DI GIULIETTO CHIESA
Da qui al 26 dicembre, giorno in cui la Corte Suprema dell’Ucraina ha fissato la ripetizione dell’elezione presidenziale molta acqua, come si usa dire, deve ancora scorrere sotto i ponti dello Dnepr e dello Dnestr. Cioè molte manovre si faranno per scongiurare quello che oggi appare come un’esito scontato: la vittoria più o meno schiacciante di Viktor Jushenko, colui che il “mondo libero” ha battezzato come l’eroe della democrazia e della libertà.
Naturalmente le cose sono parecchio più complicate e diverse da questa rappresentazione “arancione” della verità. La sostanza è che Leonid Kuchma, presidente per dieci anni, ha perduto il controllo della situazione e non è stato capace di costruirsi un successore, come invece seppe fare Boris Eltsin, che se ne sta relativamente al sicuro nelle sue dacie presidenziali, a quattro anni dalla sua uscita di scena. Come ha scritto, dopo settimane di insulsa retorica, perfino International Herald Tribune, ciò che si sta verificando in Ucraina “è una battaglia interna in cui gli ideali democratici c’entrano allo stesso livello della distribuzione del potere tra quelli che sono rimasti fedeli a Kuchma e quelli che gli si sono rivoltati contro”. Kuchma è stato peggio di Eltsin, il che dice tutto su di lui. Il suo sistema di potere è stato la corruzione più sfacciata. Tutti i suoi uomini, chi più chi meno, ne sono il prodotto. Viktor Jushenko, non meno degli altri, insieme alla sua pasionaria-miliardaria Julia Timoshenko. Vale anche per Viktor Janukovic, il premier vincente-perdente. Se Kuchma non è stato rovesciato prima, due anni fa, quando stava per essere travolto dagli scandali e perfino da accuse di assassinio, è perché ha trovato un salvagente: Vladimir Putin. Fino a quel momento aveva pencolato piuttosto verso occidente, l’Europa generosa di aiuti, la Nato che non aspettava occasione migliore.
Stati Uniti e Unione Europea, sotto forma di aiuti, di grants, di programmi culturali di ogni genere, mentre i capitali esteri arrivavano e compravano a prezzi stracciati pezzi di un paese che stava andando in pezzi (chiedi alla prima badante che incontri in una piazza italiana e sentirai la giusta descrizione) hanno aiutato, molto disinteressatamente, il trapasso lento e inesorabile di quel disgraziato paese verso la comunità euroatlantica. Kuchma, per garantirsi una pensione tranquilla, invece che a quadretti, aveva cercato l’ombra a stelle e strisce.
E, infatti, l’Ucraina è stato l’unico paese dell’area ex sovietica a mandare ben 1300 soldati a combattere a fianco dei marines. Ma Bush doveva essere distratto, mentre Putin non lo era. E’ così che Kuchma è passato dall’altra parte. Solo che l’altra parte, a sua volta, è arrivata tardi. Mosca non ha soldi per offrire grants ai professori di Kiev e di Leopoli, ma neanche a quelli di Dnepropetrovsk e Donetsk. A quanto pare il Cremlino incitò i suoi grandi monopolisti energetici a essere generosi verso gli amici ucraini, ma i pochi milioni di dollari di Gasprom, dei banchieri oligarchi russi, non potevano competere con le centinaia di milioni di dollari e di euro arrivati dall’altra parte, che adesso strilla all’ingerenza dall’esterno dopo avere ingerito per anni. Gruppi come Pora, fratello gemello di Otpor (Belgrado) sono stati finanziati per insegnare ai giovani ucraini i metodi della “rivoluzione”attuata con successo contro Milosevic.
I finanziamenti e gli aiuti erogati ai partiti e movimenti di opposizione, ai loro giornali, alle loro radio e tv “libere”, alle agenzie d’informazione, hanno fatto da spalla alle fondazioni di ricerca che aprivano ovunque le loro sedi, in omaggio “alla libertà ormai riconquistata dopo l’abbattimento della dittatura comunista”. E poiché a Mosca erano al potere gli amici degli amici, nessuno aveva avuto niente da ridire. Fino a che Putin non ha messo a fuoco la sua strategia di riesumazione della Grande Russia. Ma era tardi. Non s’improvvisa un candidato dopo tanto disastro.
