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DI CARLO BERTANI

A leggere il rapporto, recentemente pubblicato dal Censis sulla società italiana, viene da piangere. I dati – si sa – sono spesso neutri, gravi, contradditori, curiosi, evanescenti, inutili, pregnanti. Ma rimangono dati.
Non è affatto facile trarre letteratura dai numeri, così come riesce sempre a metà il tentativo di quantificare in parametri fissi gli scritti. I cosiddetti “parametri di valutazione” della critica sono evanescenti come i vapori al tramonto, e svaniscono nella notte, laddove i critici seri cercano più la via del cuore che quella della mente.
Come parlare – allora – di questa Italia del 2007 che, il Censis stesso, dipinge a due velocità: stranamente, contraddittoriamente ricca e disperata?
Se osserviamo i dati sul numero di telefonini, di computer, di servizi…insomma, i soliti dati statistici, verrebbe da dire che lo Stivale è soltanto una propaggine d’Europa, ma se focalizziamo le rilevanze più strettamente sociologiche, c’è da disperare.

Dal Censis giunge una definizione stridente, che fa accapponare la pelle: siamo “poltiglia di massa”.
Una “poltiglia di massa” fa venire alla mente un puree, di quelli che – comunque li mescoli – sembrano sempre uguali, amorfi, flaccidi, senza nerbo.
Ed è proprio questo aspetto – la mancanza di un “nerbo”, di una direzione comune – che traspare da questo studio: fiducia nella politica per solo il 20% degli italiani. Se quantifichiamo – a spanne – quanti sono i politici, gli apparatcik di partito, gli amministratori locali, parenti ed amici, forse nemmeno tutti quelli che “ruotano” intorno al gran circo della politica e dell’informazione italiana ci credono.
Sarebbe troppo facile e fuorviante, però, dare la colpa di tutto agli ultimi anni di politica/spazzatura: il percorso è iniziato ben prima, con una cosciente distruzione dei legami sociali fra gli italiani.


Serve spiccare un salto nel passato, abbandonare per un attimo il frastuono dell’informazione per immergersi nel ricordo, che solo può fornire un bandolo per seguire quel filo d’Arianna che, oggi, ci ha portati ad essere “poltiglia”.
Posso partire da un ricordo preciso, dalla casa a ringhiera aperta sul cortile nella quale, bambino, vivevo ed anche da una data: i primi giorni di Luglio del 1956; è il primo ricordo “storico” della mia vita.

Lontanissimo dalle Prealpi biellesi, uno sterminio di miglia marine distante, una grande nave era in agonia nei pressi dei banchi di Nantucket, poco lontano dalla costa del New Jersey, quasi a New York.
Nella notte, la grande nave passeggeri “Andrea Doria” – vanto della marineria italiana, riscatto della cantieristica nostrana dopo le distruzioni belliche – era entrata in collisione con un’altra nave, la “Stockolm”, ed era condannata.
Adesso lo sappiamo, persino le telecamere subacquee della RAI ce l’hanno fatta vedere, dolcemente adagiata sul banco di sabbia a 80 metri di profondità, ma allora era ancora a galla, lottava disperatamente per sopravvivere, come la nostra piccola Italia che – terminata la guerra – non aveva più porti ed aeroporti, linee ferroviarie e ponti. Tutto da ricostruire.
La ciliegina sulla torta era stata quella splendida nave, da tutti ammirata ed invidiata, che per un capriccio degli Dei stava lottando per non scendere nell’Averno delle onde.

