FONTE: ZEROHEDGE.COM
Con l’Europa che ha avuto un attacco cardiaco la scorsa settimana, mentre i rendimenti dei bond italiani sono esplosi tra i timori che il nuovo governo populista avrebbe premuto il pulsante “uscita dall’euro” e potesse minacciare l’UE di lasciarla per ottenere concessioni di spesa da Bruxelles, la discussione sugli squilibri Target2 è riemersa dopo anni di dormienza. E con €426 miliardi, l’Italia ha il più alto deficit Target2 con l’Eurosistema (la Spagna è al secondo posto con €377 miliardi). Qualsiasi discussione sull’uscita dall’euro dell’Italia solleva preoccupazioni sui costi.
Dopotutto, come ci ricorda JPMorgan, è stato solo un anno fa, nel gennaio 2017, che in una lettera ai parlamentari del Parlamento Europeo, il presidente della BCE Draghi ha ammesso che un Paese può lasciare l’Eurozona, ma solo se salda i suoi conti pendenti, o come ha detto lui stesso: “Se un Paese dovesse lasciare l’Eurosistema, le sue passività verso la BCE dovrebbero essere saldate per intero”.
Collegando il costo dell’uscita dall’Eurozona ai saldi Target2, dove la Germania ha un credito di quasi €1,000 miliardi, Draghi “ha ricordato” ai politici populisti in Europa che un’uscita o un divorzio dall’euro sarebbero difficili e anche più costosi rispetto al passato a causa del continuo aumento dei saldi Target2 in seguito al programma di QE della BCE.
Come mostra il grafico qui sotto, e come abbiamo detto in precedenza noi e la BRI, a causa dei flussi transfrontalieri indotti dal QE sin dal 2015, i saldi Target2 sono esplosi dal lancio del QE della BCE (e dal terzo salvataggio greco nel 2015) superando i numeri dell’estate 2012.
Val la pena di notare che, come la BRI ha spiegato l’anno scorso, il deterioramento dei saldi Target2 sin dal 2015 è di natura diversa rispetto a quello osservato nel periodo 2010-2012; non è una conseguenza puramente tecnica del QE, ma un riflesso delle preferenze degli investitori. All’epoca, durante la crisi del debito europea 2010-2012, il deterioramento dei saldi Target2 era guidato da una perdita di accesso ai mercati finanziari, inducendo le banche dei Paesi periferici a sostituire le fonti private di finanziamento con la liquidità delle banche centrali. Tuttavia sin dal 2015 l’aumento dei saldi Target2 è il risultato dei flussi transfrontalieri indotti dalla risposta degli investitori al QE. Come spiega JPM: “Per esempio quando la Banca d’Italia, tramite il suo programma di QE, acquista obbligazioni da una banca tedesca o da una banca britannica con un conto in Germania, questo flusso causa un aumento del deficit Target2 della Banca d’Italia e un surplus per la Bundesbank; oppure quando la Banca d’Italia acquista obbligazioni da un investitore nazionale, ma questo investitore nazionale utilizza il ricavato per acquistare un’asset estero, allora la Banca d’Italia aumenta le sue passività anche nei confronti dell’Eurosistema. In entrambi i casi, la liquidità creata dal programma di QE della Banca d’Italia non rimane in Italia, ma si diffonde in Germania o in altre giurisdizioni.”
Inoltre, secondo la BCE, la stragrande maggioranza delle obbligazioni acquistate dalle banche centrali nazionali nell’ambito del QE è stata venduta da controparti che non risiedono nello stesso Paese della banca centrale nazionale acquirente, e circa la metà degli acquisti proviene da controparti situate al di fuori l’area Euro, la maggior parte delle quali accede principalmente al sistema di pagamenti Target2 tramite la Deutsche Bundesbank. In altre parole, a causa delle preferenze degli investitori, l’eccesso di liquidità creato dal programma di QE della BCE sin dal 2015 non è rimasto nei Paesi periferici, ma è trapelato a nazioni creditrici come la Germania, che sono state inondate con maggiore liquidità.
