DI PHILIP EMEAGWALI
Online Journal
Immaginate che sia il 25 Maggio del 2063, il 100° anniversario dell’Africa Day, una giornata
per riflettere sui successi e i fallimenti dell’Africa. Il titolo sul giornale annuncia: “L’ultimo giacimento petrolifero nel territorio americano dell’Africa Occidentale si è esaurito.”
L’articolo continua: “L’ultimo pezzetto di foresta pluviale sarà
presto terra desolata, segnata da oleodotti, stazioni di pompaggio e raffinerie di gas naturale. L’inquinamento su
vasta scala sarà l’eredità ambientale per le future generazioni.
“Le riserve di petrolio al largo delle coste dell’Africa si andranno
esaurendo. I pozzi di petrolio abbandonati potrebbero di certo
diventare attrazioni turistiche, e gli insediamenti del boom del
petrolio trasformarsi in derelitte città fantasma.”
“In un mondo senza più petrolio spariranno gli aerei, e la gente
viaggerà oltremare su navi alimentate a carbone. Gli agricoltori
useranno i cavalli invece dei trattori, e le falci al posto delle
mieti-trebbiatrici. Col diminuire dei raccolti e l’incremento
demografico, il mondo sarà stretto dalla morsa della fame.
Senza mezzi per alimentare i propri veicoli, i genitori saranno
costretti in casa, senza lavoro, e i bambini andranno a scuola a piedi.”Questo scenario potrebbe diventare realtà, dato che non abbiamo più un’abbondante riserva
di petrolio. Sappiamo che questo esiste in quantità limitate, e che la maggior parte dei pozzi
si esaurisce dopo 40 anni. E’ sicuro, come la morte e le tasse. Piuttosto che discutere in che
anno esattamente avremo finito il petrolio, preferisco immaginare che non ne abbiamo già
più. Potrebbe accadere più presto di quanto immaginiamo. I nostri eredi ci ringrazieranno o
ci malediranno per la quantità di petrolio che lasceremo loro. Piuttosto che chiederci “Quando
l’Africa esaurirà le sue risorse naturali?” dovremmo domandarci “Quando l’Africa non sarà più
in grado di esportare materiali grezzi, o per mancanza del nostro stesso petrolio o perché i
mercati stranieri si saranno esauriti?”
Una barra di ferro grezzo da 100 dollari ne vale 200 quando viene trasformata in calici in
Africa, 65.000 negli aghi fatti in Asia, 5 milioni nei meccanismi per orologi in Europa.
Come può essere? Il capitale intellettuale europeo – la conoscenza collettiva della sua
popolazione – fa sì che una barra di ferro grezzo da $100 aumenti di 50.000 volte il suo valore?
Si potrebbe allora affermare che una mancanza intellettuale è la causa alla base della povertà.
[Philip Emeagwali]
Senza un patrimonio di conoscenza, in Africa, il ferro estratto continuerà ad essere lavorato in
Europa ed esportato di nuovo in Africa ad un costo enorme. Per alleviare la povertà l’Africa ha
bisogno di coltivare abilità creative e intellettuali che consentano di aumentare il valore delle
sue materie prime, e interrompere il circolo vizioso della povertà del continente. La povertà
non è l’assenza di denaro, piuttosto il risultato dell’assenza di conoscenza.
Negli stati africani esportatori di petrolio, multinazionali come la Shell (che vende impianti di
trivellazione per il 40 per cento di royalty sul greggio esportato) si stanno arricchendo, mentre
chi lavora a questi impianti rimane povero. Invece di occuparsi della causa basilare della
povertà, la produttività minima dovuta alla mancanza intellettuale, i leader del Terzo Mondo
si sono impegnati nel dare false speranze alla loro gente.
Abbiamo bisogno di meno chiacchiere sulla povertà e di più azione per eliminarla. Allora, come
possiamo farlo? L’istruzione ha fatto più di tutte le compagnie petrolifere del mondo per ridurre
la povertà. Ed è sconfortante rendersi conto che un pugno di leader considera il potenziale
della propria gente di valore assai inferiore rispetto a quello che vi è nel sottosuolo.
Il capitale intellettuale, non salari più alti, elimineranno la povertà in Africa. Se tutti noi
chiedessimo salari più alti, finiremmo col rimetterci noi stessi. Il capitale intellettuale avrà
come risultato la creazione di nuovi prodotti derivati da nuove tecnologie. Il risultato finale
sarebbe non solo una ridistribuzione del benessere, ma la creazione e il controllo di nuovo
benessere.