Io avevo un modellino di latta dell’Andrea Doria, ed il mio gioco preferito era farla “navigare” sulle lastre di granito del lungo balcone. I “grandi”, invece, erano preoccupati, tristi, doloranti.
Facevano la spola fra la radio di mio nonno e la “cantina” – così chiamavano il bar che non era ancora bar, ma solo “cantina”, un posto dove si beveva vino, caffé e poco altro – dove c’era una delle prime televisioni.
Come un’agonia collettiva, la gente si chiamava dalle scale ai balconi, dal cortile fin su agli ultimi piani: «Come va?». «Forse ce la fanno a rimorchiarla a New York…» «Speriamo…»
“Speriamo”. Quello “speriamo” era per lo più pronunciato da persone che mai avevano visto il mare: montanari, contadini, operai delle tessiture, piccoli commercianti, casalinghe, bambini…tutta gente che non sarebbe stata in grado di tradurre l’informe massa grigia dell’acqua in movimento intorno all’Andrea Doria – così come appariva nel piccolo teleschermo in bianco e nero – nello specchio azzurro della mente. Il mare, semplicemente non lo avevano mai visto.
Sì, qualcuno c’era stato, in guerra – e allora non ne parlava mai – oppure per lavoro – e quindi non aveva avuto tempo per goderlo – ma non esisteva una “memoria condivisa” (diremmo oggi) del mare.
Eppure, soffrivano, si vedeva. Nessuno sarebbe stato in nessun modo toccato dalla perdita della nave, ma era come se portassero via loro un pezzo di ringhiera, un vetro della finestra, un brandello di cuore.
Nessuno può far rivivere oggi quella tragedia, così come si compì nei cuori degli italiani, perché avvenne in era “pre-mediatica”: sì, ci sono le ricostruzioni storiche e giornalistiche, libri e vecchi filmati, ma le emozioni sono rimaste laggiù, sepolte in quei cortili degli anni ’50.

Allora non eravamo “poltiglia”, no, non lo eravamo proprio.
Ancora ricordo la strada sterrata che portava alla casa di campagna, dopo la fermata della corriera: un chilometro soltanto, che tante volte ho percorso su carri di legno trainati da cavalli e muli. Che fossero automobili o carri, tutti si fermavano quando vedevano una persona camminare nella stessa direzione, per offrire un passaggio. Era un modo per scambiare quattro chiacchiere, quelle chiacchiere senza importanza, viso a viso, che oggi ci mancano. Oggi parliamo di televisione e di soldi, di telefonini e computer: allora – mentre ballonzolavo nel carro – chiedevo se l’uva spina di quel certo cespuglio era matura, pronta per essere colta senza scendere dal carro, così, passando.
E poi: quanti eravamo! Non c’era mai problema per fare due squadre di calcio: il problema, semmai, era trovare il pallone. E non avevamo nemmeno dietro le spalle genitori, allenatori, preparatori atletici e “faccendieri vari” che ci propinavano a tonnellate lezioni sulla “professionalità” del calcio, sulla “serietà” dell’atleta. Gioca e basta, divertiti: tanto Boniperti non lo diventerai mai. Se poi qualcuno lo diventava per davvero, era una gran bella sorpresa.

E in città? Non potevamo scendere in cortile a giocare perché era in concessione ad un’officina d’autoriparazioni, e i meccanici in tuta blu non volevano marmocchi attorno. Quando al proprietario dell’officina nacque il primo figlio, però, meditò che non poteva sopportare decine d’occhi invidiosi per quei pochi metri quadrati.
Allora, le automobili – primo di “morire” – rimanevano molto tempo nelle officine per recuperare pezzi di ricambio: c’era una vecchia FIAT 1400 nera, in un canto del cortile, appoggiata su quattro ceppi.
Fu uno dei regali più belli: il meccanico/novello papà la lasciò aperta e ci andavamo a giocare in tanti, con rigorosi turni per chi stava al volante. Diventò, di volta in volta, Spitfire, sottomarino, carro armato. Come volavano i sogni, senza che la TV te li rubasse.
Ecco cosa significa non essere poltiglia: diventare coscienti che possiamo realizzare i sogni nostri ed altrui – magari piccoli, insignificanti – ma lo possiamo fare.

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Tutti erano così, dai “giovanotti” che ci facevano schiattare d’invidia mentre azionavano la leva per far partire una vecchia “Gilera”, perché quell’invidia ti rassicurava: anche tu saresti diventato “grande” ed avresti avuto la tua possibilità, l’ebbrezza di qualche vecchio macinino sul quale diventare Giacomo Agostini. Su MV Agusta, ovviamente.
L’attenzione era così tanta nei confronti dei bambini – in quei vecchi caseggiati – che non sfuggiva nulla: un brutto giorno si ruppe la mia tromba giocattolo. Oh, mica paccottiglia: era d’ottone e suonava quasi come una vera tromba.
Niente paura: il lattoniere, che aveva la sua bottega in cortile, trovò nel ferrovecchio una tromba vera e me la riparò. Era un’enorme tromba militare del 53° reggimento di fanteria, riparata da un lattoniere: non diventai mai un trombettista.
In compenso, la maestra di piano del balcone accanto mi faceva solfeggiare così, gratis, tanto per divertirsi: «Più lungo il Re, Carlo: non lo vedi che sono quattro battute?»

