QUANDO LE SANZIONI NON SONO SUFFICIENTI

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DI SASAN FAYAZMANESH
counterpunch.org

L’economia iraniana e l’impazienza di chi vuole ribaltare il regime

Il 14 Settembre 2010, il presidente dell’Assemblea degli Esperti dell’Iran, Akbar Hashemi Rafsanjani, affermava: “Dobbiamo fare attenzione alle sanzioni e non sottovalutarle. E’ la prima volta che ci troviamo di fronte a provvedimenti così severi.” Il monito di Rafsanjani venne interpretato dai media statunitensi come “queste sanzioni non sono da prendere sul ridere” e visto come una critica verso la scarsa considerazione attestata dal presidente Ahmadinejad alle ultime sanzioni imposte all’Iran. Indipendentemente dalle intenzioni di Rafsanjani, il suo avvertimento era corretto. L’effetto cumulativo delle sanzioni sull’economia iraniana è ora chiaramente percepibile, nonostante alcuni funzionari del paese cerchino ancora di negarlo.

Infatti, a fine 2010 il valore della moneta iraniana — fissato dalla Banke Markazi (la Banca Centrale Iraniana) facendo ricorso a un tasso di cambio a fluttuazione amministrata—è in continua oscillazione. Il 29 settembre 2010, i Reuters riportavano “il rial iraniano ha perso più del 10% negli ultimi due giorni, invitando alla speculazione per mancanza di moneta forte in un paese il cui settore finanziario è stato duramente colpito da sanzioni internazionali.” Il servizio diceva che la moneta iraniana era oscillata nell’arco di due giorni dai 10.850 ai 13.000 rial per dollaro per poi ritornare a 12.000 rial per dollaro. La svalutazione si presentava in realtà ancora maggiore basandosi sulla settimana. La settimana precedente il rial veniva scambiato al tasso di 10.500 rial per dollaro (Financial Times, September 29, 2010). Come sottolineavano molti rapporti finanziari, la stessa svalutazione era stata riscontrata per altre monete, ad esempio l’euro, e persino per il prezzo dell’oro.[1]

Speculazioni dilaganti riguardavano la causa immediata della crisi della valuta iraniana. Buona parte dei rapporti si concentrarono sulle sanzioni imposte dagli Emirati Arabi Uniti, in particolare Dubai (The Washington Post, September 29, 2010). L’agenzia AFP il 30 Settembre 2010 diffuse la notizia che molte banche degli Emirati Arabi Uniti avevano interrotto i trasferimenti bancari a partire da Agosto, come conseguenza delle pressioni esercitate dagli Stati Uniti. La AFP affermò che, secondo il vice presidente del Consiglio iraniano per gli Affari a Dubai, Morteza Masoumzadeh, il volume del commercio tra Dubai e l’Iran si era ridotto del 50%. Alcuni canali di informazione iraniani, vicini all’opposizione del Movimento Verde, individuavano le cause della crisi finanziaria nella decisione del governo di cancellare i sussidi per il carburante e gli alimenti base e di rimpiazzarli con pagamenti fissi agli iraniani per smorzare l’effetto dei tagli ai sussidi. [2] Ma sebbene questa decisione, che non era ancora diventata effettiva, giocasse un ruolo nella crisi, essa stessa era frutto delle severe sanzioni economiche. Questi sussidi erano stati introdotti in Iran dopo la guerra tra Iran e Iraq e per anni i governi avevano tentato di cancellarli poiché il prezzo dei beni coinvolti dai sussidi era ben inferiore al prezzo di mercato.[3] Tuttavia, nulla venne fatto finché le sanzioni iniziarono ad avere gravi effetti sull’economia iraniana riducendo le entrate dello governo.

Il 30 settembre 2010, l’istituto bancario Banke Markazi intervenne cercando di stabilizzare il rial. Mahmoud Bahmani, governatore della banca, affermò all’agenzia di stampa Mehr: “a partire dalla prossima settimana il prezzo della valuta ritornerà al suo normale tasso di mercato di 10.600 rial” (Reuters, 30 Settembre, 2010). Ciò si suppose fosse dovuto al fatto di offrire ai compratori importi illimitati di valuta straniera, secondo quanto riportato dal canale di informazione finanziaria Bloomberg nel servizio del 30 Settembre 2010. L’intervento comportò un aumento del valore del rial, ma ancora il 3 ottobre 2010 la moneta iraniana si attestava sui 10.900 rial per dollaro, tasso più alto di quello imposto dalla Banke Markazi. Solo dopo il 5 ottobre 2010 la valuta iraniana iniziò a riacquistare valore portandosi intorno ai 10.750-10.800 rial per dollaro (AFP).

