DI CARLO BERTANI
“Come piombo pesa il cielo questa notte.
Quante pene e inutili dolori.”
Franco Battiato – Come un cammello in una grondaia
Come ogni anno – accompagnate dal danzare del tempo – giungono le giornate della Memoria e del Ricordo. Arrivano quando l’Inverno cerca ancora di resistere, mentre le prime, timide brezze di Primavera s’incanalano nel fondo delle valli per ravvivare il verde spento dei prati.
E noi ricordiamo. Ricordiamo il gelo dell’Inverno che ci ha trapassati, che ci ha addolorati, pervasi, consunti.
Viene da chiedersi, allora, quali siano i tempi ed i modi del rammentare, del rinnovare a nuova memoria accadimenti che non si possono lasciare sedimentare nel baratro della Storia, senza accompagnarli con le pennellate di una melodia, per rendere loro onore nel palcoscenico della mente.
Si dà il caso che ricordo e memoria non possano soltanto trarre linfa dalle pagine dei libri, ma che – senza quelle pagine – diventino soltanto slavate leggende. E, sulle saghe, nessuno pontifica: ci si crede oppure no, e basta.
Come ritrovare allora il senso del rammentare, senza precipitare nella fredda cronologia degli orrori, oppure nella vuota enfasi dei retori, abbandonando così ogni speranza di vero ricordo?
Abbiamo innumerevoli esempi di questa pessima abitudine, particolarmente nel nostro Paese, una nazione dove la mancanza di veri mezzi di comunicazione s’evidenzia proprio nella gestione di quello che diventa un vuoto rito, la sterile ritualità della memoria e del ricordo.
Un Paese – nel quale il proprietario delle maggiori reti televisive è stato e si candida a diventare Presidente del Consiglio, sorretto/contrastato da migliaia di giornalisti pagati dallo Stato con la truffa delle leggi sull’editoria – quale elaborazione del tempo può fare? Come può affrontare memoria e ricordo, senza la libertà d’esprimere ad ogni livello tutte le verità che ogni frammento del vivere contiene? Si può affrontare un’analisi (di qualsiasi tipo) ponendo anzitempo dei limiti all’agire?
Si giunge così alla frammentazione ed alla sedimentazione di memorie e ricordi, vagliando accuratamente ciò che può e quello che non può essere raccontato. A prima vista, il maggior danno sembrerebbe di natura etica (per chi pianifica simili operazioni) e deontologica (per chi si presta ad eseguirle). Politici e giornalisti di regime, accomodatevi. In realtà, è l’intero patrimonio storico di un popolo che va a farsi benedire. False memorie, portano a pessimi futuri.
Per chi invece cerca onestamente d’osservare ricordi e memorie, per traslarli nel vivere collettivo, non è più nemmeno necessario citare fonti, perché la truffa è così sfacciata ed evidente da gridare lo schianto della menzogna, in ogni pagina di quotidiano, su ogni canale televisivo.
Dobbiamo meravigliarci se qualcuno ha qualcosa da ridire per la “dedica” ad Israele della Fiera del Libro di Torino? E, attenzione: si tenta di demonizzare chi non è d’accordo! In democrazia!
Forse qualcuno avrebbe dedicato una Fiera del Libro al Sudafrica dell’apartheid? No, perché non sapremmo come altrimenti definire Gaza ed il West Bank. “Territori occupati”? Oppure lager a cielo aperto, dove volteggiano elicotteri ed F-16 pronti a colpire dall’alto con razzi e missili? E quando a farne le spese (sorvolando su una pratica bellica proibita dalla Convenzione di Ginevra, ossia il bombardamento di civili) sono famiglie e bambini? Tzahal si scusa: der Krieg über alles. L’avevamo già sentita questa storia, proprio nelle memorie e nei ricordi.
