Non è un Paese per genitori lavoratori e la Covid lo conferma

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Di fronte al prolungarsi delle politiche di gestione dell’epidemia basate sulle chiusure, in particolare delle scuole, il Governo si è trovato costretto a dover emanare un Decreto Legge che avesse le sembianze di un provvedimento a sostegno dei genitori lavoratori.

Prima di analizzare un po’ più da vicino il D.L. n.30 del 13 marzo 2021[1], facciamo un piccolo tuffo nel passato per ricordarci come sono strutturati gli istituti volti a tutelare il diritto dei lavoratori a diventare genitori.

La comparsa del concetto di tutela dei genitori lavoratori, nella normativa italiana, avviene nel 1971 con la Legge n. 1204[2] che prevedeva, solamente per le madri lavoratrici subordinate, la possibilità di astenersi dal lavoro, una volta trascorso il periodo di astensione obbligatoria, per un periodo massimo di 6 mesi, entro il primo anno di vita del bambino. La lavoratrice aveva diritto a conservare il posto di lavoro e le veniva riconosciuta un’indennità pari al 30% della retribuzione. Pochi anni dopo, con la Legge n.903 del 1977[3] viene esteso il diritto all’astensione facoltativa anche ai padri, ma solo in alternativa alla madre e solo se lavoratrice subordinata.

