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La Redazione

 

LO SCANDALOSO RAGIONAMENTO ALLA BASE DEI TEST HIV

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A cura di Davide
Il 19 Giugno 2006
87 Views

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DI NEVILLE HODGKINSON
The Business Online.com

Era un simbolo della compassione, un segno che si aveva a cuore il problema. Portare il fiocco rosso significava esprimere solidarietà alle vittime dell’Hiv/Aids. Significava che si era a conoscenza dell’importanza dei farmaci antivirali, del test Hiv, dei condom, della esistenza dell’Aids e dell’urgente necessità di un vaccino.
Al contrario, se invece si avevano dubbi sulla diffusione dell’Aids e sulle statistiche manipolate sull’Hiv/Aids; o che i miliardi di dollari raccolti per la ricerca sull’Hiv e le terapie da adottare avrebbero potuto essere spesi meglio in altri campi della medicina o nella lotta alla povertà; o, addirittura, se si avevano dubbi sul fatto che l’Aids fosse causato da un virus che si trasmette sessualmente, allora si perdeva il diritto ad essere considerato una persona sensibile e per bene. Si era un negazionista, un paria, una persona culturalmente limitata, un picchiatello. Anche per uno scienziato autorevole i finanziamenti si sarebbero volatilizzati e le possibilità di pubblicare articoli su riviste di grande diffusione si sarebbero ridotte a zero.
Oggigiorno, che spaventi i residenti di una città della Cornovaglia con un grappolo di presunte infezioni, o che provochi le scuse da parte dell’ex presidente del South Africa National Aids Council per aver fatto sesso non protetto con un’attivista HIV-positiva, o che dia la possiblità a Bono, frontman degli U2, di dirigere un’edizione del quotidiano Indipendent dominata da appassionati resoconti della piaga dell’ HIV/AIDS in Africa, il virus ha un posto di primo piano nell’immaginario collettivo e continua ancora a far notizia da oltre venti anni. Oggi è un vero grande business: American Express, Motorola, Gap, Converse e Armani risultano tra le multinazionali che sostengono la campagna RED di Bono Vox che promuove la raccolta di fondi per l’Aids in Africa.

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Ma, senza che sia stato riportato nell’Indipendent di Bono (o in qualunque altra edizione del giornale che per anni ha seguito una linea convenzionale sull’AIDS), ci sono segni che il potere del “fiocco rosso” incomincia a sgretolarsi. Negli Stati Uniti, dove l’opinione pubblica ha da anni considerato la teoria dell’Hiv/Aids indiscutibile, una controversa critica di 15 pagine sull’influente Harper’s Magazine ha causato uno shock culturale di vaste proporzioni, in quanto l’articolo evidenzia dettagliatamente un cover-up da parte della mondo della medicina ufficiale sull’efficacia dei test e dei trattamenti medici. L’articolo fa riferimento a scienziati che da anni sostengono che non esiste nessun virus Hiv che è causa dell’Aids.
Nel frattempo il Washington Post il mese scorso ha pubblicato uno studio dal titolo “Come è stato gonfiato il fenomeno dell’Aids in Africa” in cui si sostiene che le sempre più catastrofiche ed inesatte stime sulla diffusione dell’Hiv da parte dell’ UNAIDS (il programma delle Nazioni Unite sull’ Hiv/Aids) hanno “per anni distorto le valutazioni politiche in merito all’utilizzo dei preziosi fondi destinati alla sanità pubblica”.

In India la “Campagna del fiocco rosso” è stata sospesa dalle ferrovie nazionali dopo che in un convegno nazionale sull’Hiv tenutosi a Bangalore quest’ultimo ottobre alla presenza di più di 1500 persone positive all’Hiv teatralmente e davanti alle telecamere televisive un fiocco rosso largo 2 metri è stato tagliato a pezzi come protesta contro un simbolo “opprimente per alcuni e fonte di denaro per altri”.