Succede poi che qualcuno pubblica un elenco di docenti ebrei, affermando che “fanno lobby”. Attenzione: nessuno li accusa di sovvertire le leggi dello Stato, d’essere agenti provocatori…niente del genere.
Significa soltanto che c’è un sospetto, il solito: già che abbiamo potere, lo useremo per favorire i nostri interessi e quelli di chi ci sostiene.
Niente di nuovo, ma nemmeno nulla d’importante: se la più potente lobby italiana – da Palazzo Giustiniani a Castiglion Fibocchi – sta per insediare a palazzo Chigi la sua tessera della P2 numero 1816 – codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, 26 Gennaio 1978 – è legittimo chiedersi cosa si propone la (supposta) lobby ebraica? Oppure israeliana? Non è una bestemmia chiedere allo Stato di sapere cosa vogliono fare questi cittadini italiani in possesso del doppio passaporto. Avessero il passaporto egiziano, siamo certi che nessuno avrebbe gridato allo scandalo e, anzi, si sarebbe chiesto da più parti di procedere speditamente nelle indagini. E’ questo uno dei pessimi frutti d’approssimativi “ricordi” e di mal sedimentate “memorie”.
Invece di gridare allo scandalo e di tirare fuori le leggi razziali del 1938, sarebbe più opportuno conoscere cosa desiderano queste lobby (ebraiche e non) in un Paese nel quale non c’è direttore di ASL che non abbia appiccicata al culo la targa di un partito, dove la malasanità – spesso – è frutto di nomine baronali, dove i ricercatori devono andare all’estero per pubblicare a proprio nome i risultati del loro lavoro: in Patria, devono subire l’onta di doverle “passare” al potente di turno. In un Paese, dove anche il più sperduto giornalista ha quel posto solo sulla base di precisi equilibri politici – che significano potere, denaro, lobby – è una bestemmia chiedere di sapere cosa vogliono questi signori? Per prima cosa, per sapere se esiste per davvero questa lobby. In un Paese normale, non si tirerebbero fuori come un manganello le leggi del 1938, perché nulla hanno a che vedere con la vicenda odierna. Memoria e ricordo, iniziano con la verità. E, la verità, non ammette ombre.
Qualcuno potrebbe credere che la Magistratura possa essere così cheta e neutrale da raccontarci la verità: a questo servono le fiammate dei media, a costruire una verità mediatica che possa intimidire anzitempo chi deve indagare. Dopo, ci vuole coraggio per cercare la verità: quando – come nel caso di Clementina Forleo – si giunge, sulla base di precise norme giuridiche, a liberare un sospettato perché non ci sono sufficienti prove, la campagna mediatica antecedente ha già creato un’altra verità, per il volgo e per il palazzo, cosicché è facile dopo accusare il giudice d’essere “non imparziale”. Soprattutto, se lo stesso magistrato sta indagando sulle trame fra mondo bancario e politico.
La pratica retorica di creare eventi mediatici enfatizzati, pieni di (falsi) sentimenti, finisce per insozzare proprio la memoria di coloro che quegli orrori li provarono sulla loro pelle. Serve, inoltre, a mascherare ciò che di poco onorevole ci fu in quelle vicende. Se si ricordano le pagine di Primo Levi, viene da chiedersi con quale coraggio si barattano quelle sofferenze con le combine politiche odierne. Vogliamo proprio saperne di più? Ce n’è da raccontare.
Perché, invece d’intessere i “Papa day”, non chiediamo al Vaticano come mai, la fuga di tanti ufficiali nazisti implicati nella Shoà, avvenne grazie al Cardinal Siri di Genova, che organizzava viaggi in Argentina in accordo con la compagnia Costa, la quale chiudeva entrambi gli occhi?
Qui non ci sono estenuanti ricerche d’archivio da fare, non è necessario scomodare illustri cattedratici: c’è il documento filmato, l’intervista che il segretario personale del Cardinal Siri concesse prima di morire, perché – probabilmente – non se la sentiva di presentarsi al Buon Dio con quel fardello addosso. L’intervista fu trasmessa – come sempre – a tarda ora su una rete RAI molti anni fa: perché, nell’occasione di Memorie e Ricordi, queste cose non si ripropongono?
