Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
Alcuni giorni fa sono andato a vedere la mostra di Ann Veronica Janssens, “Gran Bal”, all’Hangar Bicocca di Milano.
In realtà, già che c’ero, ho rivisto quella di Gian Maria Tosatti “NOw /here” a cui ero stato precedentemente, e ho messo piede anche nello spazio mistico in cui si trovano i “sette palazzi celesti” di Kiefer.
Bene, se voglio trasmettere a chi leggerà l’impressione che ho avuto, ricorrendo ad un’ espressione figurata, dico che mi è sembrato di passare in ordine; da una celletta asfittica ( la Janssens), ad un soggiorno un po’ più arioso ( Tosatti), per approdare infine ad un immenso spazio selvaggio in cui si respira a pieni polmoni, e cioè nella grande area in cui sono posti i Palazzi di Anselm Kiefer.
Premetto che già da un pò di tempo, di fronte ad alcune espressioni dell’arte contemporanea che trasudano concettualismo duro come l’acciaio, puntualmente picchio la testa e cado in stato confusionale.
La cosa che però mi lascia veramente interdetto, è il fatto che alla richiesta di un mio amico di dare un parere sulla mostra, non ho saputo formulare alcun giudizio critico, sia di segno positivo che di segno negativo.
Mi sono addirittura sorpreso che qualcuno abbia chiesto un parere sull’evento, visto che la disabitudine ad affrontare criticamente allestimenti ed esposizioni varie è ormai prassi consolidata.
Insomma, cosa dire : non ho gli strumenti per poter procedere ad una lettura seppur superficiale della mostra? Certo, questa sembrerebbe la conclusione più logica, ma badate ; uso il condizionale.
Eppure vedo mostre da anni, da sempre pratico gallerie, musei, artisti, leggo d’arte, visito fiere del settore, compro regolarmente Flash Art e altre riviste…quindi cosa accade…boh?
Probabilmente, una certa arte, mi ha scavato in seno una profonda disillusione, con relativa insofferenza di ritorno.
Naturalmente questa mia idiosincrasia non si manifesta per l’arte contemporanea nella sua totalità, ma solo per alcune formulazioni della stessa, e specificatamente quelle in cui la vetta dell’arido cerebralismo raggiunge il suo zenith; penso all’arte povera, a quella minimalista a quella performativa a quella installativa e ad altre ancora.
Una cosa è certa; la fastidiosetta frustrazione da cui ero attanagliato precedentemente, visitando mostre analoghe a quella della Janssens, dovuta alla palese inadeguatezza in cui versavo di fronte ad un abecedario intraducibile, si è via via trasformata in “stanchezza”, una forma di spossatezza simile a quella che ci investe quando cerchiamo di decifrare il pensiero di un interlocutore che si esprime in una lingua a noi poco familiare.
Una cosa è certa, la terra di nessuno in cui si incontravano fino ad alcuni lustri fà l’artista e il suo fruitore disarmati e dialoganti, è stata subdolamente conquistata dall’esercito dell’arte contemporanea, anzi dai battaglioni d’assalto dell’arte concettuale.
Preciso, che quando scrivo arte concettuale, il mio pensiero corre, per una forma di riflesso condizionato, alle prime mostre di arte povera degli anni 60, perché è li, a mio sindacabile avviso, che l’arte ha iniziato la sua trasformazione in “regno dell’anarchia”, o meglio, della “cripto-religione”.
L’arte concettuale, o almeno, una consistente parte di essa, ha dal suo esordio presentato una totale assenza di attaccaglie emozionali, adottando una anti-espressività dura e pura, lasciando così il pubblico senza mezzi ai quali potersi aggrappare per poter effettuare il viaggio del “senso”, tolto il quale un’opera diventa oscura al punto tale da risultare nulla.
L’arte che si fa materia eterea, fortissimamente eterea, e che non si fenomenizza più ai nostri sensi, perde quel carattere di totem di fronte alla quale dovrebbe realizzarsi la catarsi, la nostra catarsi, azione primigenia a cui “forse” essa è destinata.
Volendo metaforizzare ancor di più, potrei dire che si naviga a vista, poiché sono andate perdute le carte nautiche, anzi, sottratte…e potete cominciare ad immaginare da chi.
Infatti, noi appassionati d’arte, siamo passati dalla consapevolezza della nostra posizione nel firmamento artistico, al mare aperto, in cui la bussola ce l’hanno in mano solo gli operatori del sistema arte; artisti, curatori, galleristi.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che Malevich, come tutte le avanguardie artistiche del primo 900, fossero anche loro assolutamente distanti dalla sintassi comunemente riconosciuta e condivisa nel mondo dell’arte dell’epoca, ma non è così.
