LA POVERT, LA GIUSTIZIA DEL COMMERCIO GLOBALE E LE RADICI DEL TERRORISMO

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blankDI JOHN PERKINS
YES! Magazine

Il brano che segue è tratto da “Hoodwinked: un economista di successo rivela perché i mercati finanziari mondiali sono implosi, e cosa dobbiamo fare per ricostruirli”. Random House, 2009.


“Domenica, i cecchini dei Navy Seal hanno tratto in salvo un capitano illeso di una nave cargo americana e hanno ucciso tre pirati somali in un’ardita operazione nell’Oceano Indiano, mettendo fine a una situazione di stallo che durava da cinque giorni tra le forze navali degli Stati Uniti e una piccola banda di briganti in giubbotti di salvataggio arancione al largo del Corno d’Africa”.

Il New York Times ha pubblicato questo articolo nell’aprile del 2009. Le stesse parole “pirati”, “operazione ardita”, “stallo” e “briganti” erano tipiche dei media americani; hanno fatto sembrare come se gli odiati cowboy bianchi avessero cavalcato in soccorso di una città assediata da Billy the Kid e la sua banda. Avendo vissuto in quella parte del mondo come sicario dell’economia, sapevo che c’era un altro lato di ciò che era accaduto. Mi chiedevo perché nessuno si domandava nulla in merito alle cause della pirateria.Ho ricordato le mie visite al popolo Bugi, quando sono stato inviato nell’isola indonesiana di Sulawesi nei primi anni ’70. I Bugi erano stati pirati infami sin dai tempi delle Società delle Indie Orientali nel 1600 e 1700. La loro ferocia aveva ispirato i marinai europei ritornati per disciplinare i loro figli disobbedienti con le minacce “l’uomo bugi ti si piglia”. Nel 1970, abbiamo temuto che avrebbero attaccato le nostre petroliere mentre passavano attraverso il vitale Stretto di Malacca.

Un pomeriggio, mi sedetti con uno dei loro anziani sulla riva sulawese. Guardavamo la sua gente costruire un galeone a vela, chiamato aprahu, proprio come aveva fatto per secoli. Come una gigantesca balena arenata, era alto e asciutto, sostenuto verticalmente da una fila di pali nodosi che sembravano radici che spuntavano dallo scafo. Dozzine di uomini si attivavano intorno ad esso, lavorando d’ asce, d’accette e trapani a mano. Gli ho espresso le preoccupazioni del mio governo, facendo capire che ci sarebbero state ritorsioni se le vie del petrolio venivano minacciate.

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[Il recente libro di J. Perkins, a sinistra, e, a destra, il suo maggiore successo, tradotto in Italia col titolo “Confessioni di un sicario dell’economia”]

Il vecchio mi guardò. “Non eravamo pirati ai vecchi tempi”, disse, i suoi folti capelli bianchi andavano su e giù sdegnosamente. “Abbiamo solo combattuto per difendere la nostra terra contro gli europei che sono venuti a rubare le nostro spezie. Se oggi attacchiamo le vostre navi, è perché ci portano via il commercio; le vostre ‘navi puzzolenti’ inquinano le nostre acque col petrolio, distruggendo i nostri pesci e facendo morire di fame i nostri bambini”. Poi si strinse nelle spalle. “Ora, siamo in perdita”. Il suo sorriso era disarmante. “Come può una manciata di persone a bordo di navi a vela in legno combattere i sottomarini americani, gli aerei, le bombe e i missili?”

Pochi giorni dopo il salvataggio, il Times ha pubblicato un editoriale dal titolo “Lotta alla pirateria in Somalia”, che concludeva:


Ancora lasciata a se stessa, la Somalia può solo diventare più nociva, diffondendo la violenza ai propri vicini dell’Africa orientale, generando più estremismo e rendendo la navigazione nel Golfo di Aden sempre più pericolosa e costosa. Vari sono gli approcci in discussione, come cercare attraverso i potenti clan della Somalia di ricostituire prima le istituzioni locali e poi quelle regionali e nazionali. Queste soluzioni devono essere urgentemente considerate.

