DI LUCIANO GULLI
Il Giornale
«Chi ha un minimo di senno dovrebbe comprarsi un pezzo di terreno coltivabile, dal quale cavare il sostentamento per sé e per i propri cari, e due kalashnikov».
Due kalashnikov?
«Sì, per difendersi dagli assalitori, da chi batterà le campagne in cerca di cibo».
Dieci anni fa, quando Massimo Fini diede alle stampe Il denaro, sterco del demonio (Marsilio) sapeva già come sarebbe andata a finire. Vaticinando il disastro, e dando pollice verso al nostro sistema partorito dalla rivoluzione industriale, parlò di Big Bang. «Il denaro, nella sua estrema essenza, è futuro, – scrisse -. È rappresentazione del futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro, simulazione del futuro a uso del presente. L’impressione è che, per quanto veloci si vada, anzi proprio in ragione di ciò, questo futuro orgiastico arretri costantemente davanti a noi. O, forse, in un moto circolare, niciano, einsteiniano, proprio del denaro, ci sta arrivando alle spalle gravi dell’immenso debito di cui l’abbiamo caricato».
«Oggi, leggendo i giornali e guardando il Papa dire che «i soldi sono niente» gli viene in mente il crollo dell’Impero Romano. Una catastrofe, un cataclisma epocale dal quale la gente, «non potendo mangiarsi il cemento delle città, o le fabbriche, o le automobili, cercherà di tornare verso il mondo rurale, quello dell’autoproduzione, del baratto».
Quanto ci vorrà perché l’umanità, gabbata dai futures e dai subprime si metta in marcia verso l’agro romano, o quello umbro, o verso le dolci colline della Carolina del Sud?
«Questo non lo sa nessuno. Ma se accadesse già fra una decina d’anni, io non mi stupirei».Torneremo a dare valore a una mucca.
«Almeno quella ti dà latte, vitelli, bistecche. Il denaro invece è davvero nulla, come dice tardivamente il Papa. Ma lui ne fa una questione di tipo morale, sulla quale sono d’accordo. Però non è solo questo. C’è anche un aspetto, per così dire, esistenziale. Nel senso che il denaro ha condizionato, stravolgendola, anche la nostra esistenza. Il denaro è una convenzione, un’astrazione che si basa sulla fiducia che gli uomini hanno in esso».
Una specie di gioco perverso…
«Un gioco cominciato quando il denaro ha smesso di essere uno strumento per evitare le triangolazioni del baratto ed è diventato a sua volta una merce. E su una merce virtuale, naturalmente, si innesta ogni tipo di manipolazione».
Anche stavolta, naturalmente, chi è rimasto con il cerino in mano sono i risparmiatori, i soliti fessi ai quali si chiede ogni volta di pagare il conto finale.
«Il paradosso stupefacente è che i risparmiatori, avendo poco denaro, finanziano attraverso le banche i ricchi, perché diventino sempre più ricchi. Temendo l’incertezza del futuro, trattengono il denaro senza capire che a essere diventato precario non è il futuro, ma il denaro stesso».
Non è un caso, forse, che l’Europa preindustriale, il mondo tradizionale, contadino, osteggiò l’immissione del denaro nella società che si era venuta sviluppando fin lì.
«Non è un caso no. È il denaro che fa saltare il banco delle società preindustriali. Accadde così anche in Africa, quando i colonialisti imposero il pagamento delle tasse a un mondo contadino che fino ad allora aveva vissuto di baratto e di autoproduzione. Mettere una tassa su ogni capanna voleva dire costringere i contadini a produrre un surplus da vendere per pagare le tasse, farli entrare nel gioco del denaro».
Tu dici che il denaro è futuro. Ma poi dici che questo futuro è inesistente. Viene voglia di spararsi.
«Eppure è così. Ti faccio un esempio. Se tu hai mille euro coltivi l’aspettativa che presentando questa somma a qualcuno, egli ti darà qualcosa in cambio. È una proiezione in avanti. Ora, quanto più il denaro aumenta, tanto più avanti si sposta il futuro. Vuol dire che abbiamo già ipotecato epoche talmente lontane da avere reso il denaro inesistente».
Fino a quando ha valore la promessa del denaro?
«Fino a quando la collettività ci crede».
Questa storia dei governi di immettere miliardi di dollari e di euro nel sistema ha del demenziale. È come se tu fossi in debito con me di 100 euro e io te ne prestassi altrettanti per consentirti di restituirmeli.
«Un gioco, appunto. In fondo al quale c’è la bancarotta, l’insolvenza. Ma stavolta non sarà come nel ’29, in America. Il mondo allora non era così integrato, così globalizzato. Ora, se crolla il sistema, si salveranno solo gli indigeni delle Andamane, che vivono di caccia e di pesca».
Tu magari esageri. Però lo scenario non è allegro.
«Io non credo di esagerare quando dico che gli scenari immaginabili sono devastanti. È la logica interna del sistema che me lo fa pensare. Il sistema si regge sulla crescita esponenziale, dimenticando che una logica simile esiste in matematica, non in natura. Ma siamo vicini al punto di non ritorno. Alla fine, quando si saranno saturati anche mercati economicamente modesti come l’Afghanistan, il sistema imploderà».
Ci potevano salvare la Cina, l’India, grandi civiltà culturalmente lontane dal modello occidentale. Ma abbiamo finito per risucchiarle nel sistema.
«Ecco perché la globalizzazione, ovvero l’essersi affidati a un unico modello è idiota. Ogni macchina sofisticata ha almeno due motori. Qui il motore è solo uno. Sicché, se il modello è sbagliato, visto che è globale, crolla tutto insieme. Globalmente, diremmo».
Luciano Gulli
Fonte: www.ilgiornale.it
Link: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=296454&START=1&2col=
8.01.08