Il crollo della valuta in Iran tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre non fu il risultato di alcun evento particolare in quel lasso di tempo. Si trattò semplicemente di una manifestazione di incertezza, speculazione e paura causate dall’effetto cumulativo delle sanzioni. Ciò si verificò nonostante i rappresentanti del governo del paese assicurassero l’opinione pubblica riguardo la presenza sufficiente di depositi stranieri. Il 31 ottobre 2010, il Tehran Times riportò le seguenti parole del presidente Ahmadinejad “le riserve di moneta straniera del paese sono state stimate intorno ai 100 miliardi di dollari, ma si tratterà sicuramente di una cifra maggiore.” La stima era stata fatta il 23 ottobre da Mahmoud Bahmani basandosi sulle statistiche della Banca Mondiale. Bahmani affermò inoltre: “l’Iran ha convertito in oro il 15% dei suoi depositi di valuta straniera, e quindi non sarà più necessario importare oro per i prossimi dieci anni.” Queste rassicurazioni, tuttavia, non furono sufficienti a stabilizzare i nervosi mercati finanziari che si attendevano maggiori sanzioni e difficoltà per il futuro.

Le sanzioni stavano aggravando anche il tasso di inflazione in Iran. Stimare il vero tasso di inflazione in un paese come l’Iran si è sempre rivelato difficile. Ma secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’indice dei prezzi al consumo per il 2010 era di 9.5%. [4] Questo tasso relativamente basso rispecchiava una tendenza disinflazionistica rispetto ai tassi di inflazione di 25,4% e 10,8% rispettivamente del 2008 e del 2009.[5] Eppure, persino questo tasso più basso era parzialmente dovuto all’effetto delle sanzioni, e di ciò era a conoscenza almeno un rappresentante del governo iraniano. Nell’ottobre 2010, il presidente della Camera del Commercio iraniano, Mohammad Nahavandian, intervistato dall’ISNA (Agenzia d’informazione degli studenti iraniani n.d.r.) diceva: “Le sanzioni non possono fermare le importazioni di beni in Iran, ma le stime mostrano che il costo delle importazioni è aumentato dal 15 al 30 %” (Siasate Rooz, 16 ottobre, 2010).

Altra indicazione del fatto che le sanzioni stavano mettendo a rischio l’economia iraniana era il debolissimo tasso di crescita. Mentre il tasso di crescita del prodotto interno lordo in termini reali dell’Iran nel 2007 era del 7,8%, il tasso stimato per il 2010 era solo dell’1,6%.[6] Questo tasso risultava decisamente più basso rispetto a quello di altri paesi della stessa regione; persino le economie di paesi dilaniati dalla guerra come l’Iraq e l’Afghanistan mostravano tassi di crescita più alti rispetto all’Iran.[7] L’economia poco brillante si rifletteva anche nel crescente tasso di disoccupazione. Tralasciando le difficoltà nel misurare il tasso di disoccupazione nei paesi in via di sviluppo e gli inaffidabili dati ufficiali, il tasso di disoccupazione ad agosto 2010 era del 14,6%, secondo il rappresentante del Ministero del lavoro iraniano (fonte Mehr, agenzia di informazione). Questo dato è da confrontarsi con l’11,9% dell’anno precedente. Considerando le risorse dell’Iran e il suo potenziale economico, nulla può spiegare la debole performance dell’economia iraniana se non l’effetto delle sanzioni.

L’amministrazione Obama, pienamente consapevole dei risvolti delle sanzioni, adottò un atteggiamento di attesa. Sperava, così come osservato dall’Ayatollah Khamenei il 7 settembre 2010 “di esasperare il popolo con le pressioni economiche inducendolo a riversarne la colpa sul governo e recidendo così i legami tra governo e cittadini” (AFP).[8] Nonostante ciò, Israele e molti dei suoi alleati negli USA, in particolare i neoconservatori, erano impazienti. Si auguravano di vedere un’azione immediata che facesse crollare il governo iraniano. E ciò, secondo loro, si poteva ottenere solo se gli Stati Uniti avessero intrapreso azioni militari contro l’Iran.

