PANE E TERRA, CHE SCUOLA !

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DI ERMANNO OLMI
ilsole24ore

Il mio primo lavoro è stato da garzone di fornaio. Nell’estate del 1944 c’era la guerra e a Milano bombardavano tutte le notti.
Con la mia famiglia ero sfollato in campagna, nella casa dei nonni.
Per andare alla panetteria mi alzavo alle due dopo la mezzanotte e mi incamminavo col pensiero che a quell’ora tutti erano abbandonati al sonno profondo, mentre io solo, nell’immobiltà della notte, provavo la sensazione di compiere un atto quasi eroico e mi sentivo orgoglioso del mio lavoro.
Il fornaio, che si chiamava Pericle, cominciava ad accendere il fuoco con le fascine di ramaglia, per portare a temperatura il forno.
Si facevano almeno 3 o 4 infornate e si lavorava fino a mezzodì, compresa la domenica.

Avevo 13 anni e la mia paga consisteva in un chilo di pane al giorno. Quel chilo di pane era oro perchè sempre, quando c’è guerra c’è anche carestia. Però ho un bel ricordo di quel primo lavoro. Se pure la fatica era tanta per un ragazzo della mia età, tuttavia non mi è costato sacrificio e oggi sono contento d’aver praticato una delle più nobili attività che può fare un uomo.
Se fossi un maestro di scuola tutte le mattine comincerei la giornata col fare il pane insieme agli scolari. Credo che sia la più bella preghiera che possiamo rivolgere al cielo.

E quante altre occasioni di felicità ho provato da ragazzo nel partecipare ai lavori della campagna. La cosa più bella, a quei tempi, era che tutti in famiglia dovevano prestarsi a fare quel che c’era da fare. E così il lavoro dei contadini univa la famiglia mentre la fabbrica divide. Poi c’erano anche momenti di aiuto solidale dove era consuetudine che tutti ci si dava una mano: la trebbiatura del grano, la spannocchiatura del mais nelle sere di fine estate coi racconti degli esempi come le chiamavano i vecchi, storie esemplari appunto, già sentite tante volte e pure sempre così avvincenti e ricche di sapienza. E poi i canti degli amori tanto sospirati. Mi piaceva la canzone che diceva: “La domenica andando alla Messa, (ac)compagnata dai miei amatori…” Mi piaceva perché anche io andavo alla Messa alta della domenica dove avevo visto un volto bellissimo di fanciulla, ancor più bello dell’angelo custode.
La vita della corte contadina lombarda era un modello di comunità dove i comportamenti umani, nobili o meschini, erano sotto gli occhi di tutti. Nessuno poteva barare né camuffare i propri sentimenti.
Il senso della dignità era un dato distintivo di cui ci si onorava. Col durare della guerra, però, molte cose finirono per mutare e le virtù da galantuomini cedettero alla necessità della fame.

L’Associazione dei Probi Contadini ancora resisteva presso la sede parrocchiale ma intanto cominciarono i primi furtarelli: spariva qualche coniglio dalle gabbie e le galline nei pollai erano contese ai denti dalle volpi. Il precetto “Non desiderare la roba d’altri” andava sempre più affievolendosi. Tanto che ogni famiglia al calare della sera, ritirava le galline all’interno della casa. Mia nonna le ricoverava nel cassone al posto della legna dove aveva messo sul fondo uno strato di cenere che cambiava ogni giorno. Così i polli erano al sicuro. Ma in casa nostra accadde un piccolo inconveniente.
Con le galline c’era anche un vispo galletto il quale ancora prima dell’albeggiare si metteva a cantare il suo dirompente mattutino.
Un mio zio, che lavorava a Milano e faceva i turni, non ne poteva più di quel chicchirichì che gli interrompeva il sonno fuori orario e così una mattina diede un pugno di tanta potenza sul coperchio del cassone che da quel momento il gallo rimase muto per tutto il resto dei suoi giorni.
Intanto io ero diventato bravo a lavorare la pasta nelle varie forme che allora si davano al pane: le rosette, le banane, i cornetti, i filoncini col taglio di traverso. Pericle il fornaio era un vero maestro nel mettere in fila le michette su una lunga stecca di legno – a volte così carica che si incurvava come un arco teso – e la infilava nel forno costruendo una disposizione geometrica perfetta. La moglie di Pericle si chiamava Rosa. Era donna ancora giovane ma aveva già i capelli grigi. Era lei che serviva in negozio. Parlava sotto voce, sempre gentile con tutti. Conosceva bene tutta la sua clientela.
E le condizioni delle famiglie più povere meglio del confessore. Così capitava che confidasse a suo marito: “E’ già suonato l’Angelus e la Bice del Pelio non è ancora venuta a ritirare il pane”. Pelio era il nome del ciabattino (il suo vero nome era Ampelio che in dialetto diventava Pelio). Era una famiglia con molti figli e per questo ancora più povera. E se la Bice non passava a ritirare il pane era perché non poteva pagare e si vergognava. Allora la moglie di Pericle mi mandava a portare il sacchetto con la solita quantità per sfamare tutti quanti i figli e senza neanche il libretto da segnare il debito.
Il più grande dei figli di Ampelio era stato il mio più grande amico fin da quando eravamo piccoli e si chiamava Angelino. Angelino del Pelio, appunto.