E’ certamente più redditizio immergersi in elucubrate discussioni su quello che fu il ruolo del Vaticano, ossia lo spregio per il “signor Hitler”, ma anche la paura del “signor Stalin” – forse che Hitler era considerato “uomo della Provvidenza”?
Su queste basi, si può dissertare all’infinito: ci saranno storici che ammetteranno l’impossibilità – da parte del Vaticano – di fare di più per salvare gli ebrei. Altri, che invece sosterranno dei dubbi al proposito. Come giustificare, invece, la “compagnia di viaggio Siri” di Genova, forse affermando che il Vaticano non sapeva nulla? Dell’operato di un Cardinale che fu in procinto di diventare Papa?
Se qualcuno vuole ancora “approfondire”, c’è il film Amen, di Costa Gavras. Ritengo che la firma di Costantin Costa Gavras basti ed avanzi.
E ancora: qualcuno vorrebbe mostrarci quali furono gli attributi della “triangolazione” d’oro fra le banche svizzere, la Germania e la Svezia? Non a caso, i nazisti cercavano sempre e per prima cosa l’oro: la vicenda dei 50 Kg d’oro pretesi dalla comunità ebraica romana (che fu poi tradita) è emblematica.
Perché l’oro? Poiché la Germania aveva una fame d’oro immensa, per pagare la sempre più costosa guerra. La vicenda dei risarcimenti – terminata prima del 2000, per non cadere in una troppo vergognosa prescrizione – è nota: le banche svizzere, dopo mezzo secolo, liquidarono con quattro spiccioli gli averi (predati agli ebrei europei) ottenuti illegalmente dal Terzo Reich, e tutti stettero ben zitti.
Eh, lo crediamo bene: perché una verità “vera” avrebbe condotto a scoprire non le classiche “tre scimmiette” – non vedo, non sento e non parlo – ma una legione di muti, sordi e ciechi. L’acciaio migliore che esiste al mondo, dove si trova? Tutti lo sanno: in Svezia. Possiamo immaginare l’enorme quantitativo d’acciaio che Speer doveva trovare per mandare avanti la baracca nazista? Per costruire sottomarini, panzer, cannoni?
E dove la trovo? Come la pagò? Insomma, signori miei, l’artefice della macchina da guerra tedesca – a Norimberga – pagò solo con una condanna a 20 anni, poiché “mostrò pentimento al processo”! Notiamo che la corte lo ritenne colpevole per i capi d’imputazione 3 e 4: ossia “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”, i più gravi. Vent’anni, s’accomodi e stia ben zitto.
Per Gustav Krupp von Bohlen und Halbach – il nome “Krupp” qualcosa dovrebbe raccontare – fu escogitato addirittura che era “incapace d’intendere e di volere“ e condannarono, in altro processo, il figlio a 12 anni. Thyssen (altro magnate dell’acciaio tedesco) era già fuggito negli USA nel 1935, e là faceva affari con Prescott Bush, il nonno dell’attuale presidente USA, finanziando la macchina bellica tedesca grazie alle sue banche.
Insomma, la vogliamo smettere di raccontare sempre mezze verità o, peggio, mezze bugie con le quali si fabbricano mezze verità? Ecco dove finì ed a cosa servì l’oro rapinato agli ebrei europei.
Oppure dobbiamo chiederci perché i P-38 americani sorvolavano quasi quotidianamente i binari che portavano al complesso di Auschwitz-Birkenau, e non scese mai una bomba per, almeno, rallentare l’invio di prigionieri al lager? Dobbiamo anche raccontare che Otto Skorzeny – colonnello delle SS che liberò Mussolini al Gran Sasso – passò direttamente dalle file delle SS a quelle della CIA?