Si dovrà aspettare il 2000 per assistere ad una ripresa del tema in senso normativo, con una rivisitazione, quasi totale, della disciplina dell’istituto dell’astensione facoltativa attuata dalla Legge n. 53 del 8 marzo 2000[4] “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”  che introduce il congedo parentale.
La platea dei beneficiari dell’istituto del congedo parentale si estende, ma restano comunque esclusi i libero professionisti e i padri lavoratori autonomi. E’ in questo contesto che si inizia a delineare la figura del “genitore lavoratore” quasi una figura neutra[5] che pone sullo stesso piano padre e madre riconosciuti in egual misura come fruitori del congedo parentale, per perseguire un riequilibrio delle responsabilità all’interno della coppia genitoriale[6], congedo che diventa diritto individuale in linea di principio non trasferibile[7].
Tale norma viene poi ripresa e integrata dal D.Lgs 151/2000[8] “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità” che, oltre a disciplinare il congedo in termini temporali e a ripartirlo tra i genitori, ne prevede anche un elevamento fino a complessivi 11 mesi, ma quello che ci preme mettere in evidenza è la definizione del trattamento economico indicato all’art.34 del T.U. che statuisce in caso di congedo, ancora una volta, un’indennità pari al 30% della retribuzione per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi. Superato tale limite, potendo usufruire del congedo fino ad 11 mesi complessivi, i restanti periodi di congedo non danno diritto ad alcuna forma di indennità, né di contribuzione.
Va da sé che viene completamente tradito lo spirito della norma che dovrebbe avere la finalità di consentire ai genitori lavoratori la possibilità di sospendere temporaneamente l’attività lavorativa per accudire la prole, in particolare nei primi anni di vita, evitando che le condizioni economiche ostacolino l’accesso al congedo, per non parlare del profilo di incostituzionalità rispetto a quanto sancito all’art.36 della nostra Costituzione che prevede che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.  Porre a zero la retribuzione equivale ad impedire al genitore lavoratore di poter scegliere di usufruire del congedo in modo continuativo, a meno di non disporre di altre risorse economiche, il che rende la norma anche iniqua.
Anche dal lato previdenziale si possono notare alcune storture, infatti i benefici previdenziali si realizzano attraverso l’accreditamento di contributi figurativi che vengono calcolati sulla media delle retribuzioni percepite nello stesso anno solare del periodo di congedo. E’ evidente che questo è un ulteriore elemento che spinge il genitore lavoratore ad optare per una fruizione molto frazionata dei congedi, per evitare una riduzione consistente sia della retribuzione che della contribuzione, limitando di fatto la scelta di utilizzo del congedo, laddove invece si dichiarava di voler consentire una maggiore conciliazione dei tempi lavorativi con quelli di vita, in particolare di cura.
Nell’ultimo anno abbiamo sentito spesso parlare di voucher baby-sitting e affini, ma non si tratta di una novità dei nostri giorni, quanto di un retaggio derivante dalla Riforma “Fornero” Legge n.92 del 28 giugno 2012[9], che introduce appunto il voucher baby-sitting in alternativa al godimento del congedo parentale da parte della madre, quasi volendo spingere quest’ultima a riprendere tempestivamente il lavoro, privilegiando logiche legate alla produttività rispetto alla tutela del legame madre-figlio.
Sarà poi il Job Act a mettere di nuovo le mani sul tema della tutela dei genitori lavoratori, infatti il D.Lgs n. 80 del 15 giugno 2015[10] “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”, introduce alcune innovazioni in riferimento alla modulazione dell’orario di lavoro in modo da consentire ai lavoratori di poter usufruire del congedo anche ad ore, alternando nella giornata periodi di lavoro a momenti di cura. Ancora una volta, però viene mortificata la scelta del genitore lavoratore di poter godere del congedo parentale per periodi prolungati, potendo comunque adempiere in modo continuativo alla propria attività lavorativa, a riprova di come la dimensione lavorativa prevalga su quella familiare.
Il Job Act allunga come una molla anche i limiti temporali di indennizzo del congedo parentale, ma solamente elevando, da tre a sei anni di vita del figlio, il periodo entro il quale il genitore che fruisce del congedo, ha diritto all’indennità che, come sancito nel 1971, resta ferma al 30% della retribuzione, sempre nel massimo dei sei mesi complessivi, restano a zero i restanti periodi di congedo.
Venendo al più recente decreto del Governo Draghi sui congedi parentali e i voucher baby-sitting non c’è da stupirsi se le misure proposte sono ancora una volta palesemente insufficienti, come d’altronde si erano rilevate essere le analoghe proposte dal Governo Conte.
La storia della tutela dei genitori lavoratori ci mostra come i tanto declamati principi di conciliazione vita-lavoro o addirittura le sbandierate politiche per le pari opportunità e gli scintillanti proclami sulla parità di genere, a cui nessun politico si sottrae in particolare nella Giornata Internazionale della Donna, poi puntualmente si vadano a schiantare miseramente con la realtà dei fatti e soprattutto con l’attuazione delle norme, non scritte affatto per tutelare il genitore lavoratore.
Le politiche di chiusura attuate durante la pandemia da Covid-19 hanno messo in evidenza la situazione dei genitori-lavoratori, che erano costretti già prima dell’emergenza sanitaria a barcamenarsi in un sistema non pensato per le famiglie e per la conciliazione dei tempi.
Ma questo periodo ha messo in luce anche tutti i limiti di una politica, che pur ravvisando la necessità di un’azione, viene tarpata nella sua visione dai vincoli imposti alla spesa pubblica.
Non potendo coprire le necessità di tutti i genitori lavoratori ai quali è stata imposta la permanenza in DAD dei propri figli, il Decreto impone dei vincoli di attuazione delle misure di sostegno che di fatto le rendono inefficaci.
Lo smart working viene imposto come strumento alternativo al congedo parentale e anche in presenta di figli disabili; in caso di congedo l’indennità prevista è pari al 50% della retribuzione, il che sembrerebbe una condizione migliorativa rispetto all’attuale norma, ma tale indennità scende a zero in caso di figlio tra i 14 e i 16 anni. La misura del bonus baby sitting, rivolta ai sanitari, agli autonomi e a tutto il comparto sicurezza è una misura non aderente ai costi di mercato, €100 a settimana che erogati tramite il libretto famiglia diventano €80 netti per il prestatore, non coprono neanche 10 ore alla settimana di attività di una baby sitter. Ai lavoratori autonomi non iscritti all’Inps, ma alle relative casse previdenziali, la fruizione del bonus è subordinata alla comunicazione, da parte delle casse all’Inps, del numero dei beneficiari, questo perché vanno prima valutate le coperture e poi assegnati i bonus. Infatti al comma 8 dell’art.2 del DL è indicato il limite di spesa, raggiunto il quale le successive domande non saranno prese in considerazione. Quindi di fatto la misura non è destinata a tutti gli aventi diritto, ma solamente a quelli che riusciranno a trasmettere per primi la domanda. Ancora una volta è il vincolo di spesa che determina la decisione politica, che tradisce se stessa nelle intenzioni dichiarate e nelle misure adottate.
In definitiva il contenimento della spesa pubblica si traduce, inesorabilmente in un aumento della spesa privata, sia per le famiglie che per le imprese (proviamo ad immaginare il connubio smart working-dad: inconciliabile). Infine si potrebbe anche prevedere un ulteriore effetto negativo del decreto: una misura che è in netta contraddizione con quanto raccomandato e imposto in termini di contenimento del contagio, poiché porterà i genitori a doversi inevitabilmente affidare alla collaborazione di altri familiari, in particolare dei nonni, in un momento in cui invece si impone il divieto di contatti sociali, al fine di limitare la diffusione del virus, proprio a tutela delle categorie fragili alle quali gli stessi nonni appartengono.
Purtroppo per i genitori lavoratori si prospettano ancora tempi molto difficili perché, nonostante gli annunci, le soluzioni proposte sono ancora molto lontane dall’esserlo veramente.

 

di Letizia Lanzi – CSEPI

 


Note

[1] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/03/13/21G00040/sg;
[2] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1972/01/18/071U1204/sg;
[3] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1977/12/17/077U0903/sg;
[4] https://www.parlamento.it/parlam/leggi/00053l.htm;
[5] Del Punta, Lazzeroni e Vallauri, I Congedi parentali. Commento alla Legge 8 marzo 2020, n.53;
[6] Del Punta, Nuova disciplina dei congedi, pp.162-163;
[7] Gottardi, I congedi parentali nell’ordinamento italiano, p.503;
[8] https://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/01151dl.htm;
[9] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2012/07/03/012G0115/sg;
[10] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/06/24/15G00094/sg

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