LE INTERPRETAZIONI DELLA GUERRA IN IRAK PARTE SECONDA

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A quasi due anni dall’invasione dell’Iraq, tutt’altro che “pacificato”, è possibile considerare simultaneamente – rifuggendo da un’interpretazione monocausale – il peso dei fattori economici, “lobbystici”, geopolitici e geoeconomici nella scelta dell’Occidente filo-americano di rovesciare il legittimo governo di uno Stato membro delle Nazioni Unite.

DI DANIELE SCALEA

INTERPRETAZIONE GEOPOLITICA

 
Gli Stati Uniti d’America sono oggi l’ultima superpotenza mondiale, con un’estensione della propria influenza senza precedenti storici: c’è da credere che una tale situazione non si sia creata per caso, bensì che sia il risultato di pluri-secolari sforzi politici, economici e militari degli USA stessi. Pressoché tutti gli analisti individuano nel passato statunitense una logica d’azione geopolitica che si estende a tutto il presente, e non lascia adito a congetture riguardo una sua cessazione in un futuro prossimo.Secondo John Kleeves[39] tale logica deriva addirittura dalla fondazione stessa degli Stati nordamericani, in qualità di colonie inglesi. Egli rileva come lo scopo fondamentale della colonizzazione americana da parte degli Inglesi fosse la ricerca del mitico “passaggio a nord-ovest”, attraverso il quale si sperava di poter oltrepassare il continente americano – evitando la via dello Stretto di Magellano, lontano e ancora controllato dagli Spagnoli – e inaugurare una nuova rotta commerciale con l’Oriente. Sarebbero stati dunque i giganteschi mercati orientali, e in particolare quello cinese, le sirene che condussero i “padri pellegrini” sulle coste del futuro New England, col beneplacito della Corona. Secondo Kleeves, l’apertura incondizionata del mercato cinese è ancora il sogno proibito verso cui s’orienta l’intera politica americana. Bisogna ammettere che questa tesi è, oltre che molto suggestiva, anche parecchio credibile: infatti, per una nazione di mercanti ed affaristi, quale obiettivo maggiore ci può essere che quello di un colossale mercato “vergine” che potrebbe assorbire a tempo pressoché illimitato la produzione americana? Consideriamo che oggigiorno una delle parole d’ordine, negli USA ma in tutti i paesi capitalisti, è rilanciare i consumi. Visto che per quanti sforzi facciano allo scopo d’assomigliare a porci gozzoviglianti, gli Americani e gli Europei non possono fisiologicamente aumentare i propri consumi all’infinito, l’ultima soluzione per il sistema capitalista è quella d’aprirsi sempre nuovi mercati, e spingerli tutti al livello massimo. E’ chiaro che si arriverà ad un limite, raggiunto il quale il sistema crollerà miseramente senza lasciare dietro di sé null’altro che immani distruzioni ambientali e sociali: ma la classe dirigente borghese crede di vivere in un eterno futuro, e per famelicità non è molto diversa da quei “maiali”-consumatori che intende ingozzare allo stremo.