Da nessuna parte il Times – o uno qualsiasi degli altri media che ho letto, sentito o visto – ha fatto il tentativo di analizzare le radici del problema in Somalia. I dibattiti sull’opportunità di armare gli equipaggi delle navi e inviare più navi da guerra nella regione, abbondano. C’è stato quel vago riferimento alla ricostituzione di istituzioni regionali e nazionali, ma che cosa esattamente l’autore intende dire? Istituzioni che sarebbero davvero di aiuto, come ospedali pubblici, scuole e mense per i poveri? O milizie locali, prigioni e forze di polizia stile Gestapo?

I pirati erano pescatori la cui sussistenza era stata distrutta. Erano padri i cui figli avevano fame. Far cessare la pirateria significherebbe aiutarli a vivere in modo sostenibile, dando dignità alle loro vite. Potrebbero i giornalisti non capire questo? Qualcuno di loro ha visitato la baraccopoli di Mogadiscio?

Infine, l’edizione del mattino dell’NPR del 6 maggio ha trasmesso un rapporto di Gwen Thompkins; ella ha intervistato un pirata che andava sotto il nome Abshir Abdullahi Abdi. “Abbiamo capito che quello che stiamo facendo è sbagliato”, ha spiegato Abdi. “Ma la fame è più importante di qualsiasi altra cosa”.

Thompkins ha commentato: “I villaggi dei pescatori della zona sono stati devastati da pescherecci da traino clandestini e dallo scarico di rifiuti da parte delle nazioni industrializzate. Le barriere coralline, secondo quanto si dice, sono morte. Aragosta e tonno sono scomparsi. La malnutrizione è alta”.

Si potrebbe pensare che avessimo imparato dal Vietnam, l’Iraq, l’incidente del “Black Hawk Down” in Somalia nel 1993 e da altre incursioni simili, che le risposte militari raramente scoraggiano le insurrezioni. In realtà, spesso fanno il contrario; l’intervento straniero potrebbe far infuriare le popolazioni locali, motivarle a sostenere i ribelli e il risultato è un’escalation di attività di resistenza. Questo fu quello che successe durante la Rivoluzione Americana, le guerre in America Latina per l’indipendenza dalla Spagna, e nell’Africa coloniale, in Indocina, nell’Afghanistan occupato dai sovietici e in tanti altri luoghi.

Incolpare i pirati e altre persone disperate per i nostri problemi è una distrazione che non possiamo permetterci se vogliamo davvero trovare una soluzione alla crisi che dobbiamo affrontare. Questi incidenti sono i sintomi del fallimento del nostro modello economico. Essi sono, per la nostra società, l’equivalente di un attacco di cuore per una persona. Mandiamo i Navy Seals a salvare gli ostaggi come consentiremmo ai medici di eseguire un by-pass coronarico. Ma è indispensabile riconoscere che entrambe sono reazioni a un problema di fondo. In primo luogo, il paziente ha bisogno di capire le ragioni per cui il suo cuore si è guastato, come il fumo, la dieta e la mancanza di esercizio fisico. Lo stesso vale per la pirateria e tutte le forme di terrorismo.

Il futuro dei nostri figli è intrecciato con il futuro dei bambini nati nei villaggi di pescatori della Somalia, le montagne della Birmania (Myanmar) e le giungle della Colombia. Quando dimentichiamo questo, quando consideriamo quei bambini distanti, come un qualcosa di scollegato dalle nostre vite, o solo come i discendenti di pirati, di guerriglieri o corrieri della droga, puntiamo la pistola alla nostra stessa progenie, come pure a padri disperati e a madri in terre che sembrano così lontane, ma in realtà sono i nostri vicini della porta accanto.

