L'AVVOCATO DEI KAMIKAZE: INTERVISTA A LEA TSEMEL

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«Ogni kamikaze porta con sé due detonatori: uno reale collegato all’esplosivo, l’altro simbolico che aziona il cortocircuito mentale necessario a farsi saltare in aria». Nello studio luminoso al quarto piano di un palazzo di Gerusalemme est, l’avvocato Lea Tsemel guarda in tivù le immagini dell’attentato di Natanya: se all’ultimo momento Lotfi Abu Saada avesse desistito, sarebbe sicuramente diventato suo cliente. In Israele non ci sono molte penaliste come lei. Da quarant’anni questa signora ebrea d’origini russe difende i ragazzini-bomba palestinesi che ci ripensano, quelli che un attimo prima d’immolarsi preferiscono la vita, propria e altrui. Una scelta professionale complicata che Lea Tsemel paga con la diffidenza e l’ostracismo dei connazionali e che racconterà venerdì e sabato prossimi a Granada alla conferenza del World Political Forum i Granada alla conferenza del World Political Forum intitolata «Mediterraneo: incontro e alleanza di civiltà»Netanya piangerebbe molte più vittime se gli agenti non avessero tentato di fermare il kamikaze. Eppure, è riuscito lo stesso ad uccidere cinque persone. Cosa succede nella testa di un ventenne determinato al peggio fino a questo punto?

«Sono giovani senza futuro, senza altre opzioni che il sacrificio di sé. Quasi tutti hanno almeno un parente o un amico ucciso dai militari israeliani. Pensano che restituire la morte agli avversari sia un gesto patriottico. I coetanei israeliani che vogliono difendere la patria coltivano l’ambizione d’arruolarsi, una volta maggiorenni. Loro no: non esiste un esercito palestinese. Così, le ragioni nazionali si fondono a quelle personali in una miscela avvelenata»

Quanti sono i suoi clienti?

«Una ventina, maschi e femmine. Hanno un’età compresa tra quattordici e diciassette anni e nella maggior parte dei casi devono scontare l’ergastolo».

Il sistema giudiziario non prevede benefici per il kamikaze-pentito?

«Per il momento no. I tribunali non distinguono tra chi rinuncia volontariamente all’azione suicida e chi invece non riesce a portarla a termine per problemi tecnici. Seguo una ragazza che quattro anni fa aveva deciso di farsi esplodere in una città vicino a Tel Aviv per vendicare il fidanzato ammazzato in un target killing, uno dei cosiddetti omicidi mirati dell’esercito israeliano. Mi ha raccontato in seguito che quando è arrivata lì e ha visto per la strada le donne, i bambini, la gente comune, ci ha ripensato: la loro morte non le avrebbe restituito l’amore. Ha tentato allora di tornare a casa, ma l’hanno arrestata e condannata al carcere a vita».

Perché qualche attentatore alla fine desiste?

«Il motore del kamikaze è la disperazione, ma la decisione è paradossalmente razionale. Sembra incredibile, eppure tra i casi che conosco nessuno è stato veramente indottrinato: alcuni si sono addirittura organizzati autonomamente dopo essere stati rifiutati dai “reclutatori” ufficiali perché minorenni. Quelli che si fermano in extremis cedono all’emozione: pietà per le vittime, paura di morire, nostalgia di casa».

Come si sente nel ruolo dell’avvocato del “diavolo”?

«Non è facile, ma sin dall’esplosione della prima Intifada ho capito che dovevo farlo. Non approvo l’occupazione e l’unico modo che ho per non cedere alla tentazione di lasciare il mio paese è raccontare il punto di vista dei palestinesi. La giornalista israeliana Amira Hass per esempio, lo fa con i suoi articoli, io attraverso il diritto».

Il ritiro da Gaza pareva poter disinnescare la violenza. Invece gli attentati sono ricominciati. Cosa ne pensa?

«Gaza doveva essere lasciata in mano ai palestinesi, ma per ora gli aerei israeliani stanno ancora bombardando».

Riuscirà il nuovo dream team Sharon-Peres a portare avanti il dialogo di pace?

«Non ho alcuna fiducia in Sharon, l’uomo che con la passeggiata provocatoria sulla Spianata delle moschee ha scatenato la seconda Intifada. Confido un po’ di più in Peres che almeno sostiene da lungo tempo la soluzione due popoli in due stati».

Fonte: www.lastampa.it
6.12.05

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