A prescindere dall’effettiva importanza della Cina nei piani geopolitici americani (importanza che comunque possiamo ritenere molto grande) è un dato di fatto che l’obiettivo ultimo della strategia atlantista sia proprio l’Eurasia, è cioè l’Heartland che all’inizio del XX secolo il geopolitico inglese Halford Mackinder indicò come punto geostrategico fondamentale per il dominio mondiale.[40] A dimostrazione di quest’estremo interesse verso l’Eurasia (qui intesa, fondamentalmente, come la Russia e tutto il blocco di nazioni centro-asiatiche circostanti) potremmo citare l’intero operato storico e contemporaneo degli Stati Uniti, nonché gli scritti dei loro maggiori geopolitici: ma la conferma più eclatante ci arriva – esplicita come non mai – proprio da alcuni dei più influenti membri dell’amministrazione Bush (prima e seconda): il vice-presidente Dick Cheney, il ministro della difesa Donald Rumsfeld, il sotto-segretario alla difesa (ed importante ideologo neo-con) Paul Wolfowitz. Costoro, insieme a molti altri rappresentanti dell’intellighentsija neo-conservatrice, fanno parte del “think-tank” dal nome (che già dice tutto) “Project for the New American Century” (“Progetto per il Nuovo Secolo Americano”)[41], il cui scopo è, appunto, quello di garantire anche per il XXI secolo la supremazia globale che gli USA si sono faticosamente conquistati nel XX, con due guerre mondiali più cinquant’anni di rovente “guerra fredda”. Nel settembre 2000 l’organizzazione ha stilato una sorta di memorandum (i cui redattori materiali sono Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, Jeb Bush e Lewis Libby[42]) intitolato “Rebuilding America’s defence: strategies, forces and resources for a new century”. In tale documento, precedente alla stessa elezione di George W. Bush alla presidenza degli Stati Uniti nonché all’11 settembre, i suoi collaboratori già esprimevano l’intenzione di prendere possesso della strategica regione del Golfo Persico, sfruttando la rivalità con l’Iraq e l’isolamento internazionale di Saddam Hussein.[43]

Ma il documento va ben oltre, offrendoci interessanti spunti per comprendere appieno gli intenti geopolitici dell’élite americana. Infatti, esso ospita “un progetto per conservare la preminenza globale degli Stati Uniti, impedendo il sorgere di ogni grande potenza rivale, e modellando l’ordine della sicurezza internazionale in modo da allinearlo ai principi e agli interessi americani”[44]. Ovvio. Il P.N.A.C. desidera mantenere l’egemonia mondiale statunitense, e l’attuale congiuntura geopolitica è eccezionalmente favorevole: l’Unione Sovietica si è letteralmente disintegrata e la Russia di Putin ne sta uscendo faticosamente dalle macerie, la Cina non è ancora pronta a sfidare gli USA sul piano geopolitico (non prima del 2015, secondo gli esperti americani) e l’Unione Europa stupidamente persevera nel non comprendere le proprie enormi potenzialità. In poche parole, gli Stati Uniti sono al momento l’unica superpotenza mondiale, ed è chiaro che nessuno potrà scalzarli da tale posizione, se prima non si renderà a sua volta una superpotenza: dunque, l’uovo di colombo del PNAC è quello d’impedire a chiunque d’assurgere al ruolo di potenza su scala globale. Per dirla con le parole d’uno scritto di Wolfowitz e Libby: dovrebbero “dissuadere le nazioni industriali avanzate dallo sfidare la nostra egemonia o anche dall’aspirare a svolgere un ruolo regionale o globale maggiore”[45]. Stiamo parlando – l’avrete intuito – della famosa dottrina della “guerra preventiva”, che i mezzi d’informazione allineati descrivono erroneamente come un “colpire per primi nell’imminenza d’un attacco esterno”; in realtà, l’attacco arriverebbe ad anticipare non un eguale attacco militare, bensì una semplice crescita di potere su scala regionale o globale, che potrebbe mettere in discussione l’egemonia assoluta degli USA sul mondo. Alla luce di ciò, appare chiaro che il pericolo all’egemonia statunitense non poteva essere avanzato dall’Iraq il quale, dopo la Seconda Guerra del Golfo (1990) e il conseguente embargo, era stato ridotto tanto in ginocchio che mai avrebbe potuto pensare d’assurgere al ruolo di potenza regionale: figuriamoci mondiale! Evidentemente l’obiettivo, o meglio gli obiettivi, contro cui è stata lanciata la guerra preventiva in Iraq erano altri: e questo ci ricollega fortemente all’intuizione di John Kleeves, alle teorie di Mackinder e a Zbigniew Brzezinsky (il più influente geopolitico americano) che se ne è fatto moderno interprete.
Tutta la condotta storica degli Stati Uniti d’America sembra conformarsi al progetto di dominazione dell’Heartland mackinderiano, ossia dell’Eurasia. Le due guerre mondiali hanno permesso agli Americani d’abbattere le potenze europee e quella giapponese, anzi asservendole e sfruttando i loro territori come teste di ponte per la successiva aggressione alla massa continentale, realizzatasi nel corso della Guerra Fredda attraverso le guerre di Corea, Viet Nam e, per interposta persona, Palestina. A tutto questo vanno ad aggiungersi tutti gli intrighi gestiti sottobanco per garantire alla propria causa la gran parte delle classi dirigenti arabe. L’attuale “guerra al terrorismo” palesa ciò che un occhio attento già avrà notato: il cerchio espansionistico americano va stringendosi intorno ai due colossi eurasiatici, alle due superstiti potenze tellurocratiche: Russia e Cina. Dunque, l’occupazione dell’Iraq è, al pari di quella dell’Afghanistan, un tassello che, con le successive sottomissioni di Siria e Iran, con l’ingerenza negli affari interni dei paesi del Caucaso (aizzati contro la Russia), con l’allargamento ad est della NATO, costituisce quel mosaico volto a circondare e stringere in una morsa la Russia in primo luogo e la Cina, in secondo.[46] Ce n’è anche un terzo: l’Europa. Infatti, il dominio del Medio Oriente garantisce agli USA il controllo sulla principale fonte di produzione petrolifera del globo, dalla quale i paesi europei dipendono totalmente (a meno che non si sviluppino strette forme di cooperazione energetica con la Russia, ricchissima di petrolio ma carente dei capitali necessari a sfruttarlo appieno). Controllare i bacini petroliferi di quella regione, significa grosso modo frustrare ogni ambizione indipendentista dell’Europa, costringendola a sottostare ulteriormente ai propri diktat. E non solo l’Europa, naturalmente, si trova (o troverebbe, dato che l’esito del conflitto americano-iracheno è tutt’ora molto incerto) in una simile situazione. Il petrolio rappresenta infatti il 40% del consumo energetico mondiale, destinato a raggiungere il 50% nei prossimi vent’anni: pertanto il controllo di bacini importanti conferisce a chi li detiene un enorme potere ricattatorio sugli altri. L’Iraq che gli USA stanno cercando di sottomettere dispone delle seconde riserve petrolifere accertate del mondo, 115 miliardi di barili, che secondo alcuni potrebbero arrivare fino a 250, se il sottosuolo del paese fosse esplorato più attentamente[47].

