che deprecavo il suo voler restare isolato. Scelta che ritenevo e ritengo tuttora molto sbagliata.
Ci fu un caso, che rimase privato, in cui gli scrissi direttamente, proponendogli una qualche forma di cooperazione. Avvenne quando Alternativa ancora non esisteva, e quindi non potevano esserci nemmeno sospetti di un tremendo lager dove io volessi rinchiudere lui e altri. La risposta, debbo ricordare, fu molto secca e senza spiragli possibili di ulteriore dialogo. Ma non per questo io ne feci pubblica polemica. Ognuno è libero di fare (o di non fare) quello che ritiene opportuno.
Adesso, finalmente, scopro che Paolo Barnard ritiene che noi «siamo su piani metodologici inconciliabili». Il che non gli impedisce di esigere da me “assolutamente” di correggere i miei difetti. Alcuni dei quali, in effetti, esistono. Qualche volta, in questi ultimi anni di militanza, premuto da richieste forti, ho trascurato qualche verifica, che sarebbe stata salutare. Ho quindi fatto qualche errore – alcuni gravi – che ho dovuto correggere con qualche pena (perché sbagliare è sempre una pena). L’ho fatto sempre però, per dovere. Non ritengo scandaloso che me li si faccia notare. È legittimo, nei confronti di chiunque abbia scelto una esposizione pubblica, chiedergli conto dei suoi errori.
Ho solo, a mia parziale scusante, la mia “militanza”, cioè l’esigenza di dare risposte ai moltissimi interrogativi che tanti hanno, e ai quali nessuno sa rispondere in questa fase storica, senza guide affidabili, senza un corpo consolidato di certezze, quando tutti i paradigmi del passato sono già franati e quelli nuovi, che sarebbero indispensabili, ancora non ci sono.
Certo il maestro Paolo Barnard potrà dunque dirmi che ho avuto fretta, che non ho approfondito abbastanza, che la fretta “gioca scherzi brutti”, e che “bisogna studiare molto”. Tutto giusto. Vedrò di emendare le mie baldanze giovanili. Non senza, però, aggiungere che una reprimenda di tale durezza e anche corroborata da una discreta dose di paternalismo, dovrebbe essere misurata “sulla carriera”, proprio perché “siamo vecchi”. Quanti errori ho dunque fatto, caro Barnard, per meritare la tua insufficienza? Non so, aspetto l’elenco, in particolare modo sui miei vent’anni moscoviti, che sono stati quelli in cui ho imparato a fare analisi, cioè il “metodo”. O in quelli parlamentari. O in quelli degli ultimi anni. Raramente, debbo dire, mi sono trovato di fronte a tanta disinvoltura nel dare giudizi. Ma non è una tragedia.
E anche nel merito, che adesso affronto. Intanto la prima polemica si basa su un’intervista. Le interviste contengono errori che non sempre sono imputabili a chi parla. Quella delle banche centrali che emettono bond, per esempio, è un errore non mio. O, siccome è stata la trascrizione di un colloquio telefonico, può essere stato il frutto di una incomprensione. Bene, comunque cosa veniale. Forse Barnard avrebbe potuto meglio affidarsi alle cose che ho scritto di mio pugno, che sarebbe stato più facile impugnare.
Ma il resto dei rilievi è – con tutta franchezza – quanto di più opinabile si possa immaginare.
E pensare che su queste sabbie mobili si possa costruire una tale intemerata nei miei confronti è davvero cosa che mi stupisce a mi induce a proporre, a mia volta, alcune domande.
Io non so, per esempio, da dove Barnard estrae la cifra di 29 trilioni di dollari che sarebbero costati alla FED per “comprare gli assetts tossici delle banche americane”. Può essere una buona fonte, oppure no. Barnard non la cita.
Io ho un’altra fonte che parla di 16 trilioni. La fonte è il sito del senatore Bernie Sanders. Come me hanno ritenuto attendibile quella cifra diversi esperti qualificati, che ho già citato nella mia replica, pubblicata su Megachip.info, rispondendo a un gruppetto di botoli arrabbiati che seguono le mie tracce con particolare perseveranza.
Li ricordo qui a edificazione loro e di Paolo Barnard: Luciano Gallino (“Tutto inutile senza la riforma della finanza”, 15 ottobre 2011) che, tra l’altro, scrive: «i gruppi finanziari salvati dallo stato a suon di trilioni di dollari e di euro spesi o impegnati (più di 15 in USA, almeno 3 nella UE)»; un autorevole investitore di Hong Kong, Puru Saxena, che conteggia, nello stesso modo mio, i trilioni di dollari inventati dalla Fed; un noto economista indiano, C.P. Chandrasekhar (“The Fed as Santa Claus”). Oltre, naturalmente, lo stesso Sanders. E potrei continuare, ma si possono trovare altri sostegni analoghi sui materiali pubblicati da Megachip.info.