Forse sono stato fortunato – non lo so – adesso è impossibile fare paragoni né tentare elucubrate comparazioni storico/sociologiche: la mia impressione è che si fosse un mare più felici.
Eravamo poveri? Sì, senz’altro, e non si poteva cambiare perché non esisteva l’arricchirsi: chi era salariato accettava la sua vita senza sognare troppo, chi era già ricco – per definizione – non poteva arricchirsi.
La definizione di “ricchezza”, poi, era molto vaga: chi aveva una “Lancia” era considerato “ricco”, ma un’Appia costava forse il doppio di una “Millecento”. Mica i ricchi avevano l’aereo personale.
Qualcuno potrà obiettare che si trattava di un mondo statico, ma statico non significa né noioso e né infelice: vuol dire che, probabilmente, quel che hai ti basta per soddisfare l’animo, per guardare con fiducia all’avvenire, alzare lo sguardo al cielo e sentirti a posto, al tuo posto.

Alcuni eruditi affermano che quel mondo fu squassato dalla fine del “miracolo economico”, dalla ristrutturazione capitalista degli anni ’70, dalla conseguente “buriana” del ’68. Tutto vero, senz’altro.
Tutto ciò, però, non ci fa sentire più felici.
Anche il ’68 è diventato più un mito che altro: eravamo “proletari in marcia” oppure semplici, piccoli borghesi sognatori?
Dal punto di vista della sociologia è senz’altro importante studiare il fenomeno, ma dal lato di chi visse quegli anni è forse meglio chiedersi cosa provò, come immaginò il futuro, come riuscirono a fregarlo.
Oggi va di moda sputar merda sui sessantottini, definiti spesso “figli di papà” con il conto in banca, il posto fisso, benpensanti truffaldini…va bene, prendiamolo pure per buono.
C’è da dire che i sogni ed i discorsi di quegli anni non erano certo il conto in banca o il posto fisso nell’azienda di uno zio: si sognava l’avventura, si sperimentava l’avventura.
Quanti furono i “sessantottini”? Alcune stime affermano circa un milione, ed è una cifra coerente se riflettiamo che una generazione – all’epoca – era di circa 600.000 persone (forse anche più) e che furono coinvolte almeno 5-6 generazioni.
Di quel milione, qualcuno blatera sentenze in televisione, altri fanno gli intellettuali di chissà che: tanti sono morti. Sì, perché, quando iniziò a circolare l’eroina, ci cascarono in tanti. Uno sparuto gruppo – non più di 5.000 persone (sentenze alla mano) – meditò d’iniziare una privatissima guerra contro la Polizia, i Carabinieri e tutto l’apparato militare dello Stato. Se avessero giocato un po’ di più nei cortili di periferia, avrebbero saputo che è inutile mettersi a fare i bulli con quelli di 16 anni: poi, il ghiaccio sul naso, te lo devi sorbire tu, mica loro.

E tutti gli altri?
Cercarono di portare avanti le loro vite come potevano, ma si dedicarono anche alla sperimentazione di nuovi modi di vivere.
A metà degli anni ’70, fiorivano le “comuni”. Ce n’erano di tutti i tipi: agricole ed urbane, psichedeliche e cattoliche. Avevano però un denominatore comune: cercavano di mantenere vivo il senso comunitario, la condivisione – simpatia, empatia – del vivere quotidiano.
La strada delle comuni era ardua, ma il risultato che si proponevano era grandioso: sovrapporre alla famiglia patriarcale e tradizionale – creatrice sì di sicurezza, ma anche di terribili costrizioni – una struttura nella quale riprodurre la “base” più larga del vivere comune, privandola però degli aspetti coercitivi. Se vai a vivere in una comune, scegli tu i conviventi, non ti giungono per la via del sangue.
La nascita di quelle comuni avvenne nei modi più disparati: spesso, partivano dalla coabitazione di studenti universitari fuori sede, altre volte da esperienze legate al comunitarismo cattolico.