Possiamo ottenere nuove conferme ancora da un membro del PNAC, Zbigniew Brzezinski che, pochi mesi dopo la fondazione di quell’ente (nel 1997), pubblicava sulla rivista Foreign Affairs un articolo dall’eloquente titolo di “Per una strategia eurasiatica”. In esso l’autorevole geopolitico americano fissava i cardini della prossima politica estera del suo paese, volta nel suo insieme alla sottomissione e allo smembramento della Russia. Così li riassume Viatcheslav Dachitchev[48]:
 – Gli Stati Uniti devono diventare la sola e unica potenza dirigente in Eurasia. Perché chi possiede l’Eurasia possiede anche l’Africa;
– il compito principale di questa politica globale degli Stati Uniti consiste nell’allargamento del loro principale «trampolino» geostrategico in Europa spingendo le pedine, che sono la NATO e l’UE, quanto più ad Est possibile, compresi i Paesi baltici e l’Ukraina;
– bisogna impedire ogni buona integrazione in seno alla stessa UE, in modo che questa non possa mai divenire una potenza mondiale completa;
– la Germania —che serve da base all’egemonia americana in Europa— non potrà mai diventare una potenza mondiale: il suo ruolo deve essere limitato a dimensioni strettamente regionali;
– la Cina — ossia «l’ancoraggio asiatico» della strategia eurasiatica degli Stati Uniti, deve, anch’essa, rimanere una semplice potenza regionale;
– la Russia deve essere eliminata in quanto grande potenza eurasiatica; al suo posto, bisogna creare una confederazione di Stati minori, che saranno la repubblica russa d’Europa, la repubblica siberiana e la repubblica di Estremo Oriente.

