DI MILFORD BATEMAN
Global Labour
Rovinata dall’avidità, dallo sciacallaggio, dall’abuso sui clienti e dal caos di mercato in stile Wall Street
Trent’anni fa si pensava che la soluzione perfetta per la disoccupazione e la povertà nei paesi in via di sviluppo sarebbe stata la microfinanza, con l’erogazione di microprestiti utilizzati dai poveri per fondare attività generatrici di reddito.
La microfinanza è strettamente associata al dottor Muhammad Yunus, un economista bangladese formatosi negli Stati Uniti e Premio Nobel per la Pace del 2006. Celebrando l’auto-aiuto e l’imprenditoria individuale – e screditando implicitamente tutte le forme di iniziativa collettiva come sindacati, movimenti sociali, cooperative, spesa sociale, politiche di sviluppo a favore dei poveri e, soprattutto, i movimenti collettivi per assicurare una più equa ridistribuzione della ricchezza e del potere -, i promotori neoliberisti della comunità di sviluppo internazionale si sono innamorati della microfinanza.
La Banca Mondiale, l’United States Agency for International Development (USAID) e altre istituzioni hanno cominciato a promuovere quest’idea e, per ridurre il bisogno di sussidi, hanno anche insistito nel convertire la microfinanza in un business. La microfinanza è rapidamente diventata il profilo più diffuso nella comunità di sviluppo internazionale, quello più generosamente finanziato e che si supponeva fosse la politica sociale ed economica più efficace.
La realtà alla fine viene a galla
Sfortunatamente ora è evidente che Yunus si sbagliava. I trent’anni trascorsi hanno di fatto dimostrato che la microfinanza è parte del problema, ostacolando una sostenibile riduzione della povertà nei paesi in via di sviluppo, e non certo la sua soluzione [1]. E non ci sono prove fondate che la microfinanza abbia avuto un impatto positivo sul benessere dei più poveri [2], dato che dal 1990 questo settore è stato sempre più segnato da spettacolari livelli di avidità, sciacallaggio, soprusi sui clienti e caos di mercato, analogo allo stile di Wall Street [3]. Ne risulta che la microfinanza sia stata fortemente pilotata dalla pubblicità, dalle PR, dal sostegno offerto dalle celebrità e da un flusso costante di dichiarazioni “miracolistiche” di Yunus e dei suoi seguaci.
I problemi della microfinanza sono profondi e molteplici. Per prima cosa, fin dall’inizio si riteneva che, indipendentemente da quante microimprese sarebbero sopravvissute con la microfinanza, la domanda locale sarebbe aumentata in modo automatico per assorbire l’offerta addizionale di beni e servizi. Yunus fu chiaro su questo punto. Ma quest’interpretazione è fondamentalmente sbagliata: esiste un freno alla domanda locale. Fin dagli anni ’70 le comunità locali, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, sono formate da una moltitudine di attività informali che offrono in modo abbastanza adeguato una serie di beni e servizi legati alle necessità dei poveri abitanti.
L’aumento artificiale dell’offerta ha dato benefici davvero ridotti per lavoro e reddito. Al contrario, ammassare sempre più microimprese informali nello stesso spazio economico locale porta di solito ai licenziamenti, mentre le nuove microimprese riescono solo a sopravvivere con la domanda locale, che fino a quel momento riusciva a sostenere le microimprese già esistenti. Grazie alla creazione di nuove microimprese, la gran parte degli individui sventurati (e poveri) che già lottavano per la sopravvivenza hanno a che fare con fatturati ridotti, con margini, salari e profitti più bassi. Qualsiasi dipendente può essere licenziato. L’offerta aggiuntiva tende anche a deprimere i prezzi dei beni e dei servizi locali, colpendo negativamente tutte le microimprese, quelle nuove e quelle già presenti. In breve, troppo spesso la microfinanza promuove un processo improduttivo di “produzione seriale di impieghi” senza che vengano registrati lavori reali, un reddito o un aumento di produttività. La comunità dei poveri microimprenditori alla fine ne paga il prezzo con redditi più bassi a causa del poco lavoro che viene creato nella comunità locale grazie alla microfinanza [4]. Questo difficilmente può essere considerato giusto ed equo.