Il 28 settembre 2010, il rappresentante del primo ministro israeliano e ministro degli affari esteri Avigdor Liberman tenne un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel corso del quale affermò che, chi sostiene che il conflitto israelo-palestinese “ostacola la creazione di un definito fronte internazionale contro l’Iran” si sbaglia. “In realtà,” disse, “la connessione tra l’Iran e il conflitto israelo-palestinese è esattamente opposta. L’Iran può esistere senza Hamas, la Jihad islamica e gli Hezbollah, ma le organizzazioni terroristiche non possono esistere senza l’Iran.” Concluse sottolineando che “per ottenere un’intesa duratura con i palestinesi, è necessario innanzitutto risolvere la questione iraniana” Risultò chiaro che come soluzione egli intendeva un intervento militare contro l’Iran.

Il giorno successivo, 29 settembre 2010, il Financial Times riportò le parole pronunciate dal Senatore Joseph Lieberman in un’intervista: “E’ ora di smetterla di ripetere che l’azione militare è [solo] una delle opzioni sul tavolo…E’ da troppo tempo che si cerca di percorrere il sentiero della diplomazia e delle sanzioni.” Il Financial Times riportò anche le recenti dichiarazioni di Howard Berman, presidente del comitato per gli affari esteri della Camera dei Rappresentanti, riguardo il fatto che l’amministrazione poteva attendere “mesi, non anni” per vedere gli effetti delle sanzioni e che “un intervento militare era preferibile rispetto all’idea di un Iran con a disposizione armi nucleari”

Queste dichiarazioni apparivano come avvertimenti nei confronti del presidente Obama che sembrava vacillare sulla questione dell’azione militare contro l’Iran e il 20 settembre 2010 affermava al canale CNBC: “Non pensiamo che una guerra tra Israele ed Iran o interventi militari siano la soluzione ideale per questo problema [il programma nucleare dell’Iran]. Ma stiamo prendendo in considerazione tutte le opzioni sul tavolo.” (Haaretz). Per assicurare che l’opzione militare rimanesse sul tavolo, due giorni dopo 50 repubblicani, guidati da Eric Cantor e John Boehner, scrissero una lettera a Obama incoraggiandolo a “prendere qualsiasi decisione necessaria ad impedire che l’Iran sviluppi armi nucleari” e sottolineando che “tutte le opzioni per frenare le ambizioni nucleari dell’Iran devono essere tenute in considerazione.” Lo invitarono anche “a fare in modo che l’Iran non possa reclutare ed addestrare altri terroristi che minaccino i loro alleati e minino la pace, così come Hamas, gli Hezbollah, e la Jihad Islamica – organizzazioni che promuovono una cultura dell’odio e il cui obiettivo è distruggere Israele.”

Le pressioni per l’attacco all’Iran si intensificarono tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre 2010 quando ancora più funzionari israeliani ed americani ed esperti di comunicazioni si rivolsero al presidente Obama. Il 31 ottobre il giornalista del Washington Post David Broder scrisse un articolo di fondo su come “Obama potrebbe riprendersi” dalle afflizioni causate dall’economia in declino. La sua proposta era: “Con il forte sostegno dei repubblicani al Congresso per sfidare le ambizioni nucleari dell’Iran, egli può dedicare buona parte del 2011 e 2012 ad orchestrare trattative con i mullah…mentre le tensioni crescono ed i preparativi per la guerra incalzano, l’economia ne trarrà giovamento.” La stessa soluzione era stata proposta ad Obama tempo fa, quando il 2 febbraio 2010, il folle neoconservatore Daniel Pipes, direttore del Campus Watch, pubblicò sul National Review Online il suo articolo dal titolo “Come salvare la presidenza di Obama: bombardare l’Iran”.

Allo stesso modo, il 6 novembre 2010, secondo quanto riportato da AFP, durante il Forum internazionale sulla sicurezza ad Halifax, il senatore repubblicano Lindsey Graham affermò che se Obama “deciderà di essere duro con l’Iran al di là delle sanzioni, credo otterrà grande sostegno dai repubblicani per l’idea che non si può permettere che l’Iran sviluppi armi nucleari.” Il servizio proseguiva dicendo che il senatore sosteneva l’idea dell’attacco all’Iran “non solo per neutralizzare il programma nucleare, ma anche per affondare la sua flotta, distruggere l’aviazione e infliggere un colpo decisivo alla Guardia Rivoluzionaria, in altre parole distruggere il regime.” Secondo il servizio, il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, presente alla conferenza, aggiunse “L’Iran rappresenta una pericolosa minaccia per ogni possibile ordine del mondo.” Due giorni dopo, i Reuters riportarono queste affermazioni del presidente israeliano Netanyahu, in occasione dell’incontro con il vice presidente Joe Biden a New Orleans: “L’unica strada per assicurarsi che l’Iran non diventi una potenza nucleare è creare una minaccia credibile di azione militare contro il paese nel caso in cui non interrompa la corsa agli armamenti nucleari.”

