LA RICORRENZA DEL 25 APRILE E LE PIE BANALITA’ SULLA “MEMORIA CONDIVISA”

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DI FRANCESCO LAMENDOLA
Arianna editrice

Se non vivessimo in un Paese la cui classe dirigente ha fatto della furbizia da quattro soldi e dell’ipocrisia più spudorata il suo abito mentale permanente, potremmo anche guardare ai sempre più frequenti sermoni sulla necessità di addivenire a una «memoria condivisa» del 25 aprile in termini di un volonteroso, anche se patetico, sforzo di riconciliazione. Ma nella Repubblica della menzogna eretta a sistema e del calcolo politico sistematico, ove tutto è in vendita e tutto si riduce al gioco delle fazioni per accaparrarsi quante più poltrone possibile, «a pensare male – come diceva Andreotti – si fa certamente un peccato, ma ci si azzecca quasi sempre» (parola di uno che se ne intendeva, e se ne intende tuttora, parecchio).

Dunque: si invoca una memoria condivisa, affinché il 25 aprile non sia più un giorno di divisione, non sia più il segno clamoroso di un passato che non passa e l’ostentazione della vittoria di una parte politica su un’altra parte politica; ma un giorno di comprensione e, se possibile, di riconciliazione.
Belle parole, senza dubbio.
Ma sono tutte balle.


Per la sinistra, le pie omelie sulla memoria condivisa sono il tentativo di giungere a una pace ideologica di compromesso, dopo che il crollo del muro di Berlino le ha dato la spiacevole sensazione di essersi venuta a trovare dalla parte sbagliata della barricata; mentre il vento del ’68 -protrattosi per buona parte degli anni Settanta – le aveva dato l’inebriante illusione di essere, per l’appunto, dalla parte giusta (e prossima vincitrice), e che sarebbe bastato aspettare un altro poco per raccogliere il frutto maturo della disgregazione della borghesia.

Per la destra, si tratta di sdoganare definitivamente il proprio passato fascista, anche nei libri di storia, dopo che già vi è riuscita nelle due aule del Parlamento; anche se al prezzo – invero un po’ salato – di mostrarsi ogni giorno più realista del re, ad es. più filo-sionista degli stessi americani, come quando l’onorevole Fini, con lo zucchetto ebraico in testa, si è recato prima alla sinagoga di Roma, poi a Gerusalemme, per deplorare la politica razziale del Fascio.

Per il centro – perché sia chiaro che il centro esiste tuttora, alla faccia del preteso bipolarismo “alla anglosassone”, e ancora decide le sorti politiche del Paese, anche se è frazionato, per ragioni strategiche, su entrambi i versanti in lotta (si fa per dire) – si tratta di ricordare agli Italiani, popolo notoriamente dalla memoria corta, che “loro lo avevano sempre detto” che fascismo e comunismo sono due estremismi uguali e contrari; e che, quindi, dalla parte giusta della Storia, erano sempre stati solo loro: gli esponenti e gli ineffabili eredi della Democrazia Cristiana.

Tutti accomunati dalla stessa demagogia, dalla stessa furbizia e dalla stessa ipocrisia.
A nessuno importa un fico secco, in realtà, della pacificazione nazionale, tanto è vero che non si lasciano sfuggire mai il minimo pretesto per rinfocolare le diffidenze, le divisioni e gli odii; non c’è fattaccio di cronaca (ad es. lo stupro di una donna italiana da parte di qualche immigrato), non c’è emergenza, fatalità, frana, terremoto, siccità o alluvione che non tornino buoni per andare a caccia di un miserabile pugno di voti, dalle elezioni politiche a quelle amministrative, aizzando animosità mai sopite e inimicizie mai ricomposte, con diabolica astuzia e con una tenacia e perseveranza degne davvero di miglior causa.
E a nessuno di quei signori importa della pacificazione nazionale, per il semplice fatto che non solo l’ideologia, ma anche la politica sono entrambe morte e sepolte, e tutto quello che resta, in un paesaggio di macerie popolato ormai soltanto dagli orribili mostri della speculazione edilizia tirati su da palazzinari impenitenti, è una corsa scomposta al potere per il potere, agli affari per gli affari, al denaro per il denaro; il tutto condito dalla pratica sistematica della corruzione, della cialtroneria, del totale disprezzo non solo della legalità, ma anche del pudore.
A chi volete che importi se, il 25 aprile del 1945, vinse la parte “giusta” oppure quella “sbagliata”? Questioni da lasciare agli storici di professione, questioni tanto sottili quanto astratte e lontane: quel che conta sono gli affari o, come diceva il buon re Luigi Filippo d’Orléans, quel che conta è arricchitevi!, e al diavolo tutto il resto.

Perciò, lasciamo le lacrimose omelie sulla memoria condivisa ai ciurmatori della peggiore demagogia oggi imperante; e, semmai, dedichiamo una riflessione alla possibilità di una memoria condivisa come problema civile, culturale e morale del popolo italiano, lontano dalle ignobili strumentalizzazioni dei politici di mestiere.
E, per farlo, sgombriamo il campo dalle versioni di comodo della nostra storia recente, ristabilendo alcune semplici, anche se sgradevoli, verità.

