Philip Giraldi
Strategic-culture.org
Ora che il Partito Democratico sembra essere riuscito a sbarazzarsi delle uniche due voci tra i suoi candidati presidenziali che si sono di fatto allontanate dal consenso dell’establishment, Joe Biden si candiderà contro Donald Trump a novembre. Per essere chiari, Bernie Sanders e Tulsi Gabbard sono ancora in attesa, ma la soluzione è stata trovata e il Comitato Nazionale Democratico (DNC) ha fatto in modo che Sanders ricevesse il colpo di grazia il ‘Super Tuesday‘; mentre Gabbard sarebbe stato escluso dalla partecipazione a qualsiasi dibattito di fine mandato.
È opinione comune che il brusco ritiro dei candidati Amy Klobuchar e Pete Buttigieg alla vigilia del ‘Super Tuesday’ che ha preso di mira Sanders sia stato organizzato attraverso un intervento dell’ex presidente Barack Obama che ha fatto un appello a sostegno dell’ “unità del partito”, offrendo ai due un significativo quid pro quo lungo la strada se fossero stati disposti a lasciare la corsa e a dare il loro sostegno a Biden, cosa che hanno fatto doverosamente. Si dice che Klobuchar potrebbe benissimo finire come vicepresidente di Biden. Una versione alternativa è che si trattava di “un’offerta che non poteva essere rifiutata” da parte dei Clinton.
Tulsi nel frattempo è stata emarginata dopo essere stata diffamata dall’affermazione di Hillary Clinton che era una “risorsa russa” che il Cremlino aveva “curato”. Le è stato poi negato il posto che le spettava nel dibattito del 15 marzo a causa di un improvviso e inaspettato cambiamento di regole nel programma, deliberatamente concepito per escluderla. Tanti saluti alla democrazia interna del cosiddetto Partito democratico.
Ora che la scaletta per novembre sembra fissata, la discussione si è spostata su questioni politiche specifiche. La politica estera non ha avuto un ruolo importante nei dibattiti del Partito democratico, ma ci si aspetta che sia più visibile nella corsa presidenziale, in particolare alla luce di alcuni degli errori più evidenti commessi da Donald Trump e dai suoi collaboratori.
L’ultimo errore della Casa Bianca, l’attacco aereo del 3 gennaio in Iraq che ha ucciso il generale maggiore iraniano Qassem Soleimani e otto alleati iracheni, sta ancora risuonando, avendo prodotto solo la scorsa settimana un attacco su una base statunitense che ha ucciso due soldati americani e uno britannico, seguito da un bombardamento di ritorsione da parte delle forze statunitensi dirette contro la milizia irachena Kataib Hezbollah, che si dice sia sostenuta dall’Iran ma che è stata anche integrata nelle forze armate irachene. L’azione unilaterale degli Stati Uniti si sta svolgendo senza il consenso di Baghdad e nonostante il governo iracheno chieda a Washington di chiudere le sue basi e di ritirare le truppe rimanenti, che sono circa 5000.
Ironia della sorte, l’assassinio di Soleimani con le sue conseguenze è un tema che probabilmente non verrà riportato dal geniale ma confusionario Biden, dato che entrambe i principali partiti sono saldamente in balia della lobby israeliana ed è improbabile che si lamentino dell’uccisione di un alto funzionario iraniano. Né il prossimo presidente, chiunque egli sia, ribalterà la disastrosa decisione di Trump e si unirà all’accordo JCPOA del 2015 che aveva lo scopo di monitorare il programma nucleare civile dell’Iran.
Sia Trump che Biden potrebbero ragionevolmente essere descritti come sionisti, Trump in virtù delle posizioni di politica estera made-in-Israele che ha ricoperto dopo la sua elezione, e Biden con le parole e i fatti durante tutto il suo tempo in politica. Quando Biden ha incontrato Sarah Palin nel 2008 nel dibattito vice-presidenziale, lui e la Palin hanno cercato di superarsi a vicenda nell’entusiasmarsi per quanto amino lo Stato ebraico. Biden ha detto che “Sono un sionista. Non devi essere un ebreo per essere sionista” e anche, ridicolmente, “Se non ci fosse un Israele, gli Stati Uniti dovrebbero inventarne uno. Non abbandoneremo mai Israele – per il nostro interesse personale. È il miglior investimento di 3 miliardi di dollari che facciamo”. Biden è stato uno dei relatori abituali del vertice annuale dell’AIPAC a Washington.