Per inciso, questo è esattamente l’opposto dello scopo dichiarato del QE e di ciò che Mario Draghi ha descritto ai policymaker e al pubblico in generale: rafforzare la periferia, non il centro Europa, poiché quest’ultimo già beneficiava del tasso fisso dell’euro, il quale sovvenzionava i principali esportatori europei a scapito delle nazioni periferiche alla disperata ricerca di una svalutazione esterna.
In ogni caso, la diversa natura del deterioramento dei saldi Target2 sin dal 2015 non cambia il fatto che le passività Target2 rappresentano un costo per un Paese uscente dall’euro, presumendo naturalmente che quel Paese intenda saldare i suoi obblighi contrattuali non scritti.
In altre parole, i saldi Target 2 rappresentano i crediti o le passività delle banche centrali nazionali nei confronti della BCE che, secondo Draghi, dovrebbero essere saldati per intero, e quindi rappresentato la leva che l’Eurozona esercita su potenziali Paesi uscenti dall’UE.
Ma, come osserva JPM, è qui che sorge la polemica: che succede se un Paese vuole abbandonare l’UE (per andare in default sulle sue passività esterne e ridenominare la sua valuta) e rinnega le sue passività Target2? Dopotutto, gli attivi e le passività Target2 interne all’Eurosistema non solo sono scoperte, ma qualsiasi Paese uscente avrebbe poco da perdere bruciando tutti i ponti con l’Europa qualora rinunciasse alla “valuta comune”.
In questo caso, un’uscita dall’euro da parte di un Paese debitore rappresenterebbe più un costo per i Paesi creditori come la Germania piuttosto che per il Paese uscente. E, come mostrato nel grafico qui sopra, la Germania ha sicuramente molti costi impliciti accumulati, circa €1,000 miliardi per essere precisi, come risultato del mantenimento di un’unione monetaria che ha permesso agli esportatori tedeschi di beneficiare di un euro trascinato più in basso dalla periferia.
Ma qui l’analisi diventa leggermente più complessa, in quanto i Target2 non forniscono il quadro completo dei potenziali costi (o dei benefici).
Come scrive JPMorgan, le passività Target2 di un Paese debitore forniscono solo un quadro parziale del costo per i Paesi creditori qualora un Paese debitore dovesse lasciare l’euro. Ciò è dovuto al fatto che i saldi Target2 rappresentano solo una componente della Posizione Patrimoniale Internazionale Netta di un Paese, ovvero la differenza tra gli asset finanziari totali esterni di un Paese rispetto alle passività. La metrica più ampia che è necessario utilizzare è la Posizione Patrimoniale Internazionale Netta per i Paesi dell’area Euro ed è indicata nel grafico qui sotto. Mostra che, contrariamente agli squilibri Target2, l’Italia che lascia l’euro infliggerebbe molti meno danni ai Paesi creditori rispetto alla Spagna che lascia l’euro.
Questo perché le passività internazionali nette della Spagna si sono attestate intorno ai €1,000 miliardi alla fine dello scorso anno, quasi il triplo delle passività Target2. Al contrario, le passività internazionali nette in Italia sono molto inferiori e si sono attestate a soli €115 miliardi alla fine dello scorso anno, circa un quarto delle sue passività Target2 pari a €426 miliardi. Ciò, come spiega JPM, perché l’Italia ha accumulato negli anni più asset esteri rispetto alla Spagna e dovrebbe quindi essere complessivamente più capace di rimborsare le sue passività esterne.
In altre parole, mentre le passività esterne lorde sono simili in Italia e Spagna, dal punto di vista delle passività esterne nette, un’uscita dell’Italia dall’euro dovrebbe essere molto meno minacciosa per le nazioni creditrici rispetto all’uscita della Spagna dall’euro. Ciò detto, gli attivi e le passività non sono necessariamente possedute e dovute dalle stesse parti, il che significa che non si possono ignorare i quasi €3,000 miliardi di passività lorde dei residenti italiani ai residenti stranieri.