Punto primo: il 25 aprile non c’è stata alcuna Liberazione.
Infatti, tutti gli storici seri ammettono che, senza la sconfitta militare dell’Asse, la Resistenza non solo non avrebbe vinto, ma neppure sarebbe incominciata. La resistenza è incominciata dopo l’8 settembre 1943, ossia dopo l’armistizio di Badoglio con gli Anglo-americani; e quell’armistizio è stato il punto d’arrivo del complotto del 25-26 luglio precedente. Checché se ne dica, il fascismo è caduto per un suicidio del suo gruppo dirigente e, in seconda battuta, per un colpo di Stato della monarchia, d’accordo con la massoneria, la chiesa e i grandi industriali (questi ultimi terrorizzati dal progetto di Mussolini di nazionalizzare le loro aziende): le tre forze che, ancora oggi, più contano nel Bel Paese.
Se gli eserciti anglo-americani – autoqualificatisi “liberatori”- non avessero risalito per due anni la Penisola, cospargendola di macerie, da Montecassino a Treviso e alla martire Zara, fino a raggiungere, nell’aprile del 1945, la valle del Po, non ci sarebbe stata nessuna Liberazione. E con ciò non intendiamo negare valore morale all’azione di quanti, nella resistenza, si batterono per nobili ideali di libertà e di giustizia, ma semplicemente riportare le cose alle loro giuste proporzioni. Niente sbarco alleato in Sicilia nel luglio 1943, niente complotto reazionario e monarchico contro Mussolini; niente governo Badoglio, niente resistenza e niente aiuti alleati alla resistenza; niente forzamento della Linea Gustav prima, della Linea Gotica poi, niente Liberazione e niente festa del 25 aprile.
Questo è poco ma sicuro.

Punto secondo: i vincitori – esterni e interni – avevano bisogno di una sanzione morale che stabilisse, una volta per tutte, che essi avevano combattuto dalla parte giusta, gli “altri” da quella sbagliata. I vincitori esterni cercarono quella sanzione nei processi di Tokyo e di Norimberga e nella commemorazione annuale del D-Day, ossia dello sbarco in Normandia. I vincitori interni – vincitori in sottordine – la cercarono in una solenne ricorrenza civile.
Così è nato il 25 aprile.
Ovvio che, per realizzare una simile operazione, bisognava avvalorare la Vulgata secondo la quale tutti i buoni erano stati da una parte, e tutti i cattivi dall’altra; e che il bene, alla fine, aveva trionfato sul male, anzi sul Male Assoluto.
Perciò, proibito parlare di episodi come il massacro di Porzûs; proibito parlare degli infoibamenti da parte dei titini; proibito parlare della strategia politica dei bombardamenti aerei alleati, e, in particolare, della totale distruzione di Zara; proibito parlare dei massacri di fascisti avvenuti dopo il 25 aprile 1945; proibito parlare del dramma dei 350.000 profughi della Venezia Giulia, costretti a fuggire senza nulla poter portare con sé.
Proibito anche domandarsi se azioni partigiane come quella di Via Rasella, fatte in modo da esporre la popolazione civile alle inevitabili rappresaglie tedesche, fossero realmente giustificate, sia sotto il profilo militare, sia sotto quello morale.

Punto terzo: all’interno della resistenza convissero, si sovrapposero e, a volte, si scontrarono (anche fisicamente) anime, strategie e finalità talmente differenziate, che la comune scelta di campo antifascista non basta certo a far parlare di un unico fenomeno resistenziale. E il nucleo più forte e combattivo di essa, ossia il Partito Comunista Italiano, cercava essenzialmente un regolamento di conti col fascismo, dopo le vicende del 1919-25: non per instaurare un regime democratico, ma per fare quel che i bolscevichi avevano fatto in Russia nel 1917, e che esso medesimo aveva sperato di fare nel “biennio rosso”.
Se fosse dipeso soltanto dalla volontà di Togliatti, e se i carri amati dell’Armata Rossa fossero arrivati a Trieste, Milano e Torino prima di quelli anglo-americani, l’Italia sarebbe semplicemente passata da una dittatura a un’altra. E, a proposito di Trieste, gli abitanti di quella città – occupata e terrorizzata per 40 giorni dalle soldatesche comuniste di Tito – sanno bene di che cosa stiamo parlando; Trieste che solo nel 1954, e a prezzo della perdita di altre terre sicuramente italiane, ha potuto tornare alla madrepatria.

