DI JOHANN HARI
The Indipendent
Il termine “geo-engineering” risulta freddo e tecnico ma in effetti individua un movimento messianico nato allo scopo di salvare il mondo dal riscaldamento globale, attraverso polveri e ferro e migliaia di minuscoli specchi nello spazio. Rappresenta inoltre l’ultimo tabù verde.
Gli ambientalisti istintivamente non vogliono discuterne. Il grande pubblico istintivamente lo considera qualcosa d’insensato. Ma ora il tabù è stato infranto. James Lovelock, uno dei padri fondatori del moderno ambientalismo, ha proposto un sistema per ridurre il riscaldamento globale senza rinunciare ad alcun combustibile fossile.
I “geo-ingegneri” ritengono che l’uomo, per contenere gli effetti del riscaldamento globale, debba modificare deliberatamente l’ambiente del pianeta utilizzando la tecnologia.Sono come uno chef che, constatato di avere accidentalmente usato troppo pepe, cerca di rimediare aggiungendo una montagna d’origano, solo che in questo caso la ricetta interessa l’atmosfera del pianeta terra. Ken Caldera, un esperto in geo-engineering al Carnegie Institute, dice: “In effetti, noi stiamo già manipolando il clima immettendo così tanti gas serra. Semplicemente non vogliamo ammetterlo. Si può sostenere che l’unica differenza tra ciò che facciamo oggi e quello che i sostenitori del geo-engineering propongono è una questione d’intenzionalità. E francamente, all’atmosfera non interessa ciò che ci passa per la testa.”
I progetti più importanti di geo-engineering seguono due linee principali. La prima cerca di aumentare la capacità degli oceani di assorbire carbonio dall’atmosfera. Attualmente gli oceani, insieme alle foreste pluviali, rappresentano il più efficace meccanismo naturale per l’eliminazione del carbonio dall’atmosfera. Così i geo-ingegneri si domandano: c’è qualcosa che possiamo fare per potenziarlo?
La proposta più semplice prevede di spargere enormi quantità di ferro sulla superficie dei mari. Ciò creerebbe le condizioni ideali per la crescita del plancton, microrganismi amici che “mangiano” il carbonio durante il ciclo vitale. Una volta morti, precipitando nei fondali marini, porterebbero il carbonio per secoli nella loro tomba d’acqua. Questo è stato provato in diversi esperimenti condotti su piccola scala al largo delle coste delle isole Galapagos, e in effetti i mari morti sono stati indotti a tornare improvvisamente in vita grazie al plankton succhia-carbonio.
Arriva quindi James Lovelock con una proposta simile. Suggerisce un altro sistema per stimolare gli oceani ad inabissare ancor più massicce quantità di anidride carbonica. Il suo progetto prevede d’installare enormi tubi verticali in giro per i mari del mondo. Questi dovrebbero pompare acqua dai fondali degli oceani – ricchi in nutrienti, ma per lo più morti – fino in superficie. Questa acqua così ricca sarebbe un sifone ideale per la riproduzione dei microrganismi che “mangerebbero” il carbonio per poi rilasciarlo al fondo dell’oceano.
La seconda scuola di progetti geo-engineering sperimenta il sistema per ricacciare nello spazio una maggiore quantità di energia solare, in modo che non resti qui a cuocerci. Per esempio sappiamo che quando i vulcani eruttano rilasciano nell’atmosfera un enorme ammontare di minuscole polveri sulfuree che funzionano come una tenda capace di raffreddare apprezzabilmente il pianeta. Quando nel 1815 per esempio il Monte Tambora esplose si parlò di “un anno senza estate”. Così scienziati come il premio Nobel Paul Crutzen affermano che si può simulare artificialmente questo effetto, spargendo zolfo nell’atmosfera: in realtà contrastare l’inquinamento con l’inquinamento. L’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti è andata persino oltre, asserendo che 55.000 specchietti posti negli strati alti dell’atmosfera sarebbero stati sufficienti a contenere metà dell’impatto del riscaldamento globale.