Ironia della sorte, le passività internazionali nette dell’Italia sono il risultato delle persistenti eccedenze nelle partite correnti che il Paese ha avuto sin dalla crisi europea del debito nel 2012 e dei deficit minori nelle partite correnti rispetto alla Spagna prima della crisi. Il rovescio della medaglia è che il surplus delle partite correnti rende anche più facile per un Paese come l’Italia uscire dall’euro rispetto ad un Paese con un deficit delle partite correnti. Ciò è dovuto al fatto che maggiore è il deficit delle partite correnti di un Paese debitore, maggiore è il costo di una sua uscita poiché il deficit delle partite correnti dovrebbe essere chiuso bruscamente dopo un’uscita dall’euro. Allo stesso modo, maggiore è il surplus delle partite correnti di un Paese creditore, maggiore è il costo di un’uscita, a causa di un apprezzamento valutario potenzialmente più elevato. Su questa metrica l’Italia si trova approssimativamente nel mezzo, come mostrato di seguito.
Soprattutto ciò significa che, a causa del surplus delle partite correnti dell’Italia, il suo costo di un’uscita dall’euro dovrebbe essere relativamente basso.
E non è solo l’Italia. Ciò che è notevole nel grafico qui sopra è che, ad eccezione della Grecia, tutti i Paesi periferici avevano un surplus delle partite correnti lo scorso anno, un enorme cambiamento rispetto agli ampi deficit delle partite correnti nel 2009-2010 prima della crisi europea del debito. Questo è anche mostrato nel grafico qui sotto.
Oltre ai Target2 e alle partite correnti, un’altra importante riflessione sul miglioramento della posizione dei Paesi periferici è stata quella che JPMorgan chiama “addomesticamento” del proprio debito pubblico. Da un lato, ciò è rappresentato dal forte calo dell’esposizione delle banche estere al debito italiano.
La compensazione, ovviamente, è che quando le banche estere hanno scaricato la loro esposizione nei confronti dell’Italia, un particolare hedge fund ha incrementato e acquistato tutto: la Banca Centrale Europea, e così facendo ha assoggettato ancora di più Roma alla sua influenza.
Inoltre il grafico qui sotto mostra che l’addomesticamento dei mercati dei titoli di stato dell’area Euro è stato più marcato nelle banche della periferia, la cui quota di obbligazioni non nazionali è arrivata al 15% negli ultimi anni rispetto ad un picco del 40% nel 2006.
Poi JPMorgan sottolinea una strana implicazione in questi trend del mercato dei titoli di stato che viene spesso trascurata: la riduzione del debito tramite Private Sector Involvement (PSI) diventa un’opzione meno allettante per un Paese periferico indebitato, quando la maggior parte delle obbligazioni sono detenute a livello nazionale. In altre parole, è meno pratico andare in default sul debito sovrano se si finisce per rovinare pochi creditori stranieri e la maggior parte della propria popolazione.
Come dice JPMorgan: “Ciò restringe le opzioni che ha un Paese in termini di aggiustamento della sua economia all’interno di un’unione monetaria”.
Ecco alcune osservazioni: all’interno di un’unione monetaria, dove il deprezzamento della valuta e la monetizzazione del debito non sono possibili (a meno che, ovviamente, non ci sia un divorzio con la suddetta unione), un Paese ha effettivamente due opzioni: default e svalutazione interna.
La Grecia, ad esempio, ha provato entrambi: il default attraverso il coinvolgimento del settore privato nel 2012 e la svalutazione interna, vale a dire, il crollo dei salari e l’aumento delle partite correnti attraverso il programma della Troika.
E qui le cose si fanno interessanti, perché secondo i calcoli di JPM, le varie inadempienze greche, note anche tecnicamente come Private Sector Involvements, hanno fornito una riduzione del debito netto della Grecia di circa €67 miliardi, o del 33% del PIL (anche se il rapporto debito/PIL greco rimane ancora alto e, come il FMI ricorda regolarmente, è insostenibile).