 

Se non è una confessione in piena regola questa…
Tirando le somme, potremmo definire l’aggressione americana all’Iraq come una mossa geopolitica volta in realtà a colpire, in primo luogo, la Russia – che vede stringersi sempre più attorno a sé la morsa dell’imperialismo nordamericano -, la Cina – i cui possibili mercati d’approvvigionamento energetico sono progressivamente occupati dagli USA -, e infine l’Europa – per l’acuirsi della sua dipendenza energetica dai paesi arabi in mano statunitense, e soprattutto per l’acuirsi delle sue divisioni interne in materia di politica estera. Da questo quadro risulta molto più chiaro perché siano stati proprio Russia, Cina, Francia e Germania i più accaniti difensori dell’indipendenza irachena.

 
 
INTERPRETAZIONE GEOECONOMICA

 
Quest’ultima interpretazione della guerra che proponiamo, è forse la meno nota al grande pubblico; eppure, a mio parere, è stata per l’establishment statunitense una delle motivazioni più immediate e decisive per intraprendere questo scontro. Tale interpretazione verte sullo scontro titanico scatenato nel campo geo-economico dall’avvento della moneta unica europea e dal suo rapido rafforzarsi nei confronti del dollaro.
Innanzitutto, urge aprire una parentesi sul ruolo del dollaro. Nel 1971 il presidente Nixon tolse la valuta statunitense dal sistema monetario aureo, cioè interruppe unilateralmente la convertibilità della moneta in oro. Da quel momento, la fornitura mondiale di petrolio è trattata in dollari a corso forzoso. Oltre ad essere la moneta di scambio energetico, è anche la valuta richiesta dal FMI per estinguere eventuali debiti. Questo fa sì che tutti i paesi del mondo necessitino d’ingenti riserve di dollari, e questi si possono ottenere solo dagli Stati Uniti. Posta l’indipendenza della valuta dall’oro, il dollaro non è altro che carta, pura carta scarabocchiata dal costo di produzione infimo, che gli USA cedono però al mondo al loro prezzo nominale. In breve, tutti i paesi del mondo forniscono agli Stati Uniti energia, merci e quant’altro, in cambio di pezzi di carta che quelli possono stampare a proprio piacimento. Non è difficile capire come, in effetti, l’egemonia mondiale statunitense debba moltissimo a questo sistema di truffa generalizzata ch’è riuscito ad imporre per il mondo. Ma se l’euro riuscisse a scalzare il dollaro dalla sua posizione privilegiata di moneta di scambio internazionale, forse tutto il castello di carte eretto dagli Stati Uniti crollerebbe miseramente. Sostiene il giornalista William Clark che “uno dei piccoli sporchi segreti dell’ordinamento internazionale odierno è che il resto del globo potrebbe rovesciare gli Stati Uniti dalla loro posizione egemonica, se solo volessero, con l’abbandono concertato del regime monetario basato sul dollaro. Questo è il principale e ineluttabile tallone di Achille dell’America”.[49]
Cosa centra l’Iraq in tutto ciò? Davvero molto, invero, e possiamo verificarlo immediatamente.
Nel novembre 2000 il governo iracheno decise che, nelle sue future transazioni commerciali riguardanti la vendita d’idrocarburi, l’euro avrebbe sostituito il dollaro come moneta di riferimento. Immediatamente dopo l’entrata in vigore della moneta unica europea, le intere riserve valutarie irachene (10 bilioni di dollari depositati presso le Nazioni Unite, secondo il programma “Oil for Food”) furono convertite in euro[50]. Una mossa, questa, che puntava a minacciare l’egemonia mondiale del dollaro e lusingare i sogni di gloria covati a Bruxelles, e che, oltretutto, ha fruttato molto ai fondi iracheni grazie all’ipervalutazione dell’euro. Infatti, l’iniziativa di Saddam Hussein aveva subito interessato gli altri paesi dell’OPEC, in particolare Iran e Arabia Saudita. La Repubblica Islamica, in particolare, ha già convertito oltre metà delle proprie riserve valutarie in euro. All’inizio del 2002, anche la Corea del Nord ha improvvisamente deciso il passaggio alla nuova valuta europea per i suoi commerci. Prima dell’aggressione statunitense all’Iraq, si erano diffuse voci insistenti sulla volontà dell’OPEC e della Russia di sostituire l’euro al dollaro come moneta di riferimento nella vendita del petrolio[51]. Ma dopo che i bombardieri americani hanno imperversato sulla sventurata regione mesopotamica, aprendo la strada agli eroici marines che – in combutta con i commilitoni dell’aviazione – hanno massacrato 100.000 persone (!), tutte queste voci hanno improvvisamente taciuto. Forse Bush aveva ragione, quando annunciò: “Mission accomplished”…