Trump potrebbe essere descritto sia come paranoico che come narcisista, che significa che si vede circondato da nemici e che i nemici lo vogliono attaccare personalmente. Quando viene criticato, o ridicolizza la fonte o fa qualcosa di impulsivo per deviare ciò che viene detto. Ha attaccato la Siria due volte, sulla base di false affermazioni sull’uso di armi chimiche, quando si è sviluppato un consenso nei media e nel congresso sul fatto che fosse “debole” in Medio Oriente. Quegli attacchi erano crimini di guerra perché la Siria non minacciava gli Stati Uniti.
In modo analogo, Trump è tornato sui suoi passi nel ritirarsi dalla Siria quando si è imbattuto nelle critiche alla al suo piano di allontanare gli Stati Uniti dall’Afghanistan, che se dovesse svilupparsi, potrebbe facilmente essere sottoposto a una simile revisione. Trump non è proprio l’uomo che, come presidente, ha dimostrato di essere seriamente alla ricerca di una via d’uscita dalle interminabili e inutili guerre americane, a prescindere da ciò che i suoi sostenitori continuano ad affermare.
Biden è su un altro binario in quanto è un falco dell’establishment. Come capo della commissione Affari Esteri del Senato, nel 2002-2003 ha dato il via libera al piano di George W. Bush di attaccare l’Iraq. Al di là di questo, egli ha fatto il tifo per lo sforzo dei banchi del Partito democratico, contribuendo a creare un consenso sia a Washington che nei media sul fatto che Saddam Hussein era una minaccia che doveva essere affrontata. Avrebbe dovuto saperlo meglio perché era al corrente di informazioni che suggerivano che gli iracheni non erano affatto una minaccia. Non ha moderato la sua melodia sull’Iraq fino a dopo il 2005, quando l’attesa vittoria a suon di ‘slam-dunk’ si è rivelata molto incasinata.
Biden è stato certamente al corrente anche delle decisioni prese dal presidente Barack Obama, che includono la distruzione della Libia e l’uccisione di cittadini americani con un drone. Non si sa se abbia sostenuto attivamente queste politiche, ma di fatto non ne è mai stato chiamato in causa. Quello che è chiaro è che non si è opposto ad esse, un altro segno della sua volontà di assecondare l’establishment, una tendenza che senza dubbio continuerà se sarà eletto presidente.
E le reminiscenze di politica estera di Biden sono soggette a quelle che sembrano perdite di memoria o incapacità di articolazione, illustrate da tutta una serie di passi falsi durante la campagna. Più volte ha raccontato una storia del suo eroismo in Afghanistan che è una completa finzione, simile alle bugiarde affermazioni di coraggio di Hillary Clinton sotto il fuoco nemico in Bosnia.
Quindi, abbiamo un presidente che prende la politica estera sul personale in quanto i suoi primi pensieri sono “come mi fa apparire?” e un potenziale sfidante che sembra soffrire di fasi iniziali di demenza senile e che è sempre stato affidabile per sostenere la linea dell’establishment, qualunque essa sia. Anche se Trump è il più pericoloso dei due, in quanto è sia imprevedibile che irrazionale, la probabilità è che Biden sia guidato dai Clinton e dagli Obama. Per dirla in un altro modo, non importa chi sia il presidente, la probabilità che gli Stati Uniti cambino direzione per allontanarsi dal loro interventismo e dal bullismo su scala globale è praticamente inesistente. Almeno finché non finiscono i soldi. O per esprimerlo come fa un mio amico: “Non importa chi viene eletto, noi americani finiamo per avere John McCain”. Buonanotte America!
Philip Giraldi, ricercatore, è direttore esecutivo del Consiglio per l’Interesse Nazionale.
Visto su: Russia-insider.com
Traduzione per Comedonchisciotte.org a cura di Ruggero Arenella