E così, perché i verdi sono riluttanti a confrontarsi con queste soluzioni? Hanno un ottimo motivo. Tutte le prove suggeriscono che in realtà esse non possono funzionare, ma sembrano abbastanza plausibili tanto da considerarle come un’altra allucinata scusa per non fare nulla mentre il pianeta bolle.
Per comprenderne il motivo bisogna rifarsi al filosofo conservatore Edmund Burke. Nel XVIII secolo Burke argomentò che il funzionamento delle società umane è talmente complesso che non è possibile averne una piena comprensione attraverso la ragione. Se si allenta una maglia anche se per impeccabili motivazioni razionali, pensiamo all’abolizione della monarchia, si scoprirebbe che decine di altre maglie si allenterebbero, in un modo che non si sarebbe potuto prevedere e che non si sarebbe voluto. Burke era seriamente in torto riguardo le società umane, ma per uno strano scherzo della storia il suo approccio si applica abbastanza bene alla comprensione dell’ecosistema del pianeta.
Ritornando ad esaminare i progetti di geo-engineering si scoprirà come. I piani per produrre plancton e sifoni mangia carbonio cozzano con un effetto indesiderato. Troppa materia organica che si deposita tutta in una volta nei fondali innesca il rilascio di metano, il gas più pericoloso per l’effetto sera. E che dire dell’immissione di zolfo nell’atmosfera? Ken Caldera spiega: ” Uno dei problemi è … che distruggerebbe lo strato d’ozono, si potrebbe così risolvere il riscaldamento globale, tuttavia poi moriremmo tutti.”
Né alcuno di questi progetti si occupa dell’altro grande problema causato dalle emissioni dei gas serra. Questi stanno rendendo gli oceani più acidi, uccidendo molluschi e formazioni coralline alla base della catena alimentare. Così persino se in qualche modo si attenuasse l’effetto serra, il carbonio accumulatosi nell’atmosfera sarebbe ancora in grado di uccidere gli oceani e distruggere le nostre risorse di cibo.
Ma presto l’industria di carburanti fossili potrà cominciare a smerciare la geo-engineering quale Soluzione: un alternativa al risparmio energetico. Lo scienziato Josh Tosteson pone correttamente la questione indispensabile: “Siamo veramente capaci di comprendere sufficientemente bene i sistemi complessi a livello globale da sapere che non ne deriverà alcun altra alterazione rispetto a quelle ricercate?” (Burke non avrebbe potuto porla meglio.)
E’ assai più intelligente cercare di restare vicino all’ecosistema equilibratosi con cura in milioni di anni d’evoluzione piuttosto che ricostruircelo maldestramente in virtù delle conoscenze estremamente limitate che abbiamo.
Considerare il fumo e gli specchi nello spazio, o il bel sogno del tubo di James Lovelock, come sistemi idonei a evitare la limitazione delle emissioni di carbonio ci tenta dolorosamente. Il fumoso mondo in cui viviamo mi piace e desidero possa essere fatto per funzionare. Ma procedere con l’aspirazione dei gas serra secondo le ipotesi di geo-engineering è come dire ad un alcolista che non gli serve smettere di bere perché tra pochi anni lo sottoporremo ad un trapianto di fegato utilizzando qualche vecchio coltello arrugginito trovato in garage.
Tuttavia, se non riduciamo ora le emissioni, in appena pochi decenni inevitabilmente andremo a sbattere contro tali alternative di geo-engineering. Salvarsi per un po’dal riscaldamento globale fuori controllo a costo di distruggere lo strato di ozono per sempre? Raffreddare gli oceani facendoli divenire acidi e morti? Si vuole dovere fare appello a questo?
Johann Hari scrive per The Indipendent in Inghilterra; e-mail: [email protected]
Titolo originale: “The last green taboo: engineering the planet”
Fonte: http://www.independent.co.uk/
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06.10.2007
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ANTONELLA SACCO