I relatori hanno fatto presente che mai in precedenza c’era stato un simile simbolo di solidarietà con gente che soffre di altre malattie. Il paradigma rappresentato dal fiocco “Hiv=Aids= morte”, ovvero l’ortodossia scientifica propugnata da agenzie delle Nazioni Unite, dagli interesssi farmaceutici e da migliaia di attivisti in tutto il mondo porta all’isolamento, alla discriminazione e causa un immenso impatto emotivo dopo essere risultati positivi al test Hiv. Veena Dhari, la prima donna in India che si è dichiarata pubblicamente Hiv-positiva, ha detto che su un Hiv-positivo il fiocco rosso suscita impulsi suicidi e ha invitato tutte le organizzazioni per l’Aids a smettere di adottarlo come simbolo.

La storia è apparsa sulle prime pagine dei giornali e alla televisione nazionale in India, dimostrando così che in quel paese i media sono capaci di esercitare una maggiore resistenza, rispetto alla maggior parte dei paesi africani, alle enormi pressioni per conformarsi all’opinione internazionale ufficiale sulla teoria dell’Hiv/Aids.

Due anni fa Richard Holbrooke, ex ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite ed ora presidente della Global Business Coalition on Hiv/Aids, un’associazione di 200 aziende internazionali che promuove test Hiv, trattamenti farmacologici e sostegno, disse a Washington che il maggiore impedimento nel trattamento dell’Aids su scala globale è rappresentato dal fatto che molti governi e le stesse popolazioni stanno attraversando ancora una “fase di negazione, credono cioè di non avere problemi correlati all’Aids”.

Facendo l’esempio dell’India, affermò che se il paese non cambiava la sua politica sanitaria, presto si sarebbe ritrovato con il più alto numero di casi di Hiv/Aids del mondo. Queste previsioni avrebbero dovuto verificarsi già dall’anno scorso secondo Richard Feacham, presidente del Global Fund to Fight Aids Tuberculosis and Malaria con sede a Ginevra e principale beneficiario della campagna RED.

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“L’epidemia si sta sviluppando molto rapidamente ed è fuori controllo”, disse Feachem a Parigi. “E l’india non sta facendo niente di serio e di importante per impedirlo”. L’India si deve svegliare, perché se non agisce, “milioni e milioni e milioni di persone moriranno”.

Non è questo il punto di vista di Anju Singh, del Jackindia, un gruppo di studio sull’Aids con sede a Delhi. Singh, ospite principale al convegno di Bangalore, che recentemente in un’intervista al The Business ha detto che “non c’è nessun dato ufficiale e nemmeno ufficioso che fornisca prove evidenti di un’epidemia in India”. Le stime ufficiali dicono che sono 5 milioni i sieropositivi in India; ma la scarsità di casi di Aids – in media appena 10.000 all’anno in questi ultimi 10 anni – suggerisce che la stima sia grossolanamente errata.

Nemmeno c’è stato un incremento anomalo nei tassi di mortalità, neanche tra i “gruppi a rischio”, per esempio nei quartieri a luci rosse. Il governo indiano non pubblica i dati relativi alle morti per Aids; ma “a seguito di interrogazioni parlamentari da noi sollecitate il governo ha fatto riferimento ad una cifra totale che raggiunge con difficoltà i 1.100 casi”. Quando l’UNAIDS pubblicò le cifre di 310.000 morti di Aids in India nel solo 1999 e di 558.000 orfani dell’Aids, Jackindia li smentì pubblicamente. Verso la fine del 2001 le cifre gonfiate furono ritirate – ma solo dopo essere state usate in precedenza quello stesso anno per prospettare un falso stato dell’epidemia in India dinanzi alla sessione speciale dell’assemblea generale delle Nazioni Unite sull’ Hiv/Aids a New York.