Quelli che vogliono ribaltare il regime stanno diventando impazienti. Sebbene le sanzioni stiano minando l’economia iraniana e riducendo sul lastrico la gente comune, chi fa pressione per invadere l’Iran non è più disposto ad aspettare per vedere se la miseria si possa tradurre in tumulti e rivolte in Iran. Questi ultimi vogliono vedere scorrere il sangue, e lo vogliono il più presto possibile. Per queste persone, la morte di centinaia di migliaia di civili non significa nulla, se il risultato finale è la trasformazione dei territori occupati della West Bank in “Giudea e Samaria”, eliminando l’ultimo baluardo di un concreto sostegno ai Palestinesi.

Sasan Fayazmanesh è Professore Emerito di Economia presso la California State University, Fresno.
Fonte: www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/sasan11222010.html
22.11.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ELENA

Note.

1. L’ascesa del prezzo dell’oro in Iran, naturalmente, era aggravata da altri due fattori. Da un lato i prezzi dell’oro crescevano in tutto il mondo, mentre il dollaro si indeboliva, dall’altro il governo iraniano imponeva una tassa sul valore aggiunto ai commercianti dei bazar i quali, compresi i mercanti d’oro, protestavano con la chiusura dei negozi.

2. Il 2 ottobre 2010, Jonbeshe Rahe Sabz, popolare sito web legato al Movimento Verde, affermava che la crisi finanziaria stava giovando al governo iraniano ed era stata creata da quest’ultimo! Allo stesso modo il Washington Post riportò il 29 Settembre 2010, “gli analisti dicono che la crescita del tasso significa che il governo – noto per cercare di accrescere le proprie entrate – riceverà ancora più rial per i suoi petrodollari, sebbene il crollo della valuta contribuisca all’inflazione.

3. Come riportato da AP il 6 novembre 2010, il prezzo della benzina in Iran era di 3,700 rial o circa 37 centesimi per gallone (3,79 l n.d.r.). Secondo l’articolo, dopo l’abolizione dei sussidi il prezzo avrebbe dovuto crescere del 400%. L’eliminazione dei sussidi e le distorsioni del prezzo avevano, naturalmente, il pieno sostegno del Fondo Monetario Internazionale (si veda per esempio: “Energy Price Reform: Iran to Cut Oil Subsidies in Energy Reform ,” FMI Survey Online.)

4. Questo tasso stimato non rifletteva l’effetto dei tagli ai sussidi pianificati dal governo che si supponeva avrebbero aumentato considerevolmente il tasso di inflazione.

5. World Economic Outlook, Fondo Monetario Internazionale, Ottobre 2010, p. 189. La Banca Centrale dell’Iran stimava un tasso di inflazione per il 2010 del 9,4% (Tehran Times, 4 luglio, 2010).

6. World Economic Outlook, Fondo Monetario Internazionale, Ottobre 2010, p. 183.

7. I tassi stimati per la crescita del PIL in termini reali dell’Iraq e dell’Afghanistan per il 2010 sono, rispettivamente, del 2.6% e 8.9% (Fondo Monetario Internazionale, Ottobre 2010, pp. 182-183).

8. Affermazioni simili sono state fatte dal membro del Congresso Brad Sherman il 9 agosto 2010: “La legge sulle sanzioni attuata di recente è probabilmente la misura più significativa mai presa dal Congresso nei confronti dell’Iran. . . L’obiettivo del decreto è portare l’economia iraniana alla crisi.” Aggiunse inoltre che alcuni critici avevano “affermato che queste misure avrebbero colpito il popolo iraniano. Francamente, abbiamo proprio bisogno di questo.”

Questo brano è tratto da un libro in preparazione che seguirà il precedente The United States and Iran: Sanctions, Wars and the Policy of Dual Containment (Routledge, 2008).

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