Gli “osservatori” dell’Osce hanno deciso che le elezioni erano state falsificate. Il che è esatto. L’unico appunto che si può muovere loro è che non sempre hanno “osservato” con uguale sollecitudine. Chi scrive, per esempio, li ha visti a Mosca molto “distratti”, più volte, specificamente nel referendum costituzionale del 1993 (ma non solo). Putin pensava di avere messo a posto sulla scacchiera la sua pedina più importante, e non si è reso conto che l’occidente gli aveva già sottratto la scacchiera. Il problema, adesso, è che Putin, senza l’Ucraina, vede crollare il suo disegno strategico, l’unico che abbia avuto e al quale ha sacrificato tutto in questi anni: ricomporre alcuni pezzi del grande mosaico della Russia imperiale e dell’Unione Sovietica (senza soviet).
Senza l’Ucraina non avrà alcun senso mettere insieme Russia, Bielorussia, Kazakhstan e Armenia. Strategicamente la Nato entrerà nella pancia russa come un coltello caldo nel burro. E’ per questo che il Cremlino non può semplicemente arrendersi a un risultato elettorale che vede sconfitto il suo candidato. Non lo farà. Il problema è cosa può fare e fino a che punto può tenere tesa la corda. Il fatto evidente è che in Ucraina si sta consumando l’ultima tappa, in ordine di tempo, della demolizione della Russia come potenza mondiale. Cioè il progetto che il polacco Zbignew Brzezinski (espressione sintetica delle élites statunitensi) enucleò fin dal 1987 su Foreign Affairs.
A prima vista era il disegno di liquidare l’URSS, come sistema sociale, ma nel doppio fondo c’era l’obiettivo di liquidare la Russia, vista come potenziale bastione da cui avrebbe potuto, più avanti nel XXI secolo, partire una contr’offensiva contro l’Impero che si andava già affermando. Nei tredici anni successivi al crollo sovietico del 1991 il lavorio incessante di erosione, di logoramento del colosso eurasiatico è andato avanti con la conquista dell’intera Europa dell’Est, l’allargamento della Nato, lo schiacciamento della Serbia, l’inclusione nell’UE e nella Nato delle repubbliche baltiche e, più a est, la sottrazione alla Russia dell’area d’influenza nell’Asia Centrale, fino alla recente “conquista” americana della Georgia.
A tutto ciò va aggiunta la guerra di cecenia, emblema a un tempo della incapacità delle élites russe post comuniste di comprendere il disegno dell’Impero e della loro totale indifferenza ai destini del proprio popolo e della propria nazione. E su questo ha giocato la inesorabile determinazione con cui , dall’esterno, si è lavorato per gettare benzina sui falò e costringere la Russia sulla difensiva, oltre che a tenerla permanentemente sul banco degli accusati. Tutto questo in nome degli ideali di libertà, democrazia, diritti umani. Un mix tanto più irresistibile se confrontato, appunto, con le mostruosità della guerra di Cecenia e con la desolante caduta dei tenori di vita di quelle popolazioni, guidate da dirigenti corrotti, incapaci, da élites compradore dedite esclusivamente ai propri loschi affari e all’esportazione delle ricchezze illegalmente acquisite.
I tentativi di Putin, tardi e maldestri, non potevano rappresentare in alcun modo un punto di attrazione. I suoi modelli economico e politico sono del tutto privi di appeal: il primo incapace di risollevare le condizioni della popolazione, il secondo inclinato verso una deriva autoritario-burocratica e corrotta.
In sintesi il Cremlino appare costretto a una nuova ritirata strategica. L’Ucraina è perduta, e potrebbe essere la Beresina di Putin. Resta da vedere quanto tempo intercorrerà tra il 26 dicembre 2004 e l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. E quale sarà la trincea da cui Putin comincerà – se sarà ancora in condizione di farlo – la nuova Guerra Fredda con l’Occidente.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.giuliettochiesa.it
13.13.04