“Da anni agenzie e organizzazioni come la CIA, la Banca Mondiale, l’UNDP, l’UNAIDS,
e una pletora di “organizzazioni non governative” così come una lunga serie di articoli pubblicati in autorevoli riviste scientifiche hanno prospettato una situazione di epidemia esplosiva in India per molti versi simile a quella africana”- ha detto Singh. “Abbiamo sfidato costantemente le agenzie che affermano che l’India sottostimerebbe le cifre e che rifiuterebbe la dolorosa realtà dei fatti; nessuna di loro è stata però in grado di fornire dati concreti o prove irrefutabili per convalidare le loro affermazioni”.

L’iconoclastico articolo dell’Harper’s, dal titolo “Fuori controllo: l’Aids e la corruzione della scienza medica”, ha suscitato un dibattito intenso e acceso. E’ stato accolto da un coro quasi unanime di condanna e da richieste di dimissioni del direttore dell’Harper’s, il quale tuttavia ha trovato anche molti che hanno preso le sue parti. L’articolo è di Celia Farber, giornalista e critica da tempo del mondo scientifico che circonda la teoria dell’ Hiv.

In un editoriale, il Columbia Journalism Review accusa l’Harper’s di essersi avventurato su una china pericolosa con la pubblicazione dell’articolo della Farber. Un blog denominato New Aids Review ha affermato che l’editoriale è “un esempio scadente di ciò che gli studenti di giornalismo stanno imparando in una delle più grandi università” e aggiunge che l’autrice farebbe meglio a scrivere una tesi dal titolo “I media e l’Aids: come i giornalisti vengono meno ai loro doveri nei confronti del pubblico americano”.

Ma persino alcuni sostenitori di vecchia data della teoria dell’ Hiv/Aids hanno ammesso di essere rimasti scossi da ciò che è stato evidenziato nell’articolo della Farber riguardo alla pericolosità letale di alcuni farmaci antivirali; e la controversia inoltre ha anche riaperto il dibattito sulle cause dell’Aids, una questione sulla quale finora soltanto un numero estremamente esiguo di studiosi metteva in discussione il punto di vista dell’ortodossia scientifica.

Grazie ad Internet, un’associazione da 14 anni fa pressione per una revisione scientifica della teoria dell’Hiv/Aids e ora ha tra i suoi associati più di 2.300 “dissenzienti”, compresi premi Nobel per la chimica e la medicina (http://rethinkaids.info/quotes/rethinkers.htm). Molti associati sono membri autorevoli della comunità scientifica e medica internazionale e molti altri vantano anche un’esperienza lavorativa diretta nella sanità pubblica di paesi africani e di altre aree del mondo che sarebbero devastate dall’Hiv.

Uno di questi scienziati è Rebecca Culshaw, professoressa di matematica all’università del Texas, nonché biologa matematica. Per 10 anni ha studiato e pubblicato i modelli matematici della malattia e del trattamento dell’Hiv. In un suo articolo pubblicato in Internet intitolato Why I quit HIV [ “perché ho lasciato l’ Hiv”], la Culshaw chiede che siano vietati i test Hiv. Afferma che “fanno infinitamente più male che bene” a causa di un’incredibile mancanza di precisione e standardizzazione; aggiunge inoltre che molta gente viene trattata con farmaci potenti sulla base di una teoria inconsistente. “Il mio lavoro si è basato in gran parte sul paradigma che l’Hiv causa l’Aids. Oggi sono invece convinta che ci siano seri motivi per affermare che l’intera base di questa teoria sia errata”.

In Australia l’idea che chiunque risulti positivo al test Hiv possa essere citato in giudizio per aver infettato altre persone viene messa in discussione. In un processo fissato per luglio, l’avvocato difensore di un uomo accusato di aver messo in pericolo la vita di tre donne per aver avuto con esse sesso non protetto (una donna è risultata positiva al test Hiv, mentre le altre due sono risultate negative) si avvarrà dei risultati delle ricerche di un gruppo di scienziati di Perth che dopo 25 anni sono giunti a conclusioni ancor più radicali dei dissenzienti americani citati dall’articolo della Farber. Il Gruppo (www.theperthgroup.com) testimonierà in tribunale che il virus Hiv non è mai stato isolato nei pazienti con Aids e che pertanto la validità del test Hiv non è mai stata confermata né ci sono prove che l’Hiv possa trasmettersi sessualmente.