Io vissi due esperienze di comuni, una agricola e l’altra urbana, e devo confessare che furono le più belle esperienze della mia vita. Su quella agreste, il figlio di uno di noi decise di scrivere la sua tesi di laurea: gli consegnai un inedito che avevo scritto su quegli anni, e ne trasse un lavoro superbo, da 110 con lode e pubblicazione.
L’unica sensazione un po’ sgradevole fu – in quell’aula universitaria, mentre discuteva la tesi – comprendere che eravamo diventate cavie di laboratorio, per spiegare fenomeni d’aggregazione sociale. D’altro canto, non si poteva trattare diversamente l’argomento in ambito sociologico.
Perché morirono le comuni?
Ognuna, come ebbe un’alfa, trovò la sua omega: per svariati motivi, per lo più economici.
Le persone che parteciparono a quelle esperienze, però, non hanno mai smarrito il legame che le unì: a distanza di decenni, continuano a considerare le persone con le quali vissero come fratelli e sorelle. E, questo, è da solo un risultato strabiliante.
L’Uomo non è un animale familiare, è più sociale. Per millenni ha vissuto la tribù e il clan, forme più stabili e gratificanti della semplice famiglia, perché di fronte alla sventura e alle difficoltà c’è una base più larga sulla quale fare affidamento.
Di conseguenza, a metà degli anni ’70, troviamo ancora la società italiana ben “formata”, sia per le forme tradizionali, sia per i tentativi dei giovani. Poi, avviene qualcosa.

E’ a cavallo del 1980 che si manifestano alcuni fenomeni, concomitanti e che vanno nella stessa direzione.
Sono gli anni del terrorismo: a ragione o a torto, l’Italia vive quasi un’occupazione di tipo militare. A fronte di poche migliaia di brigatisti, lo Stato mette in atto un apparato di controllo del territorio impressionante, che se decidesse di farlo contro la mafia sarebbe curioso osservare come andrebbe a finire.
In quegli anni, siamo fra il 1978 ed il 1982, non potevi uscire di casa senza incappare in una o più pattuglie, e sapevi anche che avevano il “grilletto facile”. Non furono poche le ignare vittime d’errori.
Una sera, ricordo, non sapevamo come tornare a Torino, perché il figlio di uno di noi aveva una mitraglietta giocattolo, molto realistica.
Dopo innumerevoli consultazioni, del tipo: la mettiamo sul cruscotto, così la vedono subito. Bravo: così ci sparano subito. No, la nascondiamo bene nel portabagagli: meglio, così – bene che vada – ci portano in commissariato. La mitraglietta rimase in campagna, e l’auto ripartì con le urla di protesta del piccolo che foravano i finestrini.

Nel frattempo, erano nate le “radio libere”, che rimasero libere per un bel po’: quelle che persero invece subito la “libertà” furono le prime emittenti televisive.
Subito dopo la liberalizzazione dell’etere, erano nate come funghi e gli italiani erano moderatamente felici: finalmente potevano vedere cose che la censura RAI non consentiva, e qualche “arrapantissimo” spogliarello di mezzanotte, nello splendore del bianco e nero a 16 pollici.
Furono anche modificati gli orari dei telegiornali nazionali – se ben ricordo anticipandoli di mezzora – ed i tre fenomeni concomitanti – strade piene di posti di blocco, cambio dei palinsesti e nascita di nuove emittenti – condussero gli italiani a scegliere la poltrona di casa invece di scendere al bar o di andare a casa d’amici. Fu un discreto colpo al vivere sociale, ma il meglio doveva ancora arrivare.

E’ inutile ricordare una storia ritrita, ossia di come – con soldi che piovvero da chissà dove (vedere i lavori di Travaglio) – un oscuro imprenditore milanese divenne padrone dell’etere privato (e poi, per alcuni anni, anche pubblico) del paese, e acquistò ad una ad una le emittenti “libere”.
Non è molto importante, in questa sede, analizzare la parabola di Berlusconi, quanto soffermarci sui contenuti di quelle TV. Per prima cosa erano commerciali – e gli italiani, non abituati, si videro bombardare da mane a sera dagli spot – ed i programmi erano in gran parte “format” presi dagli Stati Uniti che, come tutti sanno, non c’azzeccano un picchio con il nostro vivere.
La reazione, fra i vari reagenti, avvenne in fretta e nell’arco di un quinquennio al massimo: sgombrati bar e flipper, gli italiani – ancora un po’ “naif” – s’addormentarono di fronte al teleschermo. Anche la politica sparì dalle strade e dalle piazze: l’unico agone universalmente riconosciuto divenne la TV che, come raccontava una sigla di qualche anno fa, “la ga na forsa d’in leun, e t’indurmenta cum’e an cuiun”.