A peggiorare il problema dei licenziamenti ci sono i fallimenti delle microimprese. Ancor più delle piccole o medie imprese, le microimprese sono portate alla povertà e hanno un elevato rischio di fallimento. Ciò significa che, nel lungo termine, la microfinanza crea molto meno lavoro sostenibile di quanto si pensi abitualmente. Il fallimento spesso fa sì che il povero subisca la perdita di risorse importanti. Le famiglie inizialmente prelevano dai risparmi di famiglia e rinviano la riscossione di un reddito per cercare di ripagare i microprestiti. Se non fosse sufficiente, ci sarà poi bisogno di vendere beni fondamentali (spesso a prezzi stracciati), come attrezzature, macchinari, veicoli, case e terreni. Perdendo queste risorse, le famiglie povere spesso sprofondano in una miseria ancora più profonda e irreparabile, mentre i racconti di coloro che sostengono il movimento della microfinanza – soprattutto il programma “Doing Business” della Banca Mondiale, ispirato ai neoliberisti – si focalizzano sul massimizzare la “libertà” e l’”opportunità” di fare impresa, tralasciando deliberatamente gli aspetti negativi legati al fallimento, che è invece l’esperienza principale per la maggior parte dei poveri imprenditori.
Inoltre, l’enorme mole della microfinanza non viene usata per alimentare lo sviluppo della microimpresa, ma va a supportare il mero consumo. Grazie all’accesso facilitato, ma con tassi di interessi di solito molto alti – una banca di microfinanza messicana, Compartamos, chiede ai suoi clienti poveri un interesse annuo pari al 195% -, il povero alla fine impiega una larga parte delle proprie entrate per la restituzione degli interessi. Questa psicologia contribuisce alla comparsa di dinamiche stile Ponzi in un numero sempre maggiore dei paesi in via di sviluppo, con i poveri che gradualmente rimangono intrappolati in nuovi microcrediti che vengono richiesti per ripagare quelli esistenti. L’esempio più drammatico di questa tendenza distruttiva viene fornito dallo stato indiano dell’Andhra Pradesh, una tendenza che nel 2010 ha accelerato il collasso di quasi tutto il settore della microfinanza.
Lo svantaggio più importante di questo modello, comunque, è semplice: la programmazione della produzione con la microfinanza – microimprese informali – è una base completamente errata su cui un Paese può poggiarsi per fuggire dalla povertà e dalla miseria. Una nazione ha bisogno di un settore produttivo fiorente, basato su una massa critica di imprese che hanno la capacità di raggiungere una scala minima di efficienza, che utilizzano tecnologie all’avanguardia, sviluppano capacità innovativa, che si collegano produttivamente ad altre imprese verticalmente (subappalti) e orizzontalmente (gruppi) e con mercati non locali potenzialmente da sfruttare. Con questi requisiti è possibile una crescita della produttività nel lungo termine, e anche la riduzione della povertà. Come mostra Chang [5], è questa l’esperienza delle economie sviluppate e delle economie più dinamiche del miracolo del Sud-Est asiatico. Comunque, grazie alla sempre maggiore esposizione alla microfinanza, i paesi in
via di sviluppo di oggi sono stati condotti nella direzione opposta.
L’esperienza di Africa e America Latina illustra l’immensa portata del problema. L’Africa ha già più microimprese pro capite di qualsiasi altra regione, e il rapido e crescente ricorso alla microfinanza sta ancora aumentando il dato. Ma l’Africa rimane ancora intrappolata nella povertà, proprio perché ha sviluppato solamente una struttura imprenditoriale di superficie, che è strutturalmente incapace di dare origine a una crescita di produttività.
Anche la Banca Interamericana di Sviluppo (IDB) suggerisce la stessa dinamica per spiegare il perché la storia recente dell’America Latina veda livelli altissimi di povertà e disoccupazione [6]. Per troppo tempo l’America Latina ha destinato troppe delle scarse risorse finanziarie nelle poco produttive microimprese informali e nel lavoro autonomo, e troppo poco nelle più piccole e medie imprese produttive. L’IDB ha demolito l’opinione che l’America Latina abbia tratto benefici dall’espansione programmata dalla microfinanza.