Se volessimo veramente conoscere le mille verità del nostro passato, dovremmo per prima cosa non indossare paraocchi: cosa, a dire il vero, non facile da fare con la strisciante censura che passa il convento.
L’altro “ricordo” di questi giorni riguarda l’Istria e la vicenda delle foibe.
Anche qui non c’è molto da dissertare, perché la vicenda – nella sua interezza – è di un chiarore disarmante: le truppe italiane si dedicarono per un biennio (1941-43) alla repressione in Dalmazia, e spesso sfogarono sulla popolazione inerme gli attacchi dei partigiani di Tito. Tutto ciò, avveniva dopo un ventennio nel quale gli slavi erano stato brutalizzati dai Fascisti peggiori che l’Italia ha espresso. Basti ricordare figure come il generale Roatta:
“Saranno pure arrestati i maschi validi che affluiscono in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati, dopo la nostra occupazione. Quelli che fra essi non risulteranno del posto, o che non rientrino colle proprie famiglie (circostanza questa che giustificherebbe la loro assenza al momento della nostra occupazione) saranno passati per le armi”. (dal diario storico militare dell’XI Corpo d’Armata, 4 luglio 1942-XX).
Oppure un “orgoglio italico” come Giuseppe Caboldi Gigli. Ascoltiamo Predrag Matvejević, scrittore croato e docente all’Università “La Sapienza” di Roma:
Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l’appellativo vittorioso di “Giulio Italico”, scrive nel 1927: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell’Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell’Istria” (“Gerarchia”, IX, 1927). Lo zelante ministro aggiungerà a ciò anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: “A Pola xe arena, Foiba xe a Pazin” (“A Pola c’è l’arena, a Pisino la foiba”).
Infine, se ancora si hanno dei dubbi, basterà leggere l’ottimo “Si ammazza troppo poco” di Gianni Oliva[1].
Al termine della guerra, si scatenò la rabbia e la vendetta degli slavi: come in ogni parte d’Europa, a pagare furono spesso gli innocenti. Mi sarebbe piaciuto, nei tanti servizi televisivi di questi giorni, ascoltare una parola pacata, che ricordasse le ingiustizie e i dolori, dall’una e dall’altra parte.
In questo strano Paese – dove si può essere solo juventini od anti-juventini – non è ammesso raccontare semplicemente che ci furono due tragedie: la prima causata dalle truppe italiane alle popolazioni slave, la seconda dai partigiani slavi contro la popolazione italiana. Due tragedie, non s’annullano l’una con l’altra, bensì si sommano nel dolore.
Invece, ricordare che l’Italia ebbe gravi colpe nell’occupazione della Dalmazia, è considerato un affronto, perché si contraddice il principio supremo della ricostruzione vuota e retorica, che non conduce al vero, bensì al suo simulacro. Ottone al posto dell’oro, così andiamo avanti.
Anche qui, per ragioni che non sono così nobili.
Tralasciando le velleità jugoslave su Trieste, e l’improponibile revanche italiana sull’Istria – non è questa la sede per approfondire un argomento così complesso – rimane da spiegare l’assurdo menefreghismo che circondò il rientro in Patria di centinaia di migliaia di nostri connazionali, dapprima ingannati dal Fascismo con le sue becere velleità razziali – al pari di quelli che dovettero tornare dalla Libia, dalla Somalia e dall’Etiopia – e poi abbandonati al loro destino.
Al loro ritorno in Italia – non eravamo più nella concitata “prima fase” post-bellica – quei disgraziati non trovarono nulla: furono alloggiati in strutture di fortuna, acquartieramenti militari abbandonati, vecchie fortezze e quant’altro. Con la pelosa carità di un piatto di minestra. Fu proprio in Italia che divennero veri profughi, quasi apolidi senza diritti.