Non è un caso che, negli stessi anni, un’organizzazione segreta – la P2 – si dava un gran daffare per “superare” gli anni nei quali gli italiani avevano iniziato a sfidare il potere: oggi possiamo anche sorridere su una battaglia come quella per il divorzio, ma in quegli anni rappresentò lo spartiacque, ossia che lo strapotere clericale poteva essere battuto.
Il programma della P2 prevedeva specifici interventi nel campo dell’informazione: quello che la tessera della P2 n° 1816 Silvio Berlusconi – con l’importante aiuto del PSI dell’epoca, del quale il buon Berlusca pagava i conti dei congressi – realizzò in pieno.

Il resto è storia che tutti conoscono: siamo, piano piano, giunti al capolinea: “poltiglia di massa”.
Chi fece quei conti, aveva come primo obiettivo sconfiggere e de-strutturare le associazioni, le organizzazioni, politiche e culturali del paese, perché quelle persone – ancora saldate dai legami nati nel dopoguerra – potevano trasformarsi in “elaborazione”, e dunque in opposizione sociale.
Cosa non considerarono? Perché l’Italia è così male in arnese?

La differenza dell’Italia, rispetto a tanti paesi europei, è la mancanza di un’identità nazionale: nemmeno il Fascismo ci riuscì. Per cause storiche, l’Italia è veramente sui generis: non è l’India, perché quello è quasi un continente, e non è nemmeno la Jugoslavia, perché parliamo la stessa lingua e non abbiamo, storicamente, contrapposizioni religiose.
Eppure, non siamo “nazione”, non abbiamo un sentimento nazionale condiviso. Le ragioni sono tante: dall’unificazione – avvenuta in brevissimo tempo ed attuata con soli mezzi militari (a differenza dello Zolferein tedesco) – alla lunga “fedeltà” all’età comunale. Cose che puntualmente ritroviamo nel rapporto del Censis: l’unica entità politica che gli italiani, in qualche modo, “salvano” è il Comune.

Il vero collante della società italiana erano i rapporti interpersonali fra le famiglie e le comunità: borghi, casermoni di periferia, grandi cascinali o vicoli che fossero, erano regni d’umanità viva e condivisa.
Spariti quelli, rimane soltanto la “poltiglia di massa”.

Come ne usciremo?
Ad esser sincero, sono molto pessimista: non ne usciremo proprio, oppure ci risolleveremo solo al prezzo di qualche dolorosa catarsi, di quelle che cancellano – con grandi dolori collettivi – i grumi dell’individualismo sfrenato.
Una speranza forse c’è ancora, ma molto flebile.
Ci vorrebbe un colpo di reni mica da poco: una fase costituente che riscriva gran parte del dettato legislativo italiano – zeppo oramai di concrezioni che rendono possibile qualsiasi truffa – e la completa sostituzione della classe politica. La quale, nel bel mezzo del naufragio che il Censis indica, si trastulla con leggi elettorali, baruffe da cortile e riforme-capestro.
Chi potrebbe metterli in crisi?

Nessuno che scrive sul Web può farlo: i tanti e stimatissimi colleghi, che scrivono cose superbe e giustissime, non potranno cambiare una virgola. Catalizzare il cambiamento – questo sì – ma cambiare nel vero senso del termine no, nessuno ci riuscirà.
L’unico che ha ancora in mano qualche carta – che svanirà presto, però, se non coglierà “l’attimo fuggente” – è Beppe Grillo, che ha saputo risvegliare le “corde” addormentate degli italiani, galvanizzarli con un liberatorio vaffanculo.
Per le grandi battaglie di civiltà, però, non bastano i vaffanculo: bisogna urlare ai quattro venti che il re è nudo, ma prepararsi adeguatamente per scrollarlo dal trono, e subito dopo bruciare il trono per sostituirlo con vere assemblee.
A mio parere, Grillo ha oggi questa possibilità: se non la coglierà, la responsabilità storica sarà tutta sulle sue spalle.

Carlo Bertani
[email protected]
www.carlobertani.it
http://carlobertani.blogspot.com/
2.12.07

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