DI GRAZIANO GRAZIANI
minimaetmoralia.it
È un peccato che del post pubblicato sul suo blog da Stefano Feltri giovedì 13 agosto non sia rimasta traccia della versione originale, pubblicata il giorno prima. Il breve articolo in cui il vice direttore del Fatto Quotidiano prendeva posizione contro le facoltà umanistiche, tacciate di scarsa utilità e di spreco di risorse pubbliche, è stato successivamente corretto – cosa evidenziata da lui stesso in calce all’attuale versione – poiché riportava degli errori. E visto che il commento aveva suscitato un dibattito piuttosto vivace – tanto che l’autore ha sentito poi l’esigenza di tornare sull’argomento il giorno dopo – sembrava giusto correggerlo. E fin qui nulla di male: la rete consente di aggiornare le versioni dei propri scritti e se ci si avvale di questa facoltà onestamente (cioè segnalandolo) non c’è alcun problema.
Nella foto: Stefano Feltri, vicedirettore de Il Fatto Quotidiano.
Tuttavia la versione originale, forse perché scritta di getto, magari prestandoci poca attenzione perché destinata al pubblico disattento della settimana di Ferragosto, aveva qualcosa di illuminante per quanto riguarda le scorciatoie mentali con cui trattiamo certi temi. Il pensiero di Stefano Feltri lo si può desumere direttamente dai suoi articoli, ma per completezza ne faccio una sintesi (estrema): un laureato in ingegneria ha più possibilità di trovare lavoro di un laureato in lettere, a cinque anni dalla laurea guadagna di più e può permettersi più servizi. E fin qui l’acqua calda. La conclusione, poi, è la seguente: perché la collettività dovrebbe accollarsi i costi di facoltà che producono disoccupati? Lo studio delle lettere, ad esempio, è poco funzionale alla produzione di posti di lavoro: che lo finanziamo a fare?
La questione è complessa, com’è ovvio. E non necessariamente da declinare in termini manichei. Ad esempio, pur essendo in disaccordo con Feltri si può convenire con lui sul fatto che esistano alcuni corsi (e ancor più master) che sembrano fatti apposta per “parcheggiare la gente” e spillargli i soldi. Poi certo, il vice direttore del Fatto in realtà ce l’ha con materie di tutto rispetto come il teatro o la filologia romanza; ma prima ancora che contestare le sue posizioni mi sembra interessante capire come ci arriva.
La fonte. Nella prima versione dell’articolo era del tutto assente e si parlava di un generico “gli economisti hanno detto che…” (cito a memoria, non potendo ricontrollare). Pur non sorprendendomi più, continua però ad affascinarmi la fiducia cieca che la nostra società ripone nel discorso economico. Assomiglia al vaticinio, per un certo tipo di giornalismo. O, se vogliamo fare un esempio meno classico e più contemporaneo, all’aura oracolare che noi tutti attribuiamo a Google. Ma come in rete si trovano dati corretti e inesatti, e questo non esaurisce il discorso perché al di là dei dati resta il problema di come li si interpreta, allo stesso modo l’Economia pone un problema simile. Tra le scienze che usano i numeri è indubbiamente quella più “politica”, ovvero soggetta alle diverse visioni del mondo (soprattutto quando viene tirata per la giacchetta dal giornalismo). L’Ottocento e il Novecento dovrebbero avercelo insegnato fino alla nausea, e invece nel XXI secolo conferiamo allegramente al discorso economico – a un “certo” discorso economico – un valore da scienza esatta.
I dati. Ovviamente non basta citare una fonte autorevole, servono anche dei dati numerici. Nel post originale si parlava di cifre considerevoli ma senza una precisa attribuzione. Gli estremi erano abbastanza inquietanti: si passava da un “guadagno” di 273.000 euro per i laureati in legge o in economia fino all’opposto, una “perdita” secca di 265.000 euro per chi intraprende gli studi umanistici. Superato il primo attimo di sgomento, però, veniva da chiedersi: ma rispetto a cosa? Stiamo parlando di soldi sostenuti dalle famiglie? Sembrano un po’ troppi, a meno che non si prenda come standard non solo un’eventuale retta per un corso di studi alla Bocconi – come è il caso dello stesso Feltri – ma anche cinque anni di affitti a Milano e relative paghette. Forse allora si parla di soldi pubblici investiti. Ma anche qui…
I misteri li scioglie lui stesso nella correzione del post. Stiamo parlando di una fonte accreditata: il CEPS, il Centre for European Policy Studies con sede a Bruxelles. I numeri travisati, invece, si riferivano a un ipotetico valore medio di una laurea a cinque anni dalla conclusione degli studi, fissato convenzionalmente a 100. Dando una sforbiciata ai tre zeri di troppo, insomma, rispetto alla media un economista vale +273 e un laureato in lettere –265. Finalmente tutto diventa un po’ più chiaro.
