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La Redazione

 

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LA SACRALITA' DEL LAVORO

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A cura di Davide
Il 28 Gennaio 2005
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DI VANDANA SHIVA

Il 5 dicembre 2004, mi è stato conferito il premio Basavashree, quale riconoscimento per il mio apporto all’umanità e alla natura attraverso la ricerca, l’attivismo e i movimenti.

Il premio Basavashree viene attribuito a chi devolve il proprio libero contributo all’umanità per la creazione di una società egualitaria, ideale sposato da Basaveswara, un santo del XII secolo dello Stato indiano di Karnataka, che si rivoltò contro la tirannia delle discriminazioni di casta, di credo e di genere.

Basaveswara era un Santo la cui spiritualità si fondava su di una riforma sociale basata sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Rifiutava la distinzione tra uomo e uomo e tra uomo e donna al di là delle diverse vocazioni e dell’appartenenza a caste e religioni differenti. Al cuore della sua filosofia spirituale per la giustizia sociale si collocano due categorie: “Kayaka” (la sacralità del lavoro) e “Dasoha” (la sacralità della donazione e della condivisione). Secondo Basava, “fare un buon lavoro è celestiale” e “non può esistere nulla di più sacro del lavoro”. Strettamente connessa con la sacralità del lavoro è la sacralità della condivisione. I doni ricevuti dalla società attraverso il lavoro vanno condivisi. L’accaparramento e l’accumulo erano peccati, secondo la filosofia di Basava. La spiritualità di Basava offre dunque un’alternativa sia all’oppressione della religione istituzionalizzata sotto forma di discriminazione di casta, sia all’oppressione del capitalismo che svaluta e degrada il lavoro manuale, celebrando e premiando l’accumulo di capitali. I devoti di Basava provenivano da ogni estrazione sociale, erano ricchi e poveri, di caste “alte” e “basse”, colti e incolti. La gerarchia di casta e di genere era inaccettabile per Basava.

Tuttavia, Basava ammetteva che era impossibile raggiungere l’uguaglianza sociale senza l’uguaglianza economica. In tal senso, le categorie Kayaka e Dasoha erano i due pilastri della giustizia e della democrazia dal punto di vista economico. Letteralmente, “Kayaka” significa “lavoro manuale”, o comunque svolto con fatica fisica, e racchiude in sé i principi di dignità dell’uomo e del lavoro manuale, nonché il carattere divino del lavoro.

Tali principi sono infranti sia dall’antico sistema delle caste, parte dell’ortodossia religiosa, sia dal nuovo sistema di caste che viene a crearsi con la globalizzazione capitalista. Le istituzioni finanziarie e le grandi aziende del mercato globale sono i bramini di oggi. Gli operai di ogni nazione sono i sudra e i dalit. Chi non lavora, accumula ricchezza. Chi lavora, diviene invece sempre più povero. In India, sedicimila contadini sono morti nel 2004 perché un sistema economico globalizzato deprezza il loro lavoro e crea opportunità di mercato per l’industria agroalimentare che vende sementi e fertilizzanti costosi, per poi acquistare i prodotti dagli agricoltori a basso prezzo. Il commercio globale è caratterizzato da prezzi falsati che non riflettono né il valore del lavoro, né quello delle risorse. La polarizzazione economica e la devastazione ecologica sono un’inevitabile conseguenza di un sistema economico basato su prezzi falsati e sulla svalutazione del lavoro delle persone e dei doni della natura. Secondo Basaveswara, è un grave peccato vendere o comprare un articolo a un prezzo ingiusto. Gli alimenti immessi sul mercato da un’agricoltura globalizzata e industrializzata sono a basso prezzo perché non viene riconosciuto il valore del lavoro degli agricoltori e delle ricchezze naturali. La globalizzazione, fondata su prezzi ingiusti, è dunque un sistema peccaminoso e noi abbiamo il dovere spirituale di creare alternative eque fondate sulla creatività di ogni individuo e sul valore intrinseco dell’espressione creativa di ognuno nel lavoro manuale.

La sacralità del lavoro diviene una forza rivoluzionaria in un periodo in cui il sistema economico globale si basa sulla fine del lavoro. Attualmente, la categoria Kayaka può creare nuove energie per porre fine alla disoccupazione e alla disuguaglianza. Tuttavia, come afferma il Prof. Basavaraja nel suo libro dal titolo “Basavesvara”, “Kayaka” non significa solo vocazione a guadagnarsi da vivere. È ovvio che ognuno deve seguire una vocazione nella propria esistenza: nessuno deve vivere del lavoro degli altri, comportandosi da parassita. La vocazione seguita da una persona non deve però essere nociva per la società, ma corrispondere alle esigenze della società stessa. Il rendimento del lavoro non va riservato esclusivamente per sé stessi, ma deve accordarsi con le esigenze della società, in base al principio per cui ognuno deve lavorare secondo le proprie capacità e ricavare secondo i propri bisogni. Ne consegue che l’egoismo deve sparire e lasciare spazio a una consapevolezza globale. Il lavoro svolto con questo assoluto distacco diventerà “Kayaka”, cioè sacro.

La Kayaka rappresenta quindi una categoria sia spirituale, sia di giustizia sociale, sia ecologica e per uno sviluppo sostenibile. “La ricchezza senza lavoro” era anche uno dei sette peccati sociali, secondo Gandhi. Stabilire il principio della sacralità del lavoro può costituire una forza rivoluzionaria per i nostri tempi, proprio come nove secoli fa, all’epoca di Basavana, per creare una società giusta e sostenibile che rafforzi la dignità umana e ne espanda il potenziale.

Il diritto-dovere al lavoro creativo infatti non è solo di natura economica, è non è solo un diritto umano: è soprattutto un dovere di natura spirituale. Ecco perché la globalizzazione capitalista, creando disoccupazione, non indulge soltanto alla disuguaglianza economica, ma anche a un ordine peccaminoso. L’imperativo spirituale richiede un’economia in cui ogni mente e ogni mano possano esprimere appieno le loro potenzialità creative.

Gandhi ha scritto una costituzione economica, basata sull’idea per cui una società giusta e realmente umana non può esistere se viene negato il diritto al lavoro.

Secondo me, la costituzione economica dell’India, così come quella del resto del mondo, dovrebbe far sì che nessuno soffra per mancanza di cibo o di vestiario. In altre parole, tutti dovrebbero avere abbastanza lavoro per vivere degnamente, e questo ideale può essere realizzato universalmente solo se i mezzi di produzione destinati alle necessità umane fondamentali rimarranno sotto il controllo delle masse. Questi mezzi dovrebbero essere disponibili a tutti, così come l’aria e l’acqua, doni di Dio, lo sono o quantomeno dovrebbero esserlo: non devono rappresentare un mezzo per lo sfruttamento altrui. Il monopolio dei mezzi di produzione, operato da una nazione o da un gruppo di persone, deve essere considerato ingiusto. Il rifiuto di questo principio elementare è la causa della povertà a cui assistiamo oggigiorno, non solo in questa nazione infelice, ma anche in altre parti del mondo.

Vandana Shiva
Fonte:www.liberazione.it
28.01.05

Traduzione di Sabrina Fusari 

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