DI PETER FRANSSEN
Tra il 1840 e il 1949, la Cina è stata una fonte di ricchezze e di profitti per l’Occidente. L’Inghilterra, la Francia, il Giappone, gli Stati Uniti hanno organizzato una guerra dopo l’altra per sottomettere la Cina e spartirsi il paese. Oggi che la Cina si lascia alle spalle questo passato, l’Occidente protesta.
Nel 1840 imperversa la prima guerra dell’oppio. Scoppia quando le autorità cinesi decretano la proibizione del commercio dell’oppio. Sono gli inglesi che controllano questo commercio: hanno già conquistato l’India ed è da là che organizzano il traffico dell’oppio, che rende molto e fa di milioni di cinesi degli apatici drogati, facilitando in tal modo la conquista della Cina. Le autorità cinesi si impossessano delle riserve di oppio inglesi a Canton. Gli inglesi reagiscono inviando la loro flotta da guerra. Le armate imperiali cinesi sono sconfitte; nel 1842 si ha il trattato di Nanchino: la città e il porto di Hong Kong divengono possedimenti inglesi. Cinque altri porti, tra cui Shanghai, sono aperti al commercio britannico.
Nel 1858 si ha la seconda guerra dell’oppio, stavolta tra l’Inghilterra e la Francia. La guerra termina nuovamente con una disfatta cinese e con il trattato di Tianjin, in base al quale vengono aperti ai commerci dieci altri porti.
Nel 1884 la Francia invade il Vietnam e, nello stesso tempo, le province del sud-ovest della Cina e la provincia di Taiwan. La faccenda culmina in una nuova guerra e una nuova disfatta e nel trattato di Tientsin, che assicura alla Francia ulteriore libertà d’azione in Cina.
Nel 1900 scoppia una rivolta contadina contro le concessioni all’estero. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Giappone, la Germania, la Russia, la Francia, l’Italia e l’Austria rispondono con una guerra. L’ennesima sconfitta cinese porta al Protocollo del 1901, in cui si dichiara che le potenze straniere possono installare basi militari nelle città di Pechino e Tientsin (e nei loro dintorni) e in una parte della costa orientale. La Cina deve in ogni modo pagare degli ingenti danni di guerra.
L’industrializzazione dell’Occidente, «made in China»
È in questo modo che le potenze straniere prendono possesso di vaste parti della Cina. Nel 1911 il generale di divisione americano Joseph Stilwell sbarca nella città portuale di Shanghai. La storica Barbara Tuchman ha scritto un’opera sull’esperienza di Stilwell: «La prima cosa che ha colpito il suo sguardo a Shanghai, è stata la flotta di navi da guerra straniere: due giapponesi, due francesi, una britannica, una tedesca e un’americana, che non si limitavano a dondolarsi nelle acque del porto color caffè in veste di visitatori, ma come veri e propri occupanti. Questa metropoli e capitale d’affari della Cina, creata da imprenditori stranieri, forma una concessione che è diretta prevalentemente da stranieri. La città è posta alla foce dello Yangtze, la principale via d’acqua del paese e il fiume più percorso dell’Asia. Metà dell’industria cinese è situata nei suoi paraggi e le sue banchine accolgono la metà del commercio cinese(1).»
Le potenze straniere occupano i principali porti cinesi, fissano le tasse d’importazione, controllano la dogana e le vie commerciali terrestri, aeree, fluviali e marittime. Nei principali porti e città e nei loro dintorni, sono installate basi militari preposte alla protezione del loro impero.
La Cina è diventata una terra fonte di profitti, così come la gran parte dell’Asia e dell’Africa: nel 1900, il 90% dell’Africa e il 56% dell’Asia sono dei domini coloniali(2). Per l’Occidente, è l’età d’oro. Il saccheggio dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina procura il capitale, permettendo la rapida industrializzazione dell’Occidente. Il passaggio dell’Europa occidentale dal feudalesimo medioevale all’era moderna è reso possibile e finanziato dalla Cina e dalle altre colonie del terzo mondo. Allo stesso tempo, l’Occidente distrugge l’industria nascente di questi paesi con l’importazione di merci e l’organizzazione di una produzione locale sotto il controllo occidentale. Per le varie guerre, l’Occidente impone alla Cina dei «risarcimenti» eccessivamente alti. Lo scarso capitale interno non viene usato per la messa a punto dell’economia nazionale, ma passa in questi «risarcimenti». In tal modo, la base economica e finanziaria dello stesso sviluppo cinese è annientata.
La paura di perdere i mercati
Nel 1949 la rivoluzione cinese, sotto la direzione di Mao Tse Tung, mette fine a questa situazione. La Cina dà inizio alla costruzione di un nuovo stato, creato, in effetti, dal nulla e sorto dalle rovine del colonialismo e del feudalesimo. Tra alti e bassi, piccoli e grossi errori, il paese cerca la sua via individuale verso lo sviluppo.
Nel corso dell’ultimo quarto di secolo, l’economia cinese cresce in media del 9,4% l’anno, i commerci internazionali del 16,7% e il consumo interno del 7%. Dagli anni Novanta, il commercio con gli altri paesi del terzo mondo progredisce velocemente. Nel 2004 le esportazioni asiatiche verso la Cina s’innalzano a 254 miliardi di dollari, il che equivale ad un aumento del 35% se confrontato all’anno precedente. Le esportazioni dell’Africa verso la Cina aumentano dell’87% rispetto l’anno precedente, quelle dell’America Latina del 77%.
Verrebbe da commentare: bene, eccellente, continuate così, perché il terzo mondo ne trae dei vantaggi; invece, da parte dei numerosi padroni europei e americani, aumenta l’atteggiamento ostile nei riguardi della Cina. Si rendono, infatti, conto che, grazie alla Cina, numerosi paesi del terzo mondo hanno la possibilità di sottrarsi al loro controllo. Temono che la perdita dei mercati in Africa, Asia e America latina culmini in una crisi fatale degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale. L’ostilità dei padroni è causata dal timore che, con la Cina come motore principale, lo sviluppo del terzo mondo non abbia a costare la testa al loro sistema.
Peter Franssen
Fonte: www.ptb.be/solidaire.htm
Hebdo, 11 maggio 2005
Traduzione per www.comeonchisciotte.org a cura di TIRZAN
Note:
1 Barbara Tuchman, Stilwell en de Amerikaanse rol in China, Agon Amsterdam 1988, p.37.
2 Lenin, L’impérialisme, stade suprême du capitalisme, Oeuvres, Tome 22, Editions Sociales Paris 1960, p.274.