CONCLUSIONE

 
I media ufficiali – giornali, televisioni, ma anche studiosi, sedicenti esperti, ecc. – ci hanno raccontato di tutto e di più sul perché gli USA avessero deciso di conquistare (pardòn, liberare…) l’Iraq: armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, legami tra il Ba’ath e Al Qaeda, fervore democratico degli USA, e via dicendo. Ma tutte queste menzogne si sono ben presto palesate agli occhi dell’opinione pubblica, non dico americana[52], ma perlomeno europea. Ma i suddetti canali d’informazione, in spregio del loro ruolo, si sono dimenticati di fornirci allora le reali motivazioni della guerra che si sta combattendo in Iraq. Per fortuna esistono anche altri media, più rispettosi della propria funzione all’interno della società, che hanno svolto serie ricerche e sono giunti alle conclusioni che, in linea di massima, ho cercato di riportare sinteticamente in quest’articolo. Ho ritenuto importante presentare assieme tutte queste interpretazioni per sottolineare come, benché spesso se ne sostenga soltanto una delle quattro, esse siano tutte egualmente vere e decisive ai fini della comprensione dell’evento in questione. Era proprio questo lo scopo principale che mi prefiggevo scrivendo quest’articolo: far comprendere come il fatto che la cricca di Bush si arricchisse personalmente con le commesse militari o della “ricostruzione” sia un elemento influente ma non determinante nello scoppio del conflitto. Se tutta la classe dirigente si è mossa unanime nel sostenere questa guerra d’aggressione, è perché esistono motivazioni ancora più profonde, che sono radicate non solo nella “America cattiva, ottusa e bigotta” di George W. Bush, ma anche in quella raffinata e politicamente corretta di John Kerry. Il mito delle “due Americhe”, una buona e democratica, l’altra oligarchica e imperialista, è, per l’appunto, un mito. Il messianismo è un elemento certo più evidente nelle sette fondamentaliste, ma che è egualmente radicato tra i progressisti, seppure in forma laicizzata (non più “regno di Dio”, ma “più grande democrazia del mondo”), in virtù della comune eredità puritana. L’imperialismo non è certo figlio di Bush jr., né del padre o di Reagan, ma si è manifestato anche con i democratici e buonisti Clinton, Kennedy, Roosevelt e Wilson. Così come l’intera società americana è intrisa del puritanesimo originario, l’intera classe dirigente WASP è tutt’uno con l’ampia gamma d’interessi economici che dominano sulla politica americana. Una superpotenza non nasce per sbaglio, e per l’effetto “sviante” d’una sua parte marginale: sorge perché tutta una nazione lavora a questo scopo. Continuare a sognare che un giorno l’America “buona” si svegli e guidi il mondo verso un futuro di felicità e giustizia, significa mettersi nella stessa ottica di pensiero dei millenaristi puritani; e, soprattutto, significa piegarsi docilmente all’imperialismo, perdendosi in una finta contestazione del sistema. Il vero nemico, invece, è proprio il sistema capitalista – per intero – e gli Stati Uniti d’America – anche questi nella loro interezza[53]. Ignorare o rifiutare quest’interpretazione significa rendersi complici – che lo si desideri o meno – dell’imperialismo americano.