Ho avuto il privilegio d’ascoltare da qualcuno di loro le vicissitudini, i dolori – oramai silenti nella mente, dopo tanti anni – di quell’esodo. Sono meglio di mille retori che marciano in squadra.
La notte d’agosto è tiepida: siamo rimasti solo in due nel giardino della casetta che sorge alle estreme propaggini di Trieste, sui primi contrafforti del Carso. Dopo la festa, la pantagruelica cena a base di carne alla brace e la sfilza di bottiglie di birra “Lasko” radunate in un angolo, siamo rimasti solo io e Alberto – lo chiameremo così – a raccontarci quei fiori che solo la notte sottende, ed ai quali solo la notte consente di sbocciare.
Tutte le cose iniziano sempre da una frase che nulla ha a che vedere con il discorso che prenderà forma, pian piano, man mano che la brezza notturna inizierà a stendere un velo d’umidità sulla tovaglia di plastica.
C’è ancora della birra…sì…ma questa non è più l’ora della birra, ed allora versiamo la rakja – la grappa slava – nelle tazzine del caffé, tanto per cominciare.
Una domanda neutra, innocua, grigia apre le danze: quanto ti manca per andare in pensione? Chiede Alberto. Cinque anni…forse quattro: in Italia – grazie alle continue riforme della previdenza, portate a termine o mancate per un soffio – oramai, lo sai solo quando stai per andarci; la pensione italiana è diventata una sorta di last minute, un avvenimento on demand.
So che Alberto ci è appena andato, ed abbiamo sei anni di differenza: siamo ancora nati entrambi sotto Stalin, ma io sotto Eisenhower, lui sotto Roosevelt. Ride: no, io sono nato sotto Tito.
Dove sei nato? E’ la domanda di rito.
A Rovigno. Già, Rovigno, Rovinij: quanti triestini vengono da Rovigno, forse troppi perché giungere da Rovigno sia un fatto del tutto casuale.
A quel tempo, Rovinij era Rovigno ed era Italia: tutto questo avveniva poco prima che Alberto venisse al mondo.
Poi la guerra, l’invasione italo-tedesca, la resistenza jugoslava, gli ustasha fascisti a dare una mano ai tedeschi – ricevuti in pompa magna in Vaticano – ed i cetnici serbi che credevano sì nella liberazione, ma anche nel vecchio re Pietro.
Quando Alberto era ancora nel grembo della madre il padre cadde, combattendo contro altri italiani – lui che era italiano – e la lasciò sola con un figlio che stava per nascere. Per questa ragione, appena nato, la madre pensò di prendere il posto del marito nella resistenza, fra i partigiani di Tito.
Finì la guerra e vennero i tempi bui, quelli della resa dei conti: Alberto era piccolo e non poteva ricordare i rastrellamenti casa per casa effettuati dai partigiani per stanare ustasha e fascisti, le fucilazioni, le foibe. No, non ricordava: il primo ricordo è una vecchia corriera sulla quale salirono lui, la madre e la sorellina per raggiungere Trieste.
Non chiedo nulla della sorellina, perché è evidente che hanno padre diverso: non voglio metterlo in imbarazzo. Perché fuggivano?
Poiché italiani. Schifoso, vile sberleffo della storia: una donna comunista, partigiana titina, vedova di un partigiano che credeva nella luce di Tito, obbligata a salire su quella vecchia corriera perché italiana! Eppure fu così: italiano divenne sinonimo di fascista, e non solo la pietà ma anche la giustizia finirono abbandonate nel fondo delle foibe.
Alberto ricorda il pianto della madre, mentre osservava allontanarsi il borgo vecchio: tutta la sua vita, i suoi amori, le tante sventure d’ancor giovane donna che svanivano dal finestrino.
Quando si cerca astutamente di non commettere un errore, spesso, si finisce per commetterne uno ancora peggiore; non ho voluto sapere nulla del padre della sorella – perché chiedere una simile inezia? Che importanza può avere un amore disperato, dolce e tremebondo nel fragore della buriana? Che cosa conta, oggi… – ed invece domando, come un sonnambulo deficiente: e tua sorella, dove vive?