Questo, dal punto di vista storico.
Resta da vedere se si possa immaginare una «condivisione della memoria» del 25 aprile sotto il profilo morale.
Ora, se quella del 1943-45 fu – come ormai tutti gli storici onesti riconoscono – una vera e propria guerra civile; e se gli eserciti anglo-americani non erano dei “liberatori”, ma semplicemente degli occupanti (come tanti altri che li avevano preceduti nella storia italiana, e tutti chiamati da qualche fazione in lotta contro i propri avversari interni), ebbene, allora è evidente che non ci potrà mai essere una memoria condivisa, perché le guerre civili non nascono dal nulla e perché gli eserciti di occupazione – e non di liberazione – sono tutti, sempre, espressione dei “cattivi” e non dei “buoni”: ossia di interessi stranieri che mirano a mettere in ginocchio, materialmente e moralmente, e il più a lungo possibile, il Paese occupato.
Tanto è vero che, nella conferenza di pace di Parigi del 1947, l’Italia è stata trattata dai suoi generosi “alleati” né più, né meno che come un Paese nemico e sconfitto: e, come rappresentanti di un Paese nemico e sconfitto, i nostri delegati hanno dovuto firmare i trattati che vennero loro imposti, senza alcuna possibilità di discuterne i contenuti.
Viene in mente una frase significativa, pronunciata a Udine, nell’immediato dopoguerra, dal famoso predicatore padre Lombardi (animatore del movimento Mondo Nuovo), davanti a una enorme folla di pubblico, uomini e donne esausti dalle sofferenze della seconda guerra mondiale: «Li abbiamo chiamati liberatori; li abbiamo chiamati amici; erano, tutti, nemici».

Tutti nemici; tutti cattivi: si dirà che questo è qualunquismo.
Molto bene,
E allora, vogliamo ricordare che Churchill volle la guerra, molto più di Hitler, perché non gli andava giù il fatto di aver dovuto rinunciare a bombardare la Germania dal cielo nel 1919, essendo finito troppo presto il primo conflitto mondiale; e che poté sfogare tale sadico istinto nel 1944-45, quando ridusse in cenere, una dopo l’altra, le città tedesche, a partire dalle più indifese e prive di valore strategico, come Dresda?
Vogliamo ricordare, poi, che Roosevelt volle la guerra, molto più del Tripartito, perché il tanto decantato New Deal (leggenda dura a morire) era stato, in realtà, un clamoroso fallimento, e solo una guerra di proporzioni mondiali – come già era accaduto venti anni prima, con Woodrow Wilson – avrebbe potuto ridare fiato all’economia americana?
E vogliamo, infine, ricordare che il macellaio Stalin, artefice della morte di forse 8 milioni di cittadini sovietici negli anni Trenta – con la collettivizzazione forzata delle campagne e con le Grandi Purghe – era amico e alleato di Hitler dall’agosto 1939; e che, forte di quella alleanza, attaccò e invase la Polonia, i Paesi Baltici, la Romania, la Finlandia, senza che le democrazie occidentali trovassero nulla da ridire o da eccepire; mentre, per la sola invasione della Polonia, esse dichiararono guerra alla Germania nel giro di quarantott’ore?

Questo, sul piano etico-politico generale.
Sul piano della coscienza morale individuale, il discorso della «memoria condivisa» è ancora più impraticabile, per non dire assurdo.
Lo ripetiamo: quella del 1943-45 fu una guerra civile.
Come si può pretendere una condivisione della memoria da parte di coloro che ebbero i genitori o i nonni uccisi, non di rado crudelmente e fuori di ogni contesto di legalità (come nel caso dei massacri avvenuti dopo la fine “ufficiale” della seconda guerra mondiale), sia dall’una che dall’altra parte?
E come negare che da entrambe le parti vi furono sublimi episodi di eroismo e nobili motivazioni; così come, da entrambe le parti, feroci regolamenti di conti, malvagità gratuite e basse ragioni di tornaconto personale?

Per favore: un po’ di onestà intellettuale.
Nessuna delle due parti può pretendere il monopolio della giustizia. Spetta agli storici spiegare come accadde che tanti italiani, pur amanti del proprio Paese, abbiano fatto una scelta opposta e si siano combattuti spietatamente a vicenda; ma questa è la verità dei fatti. Dura, contraddittoria, amara: senza sconti per nessuno.
L’unica cosa che gli Italiani, oggi, potrebbero e dovrebbero condividere, non è «la memoria», espressione generica e dolciastra che tradisce una intollerabile ipocrisia di fondo, ma il riconoscimento della coerenza e della dignità di quanti, da una parte e dall’altra, credettero di servire la propria patria e anche valori universali come l’onore, la fedeltà, il cameratismo (da una parte), la libertà, la giustizia, la volontà di giungere alla pace (dall’altra).
Non si può chiedere di più, umanamente, a quanti hanno perduto amici e parenti in una guerra fratricida, contrassegnata – per definizione – da atti che poco avevano a che fare con i nobili ideali proclamati a parole.

Ecco, questa potrebbe essere la memoria condivisa: non – per dirla con Hegel – una grande notte, dove tutte le vacche appaiono nere; ma il rifiuto delle ragioni dell’odio, della faziosità politica camuffata da amor di Patria, della violenza abbellita da una retorica pomposa.
Solo così, forse, i morti potranno trovare pace. E solo così noi potremo udire ancora la loro voce – come scrive il poeta Ungaretti in Non gridate più – e «sperare di non perire».

Altrimenti, lasciamoli in pace, quei morti.
Cercare di strumentalizzarli ancora, e sia pure in una nuova forma, a oltre sessant’anni di distanza, è l’operazione più lugubre e squallida che si possa immaginare.

Francesco Lamendola
Fonte: www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=18636
27.04.08

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