 
Daniele Scalea

Note:

[39] Cfr. John Kleeves, op.cit.
[40] Per una sintesi (ampiamente storicizzata e debitamente attualizzata) delle teorie di Mackinder si consiglia di consultare i saggi di Carlo Terracciano, e in particolare “Afghanistan: il nodo gordiano”, che si possono trovare nel sito http://www.terradegliavi.org/ 
[41] Alquanto significative queste parole di uno dei membri fondatori dell’organizzazione, Richard Perle: “Si tratta di una guerra totale. La combattiamo contro nemici di ogni risma. Quanti ce ne sono in giro! Non si fa che parlare di andare prima in Afghanistan, poi in Irak […]. Questo modo di affrontare la faccenda è del tutto sbagliato. Basta far sì che la nostra visione del mondo si diffonda […] ingaggiando una guerra totale […] e tra qualche tempo i nostri figli intoneranno inni sulle nostre imprese”. Cit. in Sherif el-Sebaie, “11 settembre, la nuova Pearl Harbour” (recensione del libro di David Ray Griffin), in http://www.aljazira.it
[42] Collaboratore (Capo del personale) di Cheney.
[43] Cfr. l’articolo di Neil Mackay, “Bush aveva pianificato il ‘cambio di regime’ in Iraq prima ancora di diventare presidente”, comparso sullo scozzese Sunday Herald in data 15 settembre 2002; la traduzione italiana è disponibile sul sito http://www.kelebekler.com
[44] Cit. in Neil Mackay, art.cit.
[45] Ibidem.
[46] Sull’accerchiamento dell’Eurasia, consigliamo in particolare la lettura del saggio di Carlo Terracciano, “L’asse e l’anaconda (l’Iraq di fronte alla conquista americana dell’Eurasia)”, postfazione al libro-intervista di Tiberio Graziani a Padre Jean-Marie Benjamin, Iraq, trincea d’Eurasia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2002 (prefazione di Enrico Galoppini).
[47] Dati contenuti nel saggio di Alain de Benoist, “Gli Stati Uniti e l’Europa”
(http://www.alaindebenoist.com/pdf/gli_stati_uniti_e_l_europa.pdf ).
[48] Nell’articolo “Risposta alla ‘lettera aperta’ degli intellettuali occidentali contro Putin”, pubblicato sul nr.42 della National-Zeitung, dell’8 ottobre 2004; una parziale traduzione italiana è disponibile su http://www.eurasia-rivista.org.
[49] Cfr. AA.VV., Censura: le notizie più censurate del 2003; Paul Harris, Cosa succederebbe se l’OPEC passasse all’euro? ( http://www.informationguerrilla.org/che_succederebbe.htm ).
[50] Cfr. Pietro Brevi, “Alla ricerca delle vere ragioni di un conflitto annunciato” (http://www.nexusitalia.com/ragionidelconflitto.htm ).
[51] Cfr. Pietro Brevi, art.cit.
[52] Dove la maggior parte dei cittadini è convinta che Saddam Hussein abbia ordinato l’attentato dell’11 settembre 2001…
[53] Non intendendo con ciò che ogni singolo cittadino statunitense sia colpevole di tutte le nefandezze commesse dal suo paese, ma che la responsabilità deve ricadere sulla sua intera classe dirigente, sulla sua intera società civile e sull’intero sistema di vita e pensiero che costituisce il tessuto sociale americano

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