E il potere dell’Africa di ridurre la povertà aprirebbe le porte della prosperità a milioni di
persone. Un catalizzatore di tale prosperità potrebbe essere il telelavoro. Se 300 milioni
di africani potessero lavorare per compagnie che hanno sede in Occidente (proprio come
fanno milioni di indiani), entrambe le regioni ne beneficerebbero. La strategia sarebbe il
riconoscere il bisogno di lavoratori del mercato globale, e permetterebbe all’Africa di
soddisfare questo bisogno.
Per esempio, esperti in dichiarazione delle tasse che vivono in Africa, dove la manodopera
costa meno, potrebbero rispondere al bisogno di contabili negli Stati Uniti. Per di più, il
diverso fuso orario permetterebbe un più veloce cambio di turni nel servizio. E’ chiaro che
conoscenza e tecnologia sono cruciali per alleviare la povertà in Africa.
L’Africa perirà se continua a consumare quello che non produce, e a produrre quello che non
consuma. Il risultato sarà un deprimente ciclo di aumento del consumo, decrescita della
produzione, e aumento della povertà. Stiamo perdendo un’opportunità d’oro non usando i
trilioni di dollari guadagnati esportando risorse naturali per interrompere il ciclo della povertà
in Africa.
Siamo ad un incrocio dove un’insegna dice “Produci” e un’altra “Perisci”. Rischiamo di fare come il guidatore che si ferma ad un incrocio e domanda ad un pedone: “Dove porta questa
strada?”
E il pedone risponde: “Lei dove vuole andare?”
“Non lo so”, dice il guidatore.
“Allora è ovvio che non importa quale strada prende!”, replica il pedone.
Se ci comportiamo come il guidatore, l’Africa perderà la chance di “scegliere” il suo futuro.
Per decenni, nell’Africa post-coloniale il potere è rimasto nelle mani di quelli con le armi, e non
di quelli dotati di cervello. Non siamo stati sempre in guerra coi nostri vicini, ma siamo sempre
stati in guerra con la povertà. E abbiamo speso di più nelle armi che in libri e pane.
La scelta dell’Africa è chiara: produrre o perire. Comunque sia, l’importante è che noi non scegliamo ciecamente il minore tra i due mali – produrre quello che non possiamo consumare
o consumare quello che non possiamo produrre. Noi possiamo evitare questo. Il mio desiderio
è che per la fine del 21° secolo, nella “City” di New York, dei prodotti di alta fattura sfoggino
l’etichetta: “Made in Africa”.
Noi non possiamo guardare avanti al nostro futuro finché non impariamo dal nostro passato.
Cinquemila anni di storia documentata rivelano che la tecnologia è stata un dono dell’antica
Africa al mondo moderno. Quaranta secoli e mezzo fa, nella regione africana della Valle del
Nilo, geometri disegnavano la Grande Piramide di Giza, l’ultima delle Sette Meraviglie del
mondo antico. Quella montagna fatta dall’uomo resta la più grande costruzione in pietra sulla
Terra. E’ un’icona dell’ingegneria, e testimonia come una volta l’Africa fosse la regione più
tecnologicamente avanzata del mondo.
E’ assolutamente necessario che l’Africa riacquisti la sua rilevanza tecnologica, cosa che le
consentirà di produrre quello che il mondo può consumare. Una volta fatto questo, l’Africa
potrà raccogliere i frutti del proprio lavoro. Quando l’Africa avrà riconquistato il suo prestigio
tecnologico, i leader mondiali la ricercheranno. E come una rinnovata foresta pluviale, l’Africa
rifiorirà.
Estratto da un discorso tenuto da Philip Emeagwali alla comunità africana a Valencia, Spagna,
l’11 Maggio 2008. L’intera trascrizione e il video sono pubblicati su emeagwali.com.
Philip Emeagwali è stato chiamato “un padre di internet” dalla CNN e dal TIME, e decantato
come “una delle più grandi menti dell’era informatica” dall’ex presidente degli Stati Uniti Bill
Clinton. Nel 1989 ha vinto il Gordon Bell Prize, il premio Nobel per il supercomputing.
Titolo originale: “Africa must produce or perish”
Fonte: http://onlinejournal.com/
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16.05.2008
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CINZIAB