Robert Gallo, il ricercatore americano il cui team ha sviluppato e commercializzato i primi kit per il test Hiv, afferma in una lettera pubblicata nella edizione di Harper’s di maggio che “in medicina nessun test è perfetto, ma fatto correttamente e con un secondo test di conferma, il test Hiv elaborato dal nostro laboratorio può dirsi abbastanza affidabile”. Gallo ed altri, insieme agli attivisti che promuovono l’uso di farmaci antivirali in Sudafrica, fanno asserzioni simili e respingono le tesi propugnate nell’articolo della Farber affermando che: “il test Hiv è altamente affidabile sin dal 1984, anno in cui è stato sviluppato, e che col tempo è diventato molto più preciso man mano che la tecnologia di fondo si è evoluta. Il test Hiv è tra quelli più precisi disponibili oggi in medicina”.

Nei fatti però, come evidenziato da una ricerca pubblicata in The Business a maggio 2004, gli esperti già sapevano sin dai primi anni in cui sono iniziate le ricerche sull’Aids che i test Hiv non potevano essere usati per diagnosticare l’Aids. Al convegno del World Health Organisation tenutosi a Ginevra nel 1986 fu detto che i kit diagnostici erano stati autorizzati dalla Food and Drug Administration (FDA) per lo screening preliminare dei donatori di sangue ma non per essere utilizzati come test per l’Aids. Ma, dettato dalle necessità della sanità pubblica, l’utilizzo del test si era esteso ed “era semplicemente diventato non praticabile” il tentativo di arrestare questo fenomeno, come il dr. Thomas Zuck della stessa FDA ha ammesso.

Ai 100 esperti di 34 paesi diversi presenti al convegno fu detto che, benchè il test fosse utile per lo screening preliminare dei donatori di sangue, non era sufficiente per distinguere ciò che era il risultato di una semplice infezione dalla presenza dell’ Hiv. Il dr. James Allen, del US Centres for Disease Control Aids Programme, aveva riferito che molti pazienti reagivano in modo positivo o negativo a seconda della linea cellulare usata per i diversi kit diagnostici autorizzati dalla FDA. Alcune ricerche evidenziavano inoltre che alcuni pazienti reagivano positivamente ai test autorizzati dalla FDA per la presenza di anticorpi che normalmente vengono attivati dal sistema immunitario in presenza di comuni cellule proteiche estranee. Allen aveva avvertito che questo problema si sarebbe potuto presentare in modo amplificato nelle zone del mondo che non avevano i laboratori sofisticati presenti invece in America.

Al convegno fu detto che un cosiddetto “test di conferma”, denominato Western Blot, che si basa sugli stessi principi del test principale che dovrebbe andare a verificare, determinava lo stesso tipo di risultati falsi positivi. Ricerche successive confermarono ripetutamente questo problema: più di 60 fattori che determinano risultati falsi positivi sono stati documentati dalla letteratura scientifica. Uno è la tubercolosi, che produce i sintomi dell’Aids, così come è stato definito in Africa, e che è notevolmente diffuso fra le popolazioni più povere.

Poichè il paradigma Hiv/Aids è riuscito ad imporsi in tutto il mondo, si sono rese necessarie procedure sempre più complesse per tentare di pervenire a diagnosi più affidabili. Ma il problema di base – e cioè che non può essere convalidato nessuno di questi test con l’individuazione pura e semplice del virus nel paziente – ancora rimane.

Harper’s ha pubblicato nell’ultimo numero di maggio alcune lettere di lettori con riferimento all’articolo della Farber, pubblicato in marzo. La metà circa sostiene l’articolo, la metà è contro. La prima lettera proviene dalla Culshaw, che scrive: “Questo dibattito avrebbe dovuto esserci molti anni fa, prima che un’ipotesi non dimostrata dell’esistenza di un retrovirus che attacca il sistema immunitario fosse propalata su un pubblico indifeso e senza essere sottoposta al vaglio del mondo scientifico. Malgrado le promesse fatte nel 1984, non c’è ancora nessuna cura e nessun vaccino per l’Aids. Al contrario, c’è stata un’erosione di fondo negli standard scientifici e clinici, con implicazioni che vanno ben oltre l’Hiv”.