Da quei giorni così lontani è passato più di mezzo secolo. Fino a pochi anni fa, chi ricordava con affezzione il mondo e la cultura contadina era considerato un ingenuo nostalgico. Ora, molti segnali inquietanti sul nostro destino ci fanno riconsiderare la necessità di una nuova alleanza con la terra. La terra come zolla dove si perpetua la rigenerazione della Vita. E invece siamo minacciati da progetti scellerati che hanno in sé i presupposti di una distruzione senza ritorno della natura. I popoli delle società avanzate sono diventati estranei alle sorti della terra che ci deve nutrire.
Per anni abbiamo vissuto di un’ economia dello spreco e della spazzatura. Un terzo del pane che fino adesso si produce da noi ogni giorno viene buttato via: Ma tra poco sarà la Terra stessa che ci costringerà a mettere giudizio. Come dice Evelyne Pieiller: “Non sarà la fine del mondo, ma la fine del nostro mondo”. E aggiungo un’affermazione di Jorge Luis Borges: “Non ci credo più al progresso. Che sia un progresso?”.
A proposito del pane: nelle case dei contadini non si sprecava neanche una crosta del pane avanzato e la saggezza delle donne, con un po’ d’acqua e una buona cipolla, ne aveva fatto un piatto di assoluta e rara squisitezza. Oggi è fortunato chi ancora può gustare un pancotto.

P.S. Sono stato a rivedere la mia scuola elementare in via Bodio alla Bovisa, che quand’ero bambino era un rione della periferia estrema e più povera di Milano. Ho rivisto i corridoi delle aule e sono entrato in quella che era stata la mia classe: La 1B. Ora, la direttrice che mi accompagna, bravissima e appassionata, mi mostra il registro del mio primo anno scolastico 1937-1938 coi nomi di tutti i miei compagni.
Ma quel che mi colpisce nel lungo elenco dei dati anagrafici di ciascun alunno è che la colonna conclusiva del Giornale di Classe è riservata alla “Condizione della famiglia”. In tutta la scolaresca di quaranta bambini, solo quattro nomi sono qualificati con la definizione “civile”. Tutti gli altri di condizione “operaia”. Dunque, esattamente settant’anni fa, la condizione operaia non era “civile”? Ho scoperto che per civile s’intendeva “abbiente”. E infatti i quattro nomi dei miei compagni privilegiati erano proprio i più ricchi della classe. Gli altri avevano anche la segnalazione di “povero” e perfino di “poverissimo”. E io ero già uno dei fortunati perché ero classificato soltanto “povero”. Ma chissà come sarei stato definito se avessero conosciuto la mia vera appartenenza alla condizione “contadina”.

Tutta la mia infanzia, prima dell’età scolare, l’ho vissuta in gran parte dalla nonna materna che aveva un po’ di terra coltivata, la stalla con la mucca e il cavallo per i lavori nei campi. E la vita di campagna è stata la mia prima vera scuola, quella dove si percepisce la forte sensazione fisica dell’esistere. La luce e il buio: il giorno e la notte. La fame, la sete, il caldo, il freddo. La protezione tenera dell’abbraccio materno, la paura della solitudine, il pianto del dolore. Ma soprattutto, in quel mondo contadino, si imparava a procurarsi da vivere con quello che la natura ha provveduto per la sopravvivenza del genere umano. In quei miei primi anni di vita ho conosciuto quanto poi mi è servito a distinguere tra una vita “naturale” e una vita “artificiale”.

Ermanno Olmi, Domenicale del Sole24ore, Domenica 1 Giugno 2008

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