Ma anche questa è cosa veniale. Mentre meno veniale è la notevole sicurezza con cui Barnard decreta che l’operazione che io ho descritto (definita, con un termine davvero screditato dalla storia delle manipolazione moderne come “teorema”) è “impossibile”. E perché sarebbe “impossibile”? Perché – scrive Barnard – quei denari «stanno lì, non possono essere spesi dalle banche all’esterno. Con quei soldi non possono correre a comprare bonds europei da chicchessia in Europa». Il resto del ragionamento di Barnard qui non lo cito, chi vuole se lo vada a leggere nei link.
Da tutto questo, in primo luogo, emerge che Barnard crede che la FED, e i giganti di cui stiamo parlando, abbiano rispettato le regole. Mi pare che sia un suo postulato permanente, come emerge anche da altri rilievi che egli mi muove nella terza lettera, denominata gentilmente «autopsia». Postulato che io suggerirei di utilizzare con maggiore parsimonia.
Pensare che – in questo casinò che è la finanza mondiale, che John Kenneth Galbraith definì “l’economia della truffa” – ci sia chi rispetta le regole, specie quando va in bancarotta l’intero sistema, mi pare un troppo alto livello di fiducia nello schema Ponzi.
C’è più d’un motivo per ritenere che quello che Barnard ritiene “impossibile”, sia invece risultato molto possibile. Se perfino Alan Greenspan, che di queste cose certo s’intende più di me, ma anche di Barnard, disse, andandosene in pensione (si fa per dire) che “non ci ho capito niente”, qualche ragione di perplessità su queste certezze ritengo di poterla sollevare.
Ovvio che la FED non aveva affatto, “al suo interno”, quelle immense quantità di bond dei debiti pubblici europei. E altrettanto ovvio che le banche USA (e non solo loro, perché la FED rifinanziò, con quei 16 trilioni, tutte le banche occidentali più importanti) comprarono immense quantità di titoli europei di ogni sorta e tipo, «emettendo propri titoli di debito». Ma come avrebbero potuto indebitarsi di nuovo, dopo essere fallite, se non ci fosse stata la copertura di quel gigantesco rifinanziamento? Con quali trucchi lo abbiano fatto non mi è noto.
Ma, a sostegno di quanto ho affermato, ci sono fonti insospettabili e pubbliche che hanno descritto il meccanismo (o “teorema”) che io non potevo avere inventato semplicemente perché l’ho letto su quelle fonti.
Del resto proprio megachip.info (“Prestiti segreti della Fed, le banche hanno guadagnato 13 miliardi”) ha dato rilievo ai dati sui prestiti concessi dalla Fed ai principali colossi bancari durante la crisi del 2008, rivelando che i fondi sborsati nel mese di marzo 2009 ammontavano a circa 7,7 trilioni dollari aggiungendo che «gli attivi totali detenuti dalle sei maggiori banche USA sono aumentati del 39 per cento fino a raggiungere il valore di 9,5 trilioni di dollari alla data del 30 settembre 2011, rispetto ai 6,8 trilioni dello stesso giorno del 2006, in base ai dati della FED». Cosa significa questo? Che gl’interventi della FED, comunque siano stati gestiti, sono serviti, eccome!, per ricapitalizzare le banche, e questo, a sua volta, ha rimesso in moto la macchina del debito. Del resto chi poteva impedirglielo? Quale trasparenza vi è stata in tutta questa serie di operazioni?
Lo stesso documento (che i sopra citati botoli arrabbiati mi hanno rinfacciato, dicendo che non era vero niente, che i 16 trilioni non esistettero perché in realtà la FED aveva erogato non proprio quelle cifre ma tranches di gran lunga minori, rinnovate di mese in mese, o di giorno in giorno) rivela che ci furono operazioni assai complesse, assai differenziate, assai articolate, e non semplicemente acquisti giganteschi di asset tossici da tenere immobilizzati per l’eternità. Si vedono in trasparenza partite assai più complicate, che sono state giocate in questi tre anni, in gran parte Over-The-Counter, cioè fuori da ogni controllo (anche di quei controlli ridicoli che le banche si sono assicurate a copertura delle loro truffe). Basare l’analisi su quello che i rapinatori hanno detto di avere fatto è fare come il giudice che affida le sorti della sua sentenza alle confessioni dell’assassino.
