“Forse Calipari era un bersaglio. Gli scontri tra i servizi non sono solo spy story”
Intervista a Giulietto Chiesa”
DI ALESSANDRO CARDULLI
“Ti racconto un fatto realmente accaduto che riguarda i servizi segreti”. Inizia così la conversazione con Giulietto Chiesa, europarlamentare, giornalista che conosce a fondo vita, morte e miracoli di tanti paesi, non ultimo l’Iraq dove proprio di recente ha visitato Bassora, Nassirija ed altre località. “Lo scenario è la Cecenia, ma potrebbe essere anche un altro dei tanti paesi dove i servizi segreti hanno piantato le tende. Accade ovunque che vi sono infiltrazioni a doppio senso, io t’infiltro e tu m’infiltri. Il problema, sembra un gioco da ragazzi, è evitare che gli infiltrati possano essere riconosciuti. Per questo i servizi si chiamano segreti. Veniamo al fatto di cui conosco il protagonista anche se, per ovvie ragioni, non posso dirti il nome: questa persona, in Cecenia, contatta un servizio. Capita che, per caso, per un puro caso, fra coloro che contatta ci sia una persona che lui conosce e che non dovrebbe esserci. Un infiltrato dai russi, appunto. Sai cosa ha dovuto fare per salvarsi la vita? Scappare immediatamente, lasciare la Cecenia. Quello che aveva visto lo metteva in pericolo. Non avrebbe dovuto vederlo.”Giulietto Chiesa mi racconta questo episodio riferendosi ai rischi che corrono coloro che trattano con terroristi, resistenti, guerriglieri, che operano in situazioni di costante pericolo. Nicola Calipari aveva compiuto altri salvataggi, era un personaggio noto in diversi ambienti iracheni. “Chi porta avanti trattative difficili, complesse, per forza di cose si trova immerso in problemi delicati – continua Chiesa – in contiguità con gruppi di varia natura che costituiscono una zona grigia, con gli infiltrati di cui ti parlavo, doppiogiochisti. Uno che arriva in Iraq deve costruirsi una serie di contatti, capire chi è che tratta davvero. Un girone infernale da cui non si può più uscire, se non abbandonando il più rapidamente possibile il paese dove hai operato a missione compiuta e non tornarci mai più”.
Chiesa insiste molto sul ruolo dei servizi, sul loro operato, su intrecci che neppure il tuo alleato deve conoscere. L’operatività dell’agente deve essere ignorata anche se quello che stai facendo, non i tuoi rapporti e i tuoi contatti, l’alleato deve conoscerlo.
“Insomma – rileva – voglio dire che proprio Nicola Calipari poteva essere diventato un bersaglio, poteva aver visto qualcosa che non doveva. Gli scontri fra servizi, in questi paesi dove si vive fra guerriglia, terrorismo e resistenti, sono possibili, sono fatti reali. Non si leggono solo sui libri che parlano di spionaggio”. E’ una pista sui cui indagare anche se “non escluderei, allo stato delle cose, che si sia trattato di un incidente casuale, sapendo che incidenti come questo sono la normalità, sono all’ordine del giorno”.
“I dati certi allo stato sono pochi ma indicativi – prosegue – riguardano la velocità dell’auto che non era elevata come dicono gli americani, che non vi è stato alcun avvertimento, hanno sparato e basta. Certo è anche il fatto che tutti sapevano che c’era un auto con a bordo l’ostaggio liberato, con un agente del Sismi e un suo collaboratore. Ad attenderli all’aeroporto, come ora sappiamo, un altro agente del Sismi, il capo del contingente militare italiano e il capo della postazione della Cia”. Chiesa tratteggia questo scenario, indica queste certezze perché sono la base da cui deve partire la commissione d’inchiesta “per un’indagine seria, per arrivare a verità e chiarezza. Non ci crede molto come ha detto anche ad un giornalista del Los Angeles Times che lo ha intervistato: “Difficilmente – ha affermato – gli americani diranno qualcosa per loro scomodo”. Questo è un altro dei nodi da sciogliere, per gli americani è “scomodo” anche ammettere l’incidente casuale perché significa prendere atto del totale fallimento della politica di Bush, della guerra preventiva. “Se in Iraq i soldati Usa sparano quando si avvicina qualcosa che secondo loro può esplodere – ragiona Giulietto – se vivono nel terrore che un’automba possa farli saltare in aria in qualsiasi momento, se il terrore corre sul filo, per usare un’espressione non originale ma efficace, se si muore non in un combattimento convenzionale ma all’angolo di una strada, se pattugli dietro una curva e dall’altro lato della strada arriva un auto e tu spari a raffica, vuol dire che la guerra non è mai finita. E’una guerra terribile, senza fine. I nostri soldati che stanno a fare in questo paese, quale ruolo svolgono? La situazione ha perduto ogni segno di razionalità: questo è un carnaio dove non è facile distinguere gli amici. Dopo l’euforia delle elezioni, perché restare in Iraq, per cosa? Quando un giornalista non può svolgere il proprio lavoro, quando si dice che non deve andare, quando tutti i civili e anche i militari sono in continuo pericolo, ripeto, perché restare?”
Alessandro Cardulli
Fonte:www.aprileonline.info
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