Applicando le stesse ipotesi di un haircut e di un PSI (cioè, solo le obbligazioni statali sarebbero soggette ad haircut), la riduzione netta del debito italiano dopo un haircut sui detentori non nazionali sarebbe solo di €267 miliardi, o il 15% del PIL. In altre parole, un’analisi costi/benefici di un haircut default effettivo del debito, suggerisce che un PSI in stile greco sarebbe poco attraente per l’Italia. Naturalmente si potrebbe immaginare una ristrutturazione più ampia rispetto al PSI greco, ad es. includendo prestiti e debito pubblico regionali o locali, ma sicuramente una tale opzione sarebbe più difficile da negoziare e presenterebbe maggiori sfide legali. Ci sono, naturalmente, altre sfide molto più strutturali, ma se non hanno funzionato per la Grecia, non funzioneranno mai per l’Italia, dove i numeri associati sono di ordine superiore.
Quindi, con poco da guadagnare da un default, come indicato nell’analisi precedente, all’Italia rimane una sola opzione: svalutazione interna. Sfortunatamente, come calcola JPM, questa svalutazione interna non sta andando bene nel caso dell’Italia. Questo può essere visto nel grafico qui sotto, il quale mostra le variazioni dei costi unitari del lavoro, i saldi delle partite correnti
ed i tassi di disoccupazione sin dal 2009.
Mostra anche che finora la Grecia e l’Irlanda hanno ottenuto il più grande aggiustamento, cioè il più grande declino dei costi unitari del lavoro e dei deficit delle partite correnti, mentre l’Italia ha visto un aumento dei costi unitari del lavoro sin dal 2009. In altre parole, dieci anni dalla crisi Lehman e sei anni dopo la crisi europea del debito e l’aggiustamento del costo del lavoro in Italia non è nemmeno iniziato. E se inizierà, è sicuro che Roma affronterà una crisi politica come non se ne vedeva una da molto tempo.
Mettendo tutto questo insieme, la mancanza di una qualsiasi svalutazione interna e l’antipatia per un PSI in stile greco lascia poche opzioni all’Italia per adattarsi all’interno dell’unione monetaria.
Tutto questo, insieme al massiccio squilibrio Target2 in Italia, che diventa un attivo immediato nel momento in cui il Paese decide di uscire dall’Eurozona senza mai ripagarlo, e ad un deficit del conto delle partite correnti, continuerà a rendere il Paese vulnerabile alle pressioni populiste per uscire dall’unione monetaria.
Questa è la conclusione cupa, seppur sbalorditiva, di JPMorgan, anche se la banca rileva che la strada verso un’uscita dall’euro, come il fiasco greco nel 2015 ha mostrato fin troppo chiaramente, sarebbe tutt’altro che facile e né Brussles né la BCE accetterebbero senza combattere. JPMorgan nota anche che le considerazioni qui sopra ignorano gli altri potenziali costi derivanti da un’uscita dall’euro, costi evidenziati dalla reazione del mercato questa settimana, come la possibilità che si possa innescare una crisi più ampia e, se viene ripetuto il copione greco, controlli dei capitali.
Semmai l’Italia arrivasse al punto in cui si formassero file di depositanti presi dal panico fuori dalle banche italiane, come accaduto nell’estate del 2015 in Grecia, potrebbe davvero salutare l’euro e l’esperimento europeo.
Versione originale
Fonte: www.zerohedge.com
Lin: https://www.zerohedge.com/news/2018-06-02/jpmorgans-stunning-conclusion-italian-exit-may-be-romes-best-option
2.06.2018
Versione italiana:
Fonte: ww.rischiocalcolato.it
Link: https://www.rischiocalcolato.it/2018/06/lincredibile-conclusione-di-jpmorgan-unuscita-dellitalia-potrebbe-essere-la-migliore-opzione-per-roma.html
[*] traduzione di Francesco Simoncelli: https://francescosimoncelli.blogspot.it/