Credo che oggi, siano diventati importanti, fattori che all’inizio del secolo scorso erano ininfluenti o addirittura inesistenti e che questi fattori emergenti abbiano trasformato i ruoli e i rapporti tra i protagonisti di tale universo. Alludo naturalmente al mercato, che all’epoca delle prime avanguardie viveva ancora dei riverberi del mecenatismo ottocentesco, ragion per cui i l’artista, o meglio, la sua arte, aveva ancora un’importanza preminente rispetto al possibile business da essa generato. Infine, fatto sta, che il sistema ha radicalmente e scientemente cambiato il rapporto tra l’artista e lo spettatore, e rivoluzionato addirittura la percezione stessa che il fruitore ha di ciò che è chiamato a valutare. E tutto questo è avvenuto nell’esclusivo interesse del mondo economico rappresentato, con la benedizione addirittura di quelli che vanno alle mostre ma che a causa degli eventi che vado qui descrivendo, hanno sviluppato un senso acritico senza precedenti.
Bisogna quindi dire, che grazie ad una certa arte concettuale, “truccare” le carte in tavola e togliere allo spettatore ogni appiglio utile a stabilire un giudizio, facendogli per giunta credere di non essere preparato, è stato come rubare le caramelle ai bambini.
Il fossato insomma che divide chi sta arroccato nel castello ( il sistema) e chi vociante, fuori di esso pretende il pane ( la partecipazione ) si sta sempre di più allargando.
Ma volendo guardare oltre l’orizzonte delle arti visive, ci sono segnali di distacco abissali anche in altre discipline, tra chi conduce la locomotiva (il sistema delle arti nel suo complesso) e chi rincorre il treno nel tentativo di accaparrarsi l’oro (il messaggio).
Anche nel cinema infatti, mi pare che alcuni registi, come Christopher Nolan ad esempio con “Tenet”, a cui egli avrebbe dovuto allegare un vero e proprio manuale esplicativo , adottino procedure con canoni calati dal cielo, del tutto privi di grammatica codificata, spingendo così lo spettatore su un terreno sdrucciolevole, in cui ogni possibile interpretazione dell’opera si rivela una chimera.
Intendiamoci, non si vuole qui perorare la causa di un’arte che non si lanci coraggiosamente su terreni linguistici scoscesi in cerca di nuovi orizzonti, ma si contesta piuttosto la genuina qualità di opere d’arte scaturite da una forma di onanismo creativo, che non tiene neanche lontanamente in considerazione l’opera come media, e cioè come tramite tra artista e pubblico. È evidente che nel guazzabuglio che è venuto a crearsi negli ultimi anni, grazie al; “liberi i demiurghi di proclamare arte cio che loro ritengono tale”, ci sia molta, moltissima malafede.
Pensando sempre al cinema, mi viene in mente un film che a me è piaciuto moltissimo, e cioè “La grande bellezza”. Ricordo in modo particolare la scena in cui il protagonista, Jep Gambardella intervista la performer donna che si prende a testate nel muro, chiedendogli “conto” della sua opera, senza ottenere una risposta convincente. Anzi, l’intervistata, risponde a domande più che plausibili innalzando tra se e Jep, un muro di pretestuosità, nel vano tentativo di nascondere il vuoto di significato della sua opera, grande come il mondo.
Sappiamo però che nella vita di tutti i giorni, non tutti i giornalisti hanno l’insolenza di Gambardella nell’incalzare ostinatamente gli artisti con il fine di farsi spiegare il senso della loro opera.
Anzi, all’interno del sistema odierno di relazioni nel mondo dell’arte, fondato su patti riconosciuti di non ingerenza, in nome di un quieto vivere funzionale al business, vige una specie di “volemose bene ma senza far domande”. Ragion per cui ci tocca spesso prendere come buoni, mucchi cavillosi di inconcludenti parole volte a giustificare operazioni artistiche super discutibili.
Ma tornando alla Janssens, ecco, non mi sogno neanche lontanamente di equipararla all’artista intervistata da Gambardella, ma dico però, e ne sono certo, che il “sistema” ha oramai preso il sopravvento sulle singole volontà.
Semmai, posso tentare di instillare negli altri, il dubbio che l’artista, fattosi invincibile grazie al sistema che gli ha costruito intorno una corazza indistruttibile, magari inconsciamente, si erga a despota assoluto di un mondo autoreferenziale.
E in questo mondo fondato su leggi non scritte, che sancisce l’intoccabilità del demiurgo, non spetta certo a quest’ultimo stabilire un contatto con il pubblico e rendersi intelligibile, ma è il pubblico che deve sempre e comunque accollarsi il compito di scalare il calvario nel tentativo spesso vano di afferrare il senso dell’opera.
D’altronde, se oramai il sistema dell’arte si configura come una casta, perché i privilegiati di tale casta dovrebbero tenere conto dei dubbi della moltitudine cenciosa e dubbiosa?
Di Claudio Vitagliano per ComeDonChisciotte.org
29.06.2023
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Foto Copyright
Ann Veronica Janssens, Pirelli Hangar Bicocca, Milano