“La cosa migliore da fare per aiutare i pazienti affetti da Aids – e con maggiore urgenza per quelli in Africa, per i quali l’Aids si presenta con un quadro clinico abbastanza differente da quello del mondo sviluppato – consiste in un dibattito scientifico onesto”.

C’è una correlazione fra il risultare positivo al test Hiv ed il rischio di sviluppare l’Aids. Questa è la ragione principale per la quale gli scienziati ritengono che l’Hiv sia la causa dell’Aids. Ma il collegamento è artificioso, ed è una conseguenza del modo in cui sono stati formulati i kit diagnostici.

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Non è mai stato dimostrato possibile convalidare i test per mezzo di colture, purificando ed analizzando le particelle del presunto virus da pazienti che risultano positivi al test e poi dimostrando che queste non sono presenti in pazienti che risultano negativi. Ciò malgrado gli sforzi notevoli per fare in modo che il virus si rivelasse in pazienti con Aids o a rischio di Aids, le cui cellule immunitarie sono state stimolate per settimane in colture di laboratorio usando una varietà di agenti.

Dopo che le cellule sono state così trattate, i pionieri dell’Hiv hanno trovato circa 30 proteine nel materiale filtrato, che si presenta con una densità caratteristica dei retrovirus. Hanno attribuito alcune di queste a varie parti del virus. Ma non hanno mai dimostrato che questi cosiddetti “antigeni dell’ Hiv” appartenevano ad un nuovo retrovirus.

Così, da 30 proteine, come hanno fatto a individuare quelle considerate come provenienti dall’Hiv? La risposta è scioccante e va alla radice di ciò che è probabilmente il più grande scandalo nella storia della medicina. Hanno selezionato quelle che erano le più reattive con anticorpi presenti nei campioni di sangue prelevati da pazienti con Aids e da pazienti a rischio di Aids.

Ciò significa che gli “antigeni dell’ Hiv” sono stati così definiti non perché mostrano di appartenere al virus Hiv, ma perchè reagiscono con anticorpi presenti nei pazienti con Aids. Ai pazienti con Aids allora viene diagnosticata l’infezione da Hiv perchè evidenziano anticorpi che reagiscono con quegli stessi antigeni. Il ragionamento è circolare.

Chi è esposto a condizioni di vita malsane, gli omosessuali che conducono una spericolata vita sessuale, i tossicomani, coloro che hanno subito trasfusioni di sangue hanno una maggiore probabilità di presentare un più alto livello di anticorpi cercati dal test Hiv. Questo perché gli antigeni nei test sono stati scelti in quanto reagiscono con gli anticorpi presenti nei pazienti con Aids. Ma questa associazione non dimostra la presenza di nuovo virus mortale.

I test distinguono fra sangue sano e sangue di pazienti con Aids o con sintomi simili a quelli dell’Aids, perché i pazienti con l’Aids evidenziano una gamma di infezioni attive e altre anomalie del sangue, alcune delle quali trasmissibili. Ecco perché i test sono utili per lo screening preliminare dei donatori di sangue.

Ma dire ad una persona che è infetta da Hiv perché evidenzia anticorpi che reagiscono con le proteine presenti in questi test costituisce un pericoloso inganno.

Neville Hodgkinson è un giornalista inglese che si occupa di Aids da circa 20 anni. È autore del libro: “AIDS: Il fallimento della scienza contemporanea” (Fourth Estate, 1996).

FONTE: http://www.thebusinessonline.com/
LINK: http://www.thebusinessonline.com/column_seven/Stories.aspx?StoryId=1A39B51F-B745-4330-9E2B-0F87E783EE2E&page=0
21.06.2006

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