Ma Barnard incalza. E respinge, con sdegno, perfino le date di riferimento che, per pura comodità avevo scelto. Parlo della legge Glass-Steagall del 1933 cancellata da Clinton? Bacchettata sulle dita: la data di riferimento è un’altra, sentenzia. Bisognerà che avvisi Luciano Gallino (“Con i soldi degli altri”). Abbiamo sbagliato in due. Disputare su questo è come pretendere di fissare la fine dell’intero Medioevo al momento in cui il marinaio della caravella di Colombo gridò “Terra, terra!” Erano le quattro o le cinque del mattino?
Ecco, ho capito, io non sarò mai in grado di laurearmi all’università di Barnard. Ma siccome non mi ci sono mai iscritto penso che potrò sopravvivere. E giù diluvi di reprimende. Dico che in Europa non esiste un’opposizione. E lui: «No Giulietto. Esiste eccome, ma ha un difetto letale: non studia…».ecc. Qui neanche il giudizio politico è più ammesso. Poco prima ha ripreso la mia citazione da «International Herald Tribune» e la ritraduce, ma non riesco a vedere la differenza tra la sua traduzione e la mia. Se «Morgan Stanley was a big underwriter of European sovereign debt» non vuol forse dire che ha fatto esattamente quello che io dicevo? E con quali soldi ha comprato quel debito? Non è forse per i motivi che avevo appena detto?
E il fatto che Goldman abbia sottoscritto Greek debt (cioè, forse, solo debito privato, comunque da dimostrare) vuol forse dire che Morgan Stanley non ha sottoscritto debito sovrano? Per me Goldman Sachs e Morgan Stanley pari sono. Dove starebbe l’errore? E quando, come scrive Barnard, «gli americani scrivono ‘European Debt o ‘European bonds”, per indicare ogni sorta di debito europeo», da dove si ricava che è «soprattutto debito privato»? Bisognerebbe dimostrarlo, ma dubito che Barnard possa farlo. Infatti non lo fa.
E poco prima, altra reprimenda incomprensibile (almeno per me). Io dico una cosa che mi pare scontata, e cioè che «la finanziarizzazione del debito pubblico europeo è il derivato di una decisione politica precisissima, ben meditata e preparata», che «si chiama trattato di Maastricht». Orrore. Anche questo non va bene. Arriva un’altra bacchettata sulle dita. «No Giulietto. Si chiama euro».
Ma, caro Barnard, che differenza fa? Sono due facce della stessa medaglia, come minimo. E infatti è proprio il Trattato di Maastricht, poi riassorbito in quello di Lisbona, che vieta agli stati di approvvigionarsi di denaro al di fuori del mercato finanziario.
Da qui, come conseguenza è ovvio che si annulla ogni sovranità sulla moneta da parte degli stati. Diciamo la stessa cosa, ma Barnard, misteri della psiche umana, vuol far pensare che io ne dico un’altra.
E si può continuare così su quasi tutti gli altri rimproveri o voti insufficienti.
Il giornale americano titolava: «What banks once saw as safe has now turned toxic» e aggiungeva: «intrappolati nel caos del subrpime, i prestatori avevano visto il debito europeo come un paradiso da cui trarre profitto». Barnard afferma che non è debito pubblico ma privato. Abbiamo già visto che almeno Morgan Stanley ha comprato debito pubblico. Chi dice che è stata solo Morgan Stanley deve dimostrarlo. Ma lasciamo perdere. Il «New York Times» però è molto preciso al riguardo (Liz Alderman e Susanne Craig, “Europe’s Banks Found Safety of Bonds a Costly Illusion”): non è il debito privato quello che è stato dato per “sicuro”. Inequivocabilmente è il debito pubblico degli Stati dell’OCSE. Risultato: «banks in the United States also profited». E io cosa ho detto se non questo?
E ancora Barnard dà il voto negativo. E perché? Perché ho scritto che “l’Europa” aveva permesso alle banche di considerare a rischio zero i debiti sovrani. Ho scritto Europa e mi arriva la bacchettata: no Giulietto, sono i controllori europei. E sai che differenza!