La mia sorellina – torna improvvisamente indietro nel tempo, si sfrega il naso con le dita, dice proprio “la mia sorellina”, ed io mi chiedo perché non riesce ad immaginarla grande, magari madre, forse già nonna – morì quando aveva due anni nel campo di raccolta – fa un cenno con la mano ad indicare la nera collina alle nostre spalle – su, in Carso.
Vorrei inghiottire la saliva ma non ci riesco, tutto si è fermato, immobile: anche le foglie, che un attimo prima parevano ondeggiare alla brezza notturna, adesso mi fissano mute e mi chiedono come tanti occhi marziani, verdastri, perché non ho taciuto, perché ho domandato, perché…
Alberto capisce. No, non importa, non potevi sapere, ti capisco, non sei di qui. Quante cose non sappiamo e non riusciamo a comprendere, noi, quelli che “non siamo di qui”.
Giunti a Trieste – così le raccontò poi la madre – credevamo d’essere accolti come italiani: profughi, ma pur sempre italiani.
Invece i triestini ricordavano ancora l’occupazione jugoslava della fine della guerra, non si fidavano di niente e di nessuno, soprattutto di tutto quello che veniva da oltre confine, da quelle nere colline che oggi sembra quasi di toccare con mano.
I primi tempi rimanemmo nella zona del porto, ma non ricordo bene: quel che ricordo è invece il “campo” in Carso, le baracche di legno, il poco cibo, il freddo. Erano vecchi acquartieramenti delle truppe alleate e divennero case per gli sfollati dell’Istria: forse potevano bastare per dei vigorosi montanari dell’Oregon o per gli scozzesi, ma la gente dell’Istria ha il “piede” mediterraneo come un marchigiano od un greco, ed il gelo spaventa, atterrisce.
La mia sorellina morì di freddo: nelle baracche – in quel triste inverno – di notte gelava l’acqua, chissà quanti gradi sotto zero c’erano…
Dormivamo tutti nello stesso letto per scaldarci, e la mettevamo in mezzo perché godesse del tepore dei nostri corpi. Non bastò. S’ammalò, le venne la tosse e non c’erano antibiotici, le venne la febbre e tremò per notti e notti, poi se ne andò. Se ne andò così, la mia sorellina.
In quel momento comprendo – anche se non sono “di qui” – che per Alberto c’è un punto fermo nella vita: in mezzo a tutte le vicende che ti squassano l’anima, lo spirito di Alberto è ancora nascosto da qualche parte lassù in Carso, fra le nere boscaglie che ci sovrastano, e continua a vivere – come uno spettro – in quelle baracche che non esistono più da decenni.
Chissà quante volte, già adulto e sposato, si sarà rannicchiato accanto alla moglie e nel sogno avrà ritrovato la madre, chissà quante volte, quando la figlia voleva rimanere nel lettone, avrà ricordato…mio Dio…
No, non c’è un Dio. Lo accompagno al cancello e lo osservo salire sull’auto, lentamente, nel gran silenzio delle tre del mattino. Lo saluto e torno sui miei passi, verso un letto che non mi vuole e che non desidero: no, non c’è un Dio lassù a vegliare sulle vicende degli uomini, non può esistere un Dio che permette ad una bimba di due anni di morire mentre la madre ed il fratello cercano disperatamente di scaldarla con i loro corpi.
Non c’è un Dio per gli uomini e non c’è neppure per le loro guerre: insane, maledette, bastarde. Tutto il resto, poco conta.
Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com/
Link: http://carlobertani.blogspot.com/2008/02/memorie-e-ricordi.html
10.02.08
[1] Più modestamente, potrete leggere il mio “La congiura del silenzio”, che troverete facilmente sul Web.