I dati però vanno visti nella loro interezza e così, dato che Feltri ha linkato lo studio in questione, sono andato a dare un’occhiata alle tabelle. E ho capito che non è un caso se Feltri scrive nel suo articolo “guardiamo all’Italia” e parla di “uomo laureato”: i numeri che fornisce riguardano infatti solo il nostro paese e solo gli uomini. Se guardiamo gli stessi dati dal punto di vista delle donne, ad esempio, vediamo che quel rovinoso –265 dei laureati in lettere passa a un più accettabile –15 (forse che le laureate prendano più sul serio dei loro colleghi maschi il proprio corso di studi?). E il +55 sbandierato da Feltri per chi studia “Fisica o Informatica” si rovescia in un –32 per le laureate (magari per effetto del maschilismo congenito che affligge certi settori del lavoro in Italia?).
Insomma, già così la lettura di Feltri sembra un po’ sbrigativa. Ma un ulteriore elemento di confusione lo aggiunge il fatto che i gruppi di lauree riportati nell’articolo risultano un po’ più ampi nello studio. Ad esempio il valore attribuito a “un laureato in legge o in economia” è in realtà quello di un gruppo definito “Social science, business and law”. Mentre quando si parla di “Fisica o Informatica” ci si riferisce a un gruppo definito “STEM”, che nei paesi anglosassoni raccoglie le discipline scientifiche, tecnologiche, matematiche e ingegneristiche. Per altro quest’ultime appartengono all’Olimpo delle facoltà su cui, secondo Feltri, dovrebbero buttarsi “i ragazzi più svegli e intraprendenti” (nonostante non si posizionino ai vertici di questa classifica).
Insomma, la situazione è più complessa di come è stata presentata nel post di Feltri. E non solo perché è facile dissentire con la sua cura che prescriverebbe una diserzione di massa dalle facoltà umanistiche in favore di quelle scientifiche (se i laureati in materie scientifiche raddoppiassero, siamo certi che il mercato sarebbe in grado di assorbirli? E se pure ci fossero selezioni più severe per lasciare invariato il numero dei laureati, che vantaggio avrebbe ottenuto uno studente che non ha completato un corso in economia rispetto ad aver conseguito una laurea in storia?). Ma anche perché, se allarghiamo lo sguardo ad altri paesi europei, la questione si presenta ben diversa.
Guardiamo ad esempio la Polonia. Secondo lo stesso studio i laureati in scienze umanistiche riportano un valore positivo: +73 gli uomini, +67 le donne. E il dislivello è assai meno marcato rispetto ai loro colleghi laureati in economia o ingegneria, entrambi a +129. Che cosa vuol dire? Sinceramente non lo so: non sono un economista e preferisco non azzardare conclusioni. Ma sono stato di recente in Polonia, a Wroclaw, invitato dall’Istituto Grotowski (ebbene sì, mi occupo di teatro, in qualche modo ci campo pure e non sono ricco di famiglia – i miei, ad esempio, 50.000 euro per pagarmi la Bocconi non se li potevano permettere). Quello che ho trovato è un istituto dinamico e gestito da gente giovane, tra i trenta e i quarantacinque anni. Lontano cioè anni luce da quel sistema polveroso, bloccato, tendenzialmente gerontocratico e fortemente influenzato dalla politica anche nella scelta del personale che è il sistema italiano della cultura. Che cosa se ne può ricavare? Che forse non sono gli studi umanistici in sé, il problema, quanto la situazione drammatica del settore cultura tutto, dalla conservazione dei beni culturali ai settori dell’innovazione artistica. In un paese a vocazione turistica come il nostro, che per di più vanta un patrimonio artistico-culturale superiore a molte altre nazioni, è praticamente una vocazione al suicidio. O uno spreco, in termini economici.
Insomma, se non inquadrati a dovere nella loro complessità i famosi “dati oggettivi” rischiano di essere meno leggibile del famoso responso della Sibilla cumana – andrai tornerai non morirai – dove una virgola prima o dopo il “non” stravolge interamente il senso del vaticinio.