Ma si parla di debiti sovrani (certo non solo quelli espressi in futuri euro ma tutti i debiti sovrani). Appunto, non debiti privati ma debiti sovrani. Dunque è di quelli che parlava il «New York Times». Sono proprio i debiti sovrani che i paesi dell’OCSE hanno dato per sicuri alla vigilia della creazione dell’euro. Io questo ho detto. E perché nessuno attacca la Svezia? Perché nel frattempo l’euro è diventato ben più importante ed è su di esso che si concentra la speculazione.
Come si vede la discussione degenera e si disperde in mille rivoli, senza grande senso. Non si capisce nemmeno per ché tanto accanimento sulle technicalities. Fa venire in mente la discussione sul “buco” del Pentagono. Quanto era largo? Quali fotografia si analizza? Come se non ci fossero altri cento aspetti che dimostrano che la versione ufficiale non regge.
Ma forse, se ho capito bene (lo so che non basterà comunque a salvarmi dalla bocciatura) la faccenda sta tutta nella «moda di incolpare le banche. Le big banks, di tutto il male». Questo, dice Barnard, «è errato». E aggiunge: «Non è la spirale di indebitamento bancario che ha collassato il sistema finanziario, né questa o quella deregolamentazione, ma il debito reale di centinaia di milioni di poveracci e famiglie allegate».
Prendo atto che le big banks sono innocenti, secondo Barnard. E, francamente, non so se la sua spiegazione sia fondata o meno. Non la contesto perché non la conosco. Il mio centimetro quadrato di conoscenze non si spinge fino alle praterie di Barnard. Ma io mi sono nutrito sulle spiegazioni, per esempio, tra gli altri, di Luciano Gallino, che dicono il contrario. Forse, di nuovo, sbagliamo in tanti.
Ma, fino a prova contraria, le opinioni di Barnard sono opinabili come le nostre. O esiste una versione ufficiale di Paolo Barnard da cui è vietato discostarsi? E, soprattutto, dovremmo tutti occuparci esclusivamente di «smontare i dogmi neoclassici e neoliberisti» , mentre, se parliamo dei “nove banchieri”, siamo i complici del sistema?
Insomma, stiamo perdendo tempo. Anch’io, scrivendo queste righe, mentre c’è un sacco di roba da fare. La “incompatiblità metodologica” non la vedo. Io cerco di districarmi, come posso, in un mare di menzogne e rimango dell’idea che sappiamo tutti, anche Barnard, molto poco di quello che i veri detentori del potere sono capaci di inventare. Del resto mi è capitato più d’una volta di intravvedere una pista che magari non conduceva nel posto giusto, ma che mi ci portava vicino. È stato così che, con un po’ di fortuna, ho imparato a fare il giornalista e, qualche volta, ho perfino portato a casa la pelle.
Barnard mi ricorda perfino, con severo rimprovero, che io guido un movimento, Alternativa, «che rischia ora di usare immense energie su una strada del tutto sbagliata». Torno a dire che le energie di cui disponiamo non sono così immense. Ma faccio fatica a capire di quale strada sbagliata parli Barnard. E quale sarebbe la strada giusta che Alternativa dovrebbe seguire. Francamente non vedo proprio nessuna strada in quel suo modo di procedere. Tra l’altro, programmaticamente, da solo. Ma è scelta sua, da non confondere con la mia. Chi sceglie di camminare da solo dovrebbe astenersi dal dare consigli a chi ha sempre cercato di camminare in compagnia. Sono due tipi di passeggiate molto diversi tra loro.
Ma soprattutto vorrei dire a Paolo Barnard alcune cose per me importanti e che forse potrebbero aiutarlo a capire meglio la situazione. Vedi Paolo, io sono solo uno dei tanti, o pochi. Siamo un gruppo di persone pensanti, dotate ciascuno del suo centimetro quadrato di conoscenza. Se Alternativa imbocca una strada non sarà solo l’effetto della mia “guida”. Spero di essere consigliato e corretto. Lavoro perché quello che facciamo sia materia comune. Non mi sento un guru. Sono troppo vecchio per pensare di cominciare una carriera politica a 71 anni. Il mio obiettivo è quello di far crescere un gruppo di dirigenti nuovi. E non mi pongo proprio il problema se mi abbandoneranno o meno. Il problema è mio, di quando, per gli acciacchi o per altro, sarò costretto ad abbandonarli io. L’essenziale è che restino uniti e non cedano. L’essenziale è che non pensino di poter fare da soli.
Forse la “inconciliabilità” tra noi, di cui tu parli, non è “metodologica”, ma consiste nel valutare in modo radicalmente diverso il ruolo dell’individuo e delle masse nell’azione politica.
Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/7270-una-risposta-a-barnard.html
2.12.2011