Ma i politici ancora non capiscono
Le pessime scelte politiche che riguardano la microfinanza non sono terminate. Anche dando un rapido sguardo alla CNN o ad Al Jazeera, i giovani audaci che sono dietro le insurrezioni della Primavera Araba nel Nord Africa non chiedono solo il rovesciamento dei dittatori, ma anche “lavoro vero”, ossia lavori che abbiano un senso, dignità, sicurezza e che utilizzino le loro alte competenze professionali, spesso acquisite all’estero a caro prezzo. Come ha detto un dimostrante, i giovani in Nord Africa chiedono una vita lavorativa decente e “non solo di vendere falafel all’angolo della strada”. Comunque la Banca Mondiale, l’USAID, l’EBRD e altre istituzioni stanno pensando di assistere questi giovani soprattutto con programmi di microfinanza, il cui scopo è fondamentalmente quello di sostenere proprio il genere di lavoro che hanno ferocemente rifiutato. La microfinanza potrebbe quindi infiammare la situazione in Nord Africa.
Un approccio simile, ostinato nell’errore, lo si trova nella Commissione Europea. Grazie a un nuovo fondo di microfinanza di 100 euro, la CE spera di istituire un nuovo salvataggio di microimprese nei luoghi più colpiti dalla recessione, creando così nuovi posti di lavoro. Mentre quasi tutti i paesi dell’Unione Europea stanno assistendo a una drammatica contrazione del settore della microimpresa a causa del declino della domanda locale, la stragrande maggioranza dei nuovi microimprenditori difficilmente riuscirà a identificare nuove fonti di domanda locale con cui iniziare a crescere. In Grecia, ad esempio, il drammatico crollo della domanda ha fatto sì che più della metà delle microimprese e delle piccole attività – caffè, piccoli negozianti, venditori di souvenir, bar, locali di fast food, eccetera – oggi non sono in grado di pagare gli stipendi, licenziano i dipendenti o chiudono. La stessa spirale negativa è presente nella maggior parte dei Paesi Europei. È una crudele illusione aspettarsi che le nuove microimprese possano mettere radici nelle stesse comunità.
La microfinanza è stata considerata per lungo tempo un efficace intervento guidato dalle leggi di mercato che poteva ridurre enormemente la povertà e che stava promuovendo uno sviluppo dal basso verso l’alto. Anche i sostenitori di vecchia data ora accettano che questa idea si sia rivelata falsa [7]. In questa fase avanzata abbiamo la necessità urgente di comprendere gli svantaggi della microfinanza e di iniziare a reindirizzare le risorse scarse verso un migliore utilizzo, specialmente con cooperative di credito, banche di sviluppo locali e così via. Solo in questo modo le comunità saranno risparmiate da danni ulteriori provocati dal settore finanziario che si aggiungono a quelli già presenti, grazie alla consolidata ma fondamentalmente mal riposta fiducia nel potere della microfinanza.
Note:
[1] Vedi Milford Bateman (2010) Why Doesn’t Microfinance Work? The Destructive Rise of Local Neoliberalism, Londra, Zed Books.
[2] Vedi Maren Duvendack, R Palmer-Jones JG Copestake, L Hooper, Y Loke e N Rao (2011), What is the evidence of the impact of microfinance on the well-being of poor people?, Londra, EPPI-Centre, Social Science Research Unit, Institute of Education, University of London.
[3] Vedi Hugh Sinclair (2012), Confessions of a Microfinance Heretic: How Microlending Lost Its Way and Betrayed the Poor, San Francisco, Berrett-Koehler.
[4] Nel 2009 l’ILO si espresse contro un’ulteriore stimolo al settore della microimpresa informale, dato che “come già avvenuto nelle crisi precedenti, ciò potrebbe generare una sostanziale pressione al ribasso sui redditi dell’economia informale, che già prima della crisi odierna erano in declino”, vedi The Financial and Economic Crisis: A Decent Work Response, pag. 8, ILO 2009, Ginevra.
[5] Ha-Joon Chang (2002), Kicking Away the Ladder – Development Strategy in Historical Perspective, Londra, Anthem Press.
[6] IDB (2010), The Age of Productivity: Transforming Economies from the Bottom Up, Washington DC: IDB.
[7] Vedi Malcolm Harper, M. 2011, “The Commercialization of Microfinance: Resolution or Extension of Poverty?” in Milford Bateman (2011), Confronting Microfinance: Undermining Sustainable Development, Sterling, VA: Kumarian Press.
Milford Bateman è un consulente freelance, esperto di sviluppo economico locale e dal 2006 Professore Associato di Economia all’Università di Juraj Dobrila Pula in Croazia.
Fonte: Global Labour
Ripreso da Counterpunch
13.03.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di EDN