Ad ogni modo già quanto detto fino qui basterebbe a ribaltare la parte più scivolosa del Feltri-pensiero (che finanziamo a fare facoltà che non producono posti di lavoro?). Ma c’è un aspetto ancora più inquietante, che ha a che vedere con il tipo di società che aspiriamo ad essere, e che evidenzia lui stesso quando scrive: “Nessuno dice che le materie che si studiano nelle facoltà che garantiscono redditi bassi e disoccupazione siano da disprezzare. Anzi, spesso sono interessantissime e cruciali per la nostra formazione come individui. Ma quello che forma l’individuo non necessariamente è utile anche a formare un lavoratore”. Il centro della questione, per altro nemmeno così nuovo, se le università debbano essere degli incubatori di lavoro o possano aspirare ad essere qualcos’altro. Feltri ritiene che quel “qualcos’altro” te lo devi poter permettere: “Se poi volete comunque studiare filologia romanza o teatro, se ve lo potete permettere o se vi attrae un’esistenza da intellettuale bohemien, fate pure. Affari vostri. L’importante è che siate consapevoli del costo futuro che dovrete pagare”.
Insomma, la cultura è privilegio di pochi (e ricchi). Tutti gli altri che vadano a lavorare, a sostenere in termini di tasse e servizi il grande meccanismo che regge la società. Se poi sono bravi potranno magari emergere e magari dire la loro su un giornale. In realtà anche qui nulla di nuovo, anzi, siamo alla dialettica servo-padrone di Hegel, come ricorda Rocco Ronchi in un recente saggio, «Zombie outbreak»: “La differenza tra Signore e Servo era appunto la differenza che passa tra godimento e lavoro. Il padrone gode, il servo lavora. Sappiamo tutti cosa è lavoro. Forse non sappiamo bene, però, cosa è godimento. Lavorare è, sostanzialmente, trasformare per un certo tempo la propria vita in una funzione, lavorare è mettere il proprio corpo (e la propria intelligenza) all’opera. L’opera è la produzione di valore. Quando si lavora il fondamento del proprio essere è fuori di sé, è per-altro. Dove? Nel godimento del padrone, appunto”.
Essere “individui”, anziché soltanto “lavoratori”, è probabilmente un modo parziale di redistribuzione del godimento. Pensare ad una società dove questo aspetto, in termini di formazione universitaria, sia destinato soltanto a chi può permetterselo come hobby, è un’idea di società profondamente diseguale. Soprattutto se vediamo che ciò non avviene in altri paesi europei con un Pil inferiore al nostro.
Alla base dell’ideologia che si sta diffondendo – e di cui il post di Feltri è un segnale illuminante – c’è una concezione della vita basata sulla produzione, sia pure immateriale, o sull’accumulo finanziario dove non esiste più un “fuori” rispetto alla produzione. I servizi a cui aspiriamo vanno pagati e lo saranno sempre di più, compresi quelli che una volta erano appannaggio dello Stato sociale come scuola e sanità. Occorrerà guadagnare molto e a testa bassa per poterseli permettere. E se, oltre a quelli, si vuole accedere alla propria porzione di “godimento” – che presumibilmente corrisponderà al consumo di beni e servizi – occorrerà guadagnare ancora di più.
Questa visione del mondo non è affatto improbabile. Per un pezzo di mondo produttivo si tratta in realtà di un orizzonte auspicabile: il sistema economico e sociale che reggerà, e forse già regge, le nostre società nel XXI secolo. Il problema però è capire se è questa la vita che vogliamo vivere. Se riteniamo che lo Stato e le sue istituzioni, come l’università, debbano inseguire le leggi inamovibili dei numeri e dell’economia o se invece possano ambire a governarle. Se pensiamo che alcune cose “inutili” come l’arte e il patrimonio culturale prezioso di cui disponiamo costituiscano una prospettiva concreta per vivere una vita degna di essere vissuta o siano solo un peso economico a cui far fronte.
Il post di Feltri, in fondo, non è che una riedizione della favola di Esopo sulla cicala e la formica in chiave moderna. Se volete fare gli “intellettuali bohemien”, affari vostri. Dall’aggettivo “bohemien” è già evidente che Feltri non riconosce alla cultura alcun tipo di ruolo nella società e nel dibattito pubblico, attraverso il giornalismo culturale o i settori dell’arte, dei beni culturali e altri ancora che pure impiegano in Italia un numero considerevole di persone. Ma la storia della cicala e della formica non è solo un giusto ammonimento verso chi non lavora: è anche la metafora di una società assai poco solidale, secondo un pedagogista come Gianni Rodari, che preferiva stare dalla parte della cicala che “regala il suo canto” piuttosto che dalla parte dell’avara formica. Che le nostre società preferiscano lasciare indietro chi non ce la fa, chi non produce, chi non è competitivo è forse il dramma più grande del nostro tempo, le lo si riscontra a vari livelli: tra ricchi e poveri, tra nord e sud, tra gli Stati – ad esempio nel caso della Grecia – e tra le popolazioni, quando pensiamo di poter arrestare le migrazioni di chi cerca una vita migliore in Europa.
Nel caso delle discipline umanistiche, poi, si tratta perfino di un fraintendimento. Ad esempio nel campo dell’arte, gli interventi più decisi nei rispettivi settori da parte di paesi come Francia e Germania crea eccellenze e posti di lavoro. Negli USA i laureati in lettere sono in percentuale più che da noi. E in paesi con Pil inferiori al nostro, come la Polonia, un sistema diverso riesce ad invertire il segno negativo in termini di impiego che affligge invece l’Italia.
Lo “spreco”, d’altronde, in realtà un valore economico ce l’ha eccome. Basterebbe farsi un giro in un corso di antropologia o ascoltare un regista teatrale come Massimiliano Civica quando ricorda che i salti evolutivi da un punto di vista culturale, nella nostra società, si sono verificati proprio grazie allo spreco. Fermarsi a seppellire i morti, per le società nomadi primitive, era sicuramente uno spreco di tempo e risorse. Eppure dare una collocazione alla morte, creare un culto degli avi, ha aiutato quelle stesse società a immaginarsi un loro posto nel mondo. Un fine a cui tendere, per cui impegnarsi e lavorare.
L’economia stessa sa bene quanto possano contare sentimenti improduttivi come la paura – ad esempio in una crisi dei mercati – o il desiderio, il cui studio è pane quotidiano di qualunque pubblicitario che voglia vendere uno straccio di prodotto.
Tornando a Ronchi, il docente di filosofia intitola il suo saggio «Zombie outbreak» perché nelle inquietanti immagini degli horror movies intravede la metafora di una condizione dettata dal lavoro: gli zombi-schiavi della tradizione haitiana sarebbero gli operai della rivoluzione industriale, mentre quelli cannibali dei film di Romero rappresentano la deriva compulsiva del consumo, unico godimento possibile per la massa anonima ma anche, contestualmente, orizzonte apocalittico della società. Queste due condizioni estreme, poiché senza uscita, hanno nuovamente a che fare col godimento che invece spetta a chi dalla massa si distingue. “Si gode quando la vita assume se stessa come scopo – scrive Ronchi –. Si gode quando la vita vive, quando non è subordinata ad altro […]. Aristotele definiva la vita sulla base del godimento. Per questo diceva che la vita non è poiesis ma praxis, esercizio che ha il suo fine in se stesso. Un esempio di praxis è, ad esempio, il canto allegro e spensierato”.
Il canto allegro e spensierato, in qualche modo, chiude il cerchio del ragionamento. Perché tra le righe del post di di Feltri fa capolino un sospetto strisciante: un lavoro che mette al centro il godimento – della conoscenza, dell’opera d’arte, dello spettacolo – è in fondo un lavoro sospetto. Non si tratta del godimento che nasce dall’accumulo economico, godimento legittimo del risultato dei propri sforzi. È un godimento che prescinde dal consumo e dalla spesa e quindi cortocircuita con l’ideologia odierna dove tutto deve avere una funzione misurabile. Chissà se invece, tra padroni che godono e schiavi che lavorano, tra zombi haitiani senza emozioni e non-morti voraci e ossessionati da un pulsione bulimica al consumo, uno scarto non possa essere rappresentato proprio da quelle discipline che riusciamo, per indole o formazione, a connettere col godimento della conoscenza?
È risaputo quanto, accanto all’intelligenza e alla tenacia, occorra una certa dose di passione per completare un corso di studi universitario e farlo fruttare dal punto di vista lavorativo. Feltri lo intuisce, ma preferisce sacrificare il godimento a una “real politik” tutta sua. “Studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri”, intitola il suo secondo intervento. Dove osserva: “Anche io avrei preferito studiare scienze politiche o filosofia, ma alcune persone sagge più vecchie di me mi hanno consigliato di fare qualcosa di più utile e meno divertente. Mi sa che avevano ragione”. Chissà, magari se avesse scelto filosofia sarebbe riuscito a dare una prova di giornalismo meno superficiale.
Graziano Graziani
Fonte: www.minimaetmoralia.it
Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/lo-hanno-detto-gli-economisti/
19.08.2015