Ogni volta che leggo sulle azioni adottate per proteggerci dai cosiddetti terroristi, devo stupirmi della ristrettezza di vedute della nostra strategia. Anche se ho incontrato gente simile in Bolivia, Ecuador, Egitto, Guatemala, Indonesia, Iran e Nicaragua, non ne ho mai incontrato uno che volesse davvero imbracciare un fucile. So che ci sono uomini e donne impazzite che uccidono perché non riescono a controllarsi, serial killer e assassini di massa. Sono certo che i membri di Al Qaeda, dei talebani e altri gruppi del genere sono guidati dal fanatismo, ma tali estremisti sono in grado di reclutare un numero considerevole di seguaci solo da gruppi di persone che si sentono oppressi o indigenti. I “terroristi” che ho trovato nelle grotte andine e nei villaggi del deserto sono persone le cui famiglie furono scacciate dalle società petrolifere, dalle dighe idroelettriche o dagli accordi del “libero commercio”, i cui figli muoiono di fame, e che non vogliono niente di più che tornare alle loro famiglie con cibo, sementi e accesso a terre che possano coltivare.

In Messico, molti dei guerriglieri e narcotrafficanti una volta possedevano fattorie in cui coltivavano mais. Hanno perso i loro mezzi di sussistenza quando il North American Free Trade Agreement (NAFTA) ha dato ai produttori statunitensi un vantaggio sleale sui prezzi. Ecco come l’Organic Consumers Organization, un’organizzazione no-profit che rappresenta oltre 850.000 soci, iscritti e volontari, lo descrive:


Da quando il NAFTA è entrato in vigore il 1° gennaio 1994, le esportazioni di mais degli Stati Uniti al Messico sono quasi raddoppiate a circa 6 milioni di tonnellate nel 2002. NAFTA ha eliminato le quote che limitano le importazioni di mais. . . . ma ha continuato a permettere agli Stati Uniti di sussidiare la propria produzione per rimanere competitiva sul mercato del mais messicano, essendo il costo di produzione americano minore di quello messicano . . . Il prezzo pagato agli agricoltori per il mais in Messico è sceso di oltre il 70 per cento. . .

Il passaggio di cui sopra espone il lato oscuro delle politiche del “libero commercio”. I Presidenti degli Stati Uniti e il nostro Congresso hanno applicato norme che vietavano agli altri paesi di imporre le tariffe sui prodotti americani o di sovvenzionare prodotti locali che potrebbero competere con la nostra industria agro-alimentare, mentre a noi permette di mantenere le nostre barriere d’importazione e sovvenzioni, dando così alle aziende americane un vantaggio sleale. Il “libero commercio” è un eufemismo; esso vieta agli altri di usufruire dei vantaggi offerti alle multinazionali. Non disciplina, però, l’inquinamento che sta sciogliendo i ghiacciai, l’accaparramento di terre e lo sfruttamento.

Padre Miguel d’ Escoto Brockmann, un sacerdote nicaraguense che assisteva la guerriglia sandinista ed è ora presidente dell’ Assemblea Generale dell’ONU, ha un apprezzamento diretto per tali eufemismi e il potere delle parole usato per influenzare le percezioni del pubblico. “Il terrorismo non è davvero un ‘ismo’”, mi disse. “Non c’è alcun legame tra i sandinisti che hanno combattuto i Contras e Al Qaeda, o tra la FARC colombiana e i pescatori diventati pirati in Africa e in Asia. Eppure sono tutti chiamati ‘terroristi.’ Questo è solo un modo comodo per il vostro governo di convincere il mondo che c’è un altro nemico ‘ismo’ là fuori, come lo era il comunismo. Esso distoglie l’attenzione dai problemi reali”.

La nostra mentalità ristretta e le politiche che ne conseguono fomentano la violenza, le ribellioni e le guerre. A lungo termine, quasi nessuno trae beneficio dall’attaccare le persone etichettate come “terroristi”. Con una sola eccezione eclatante: la corporatocrazia.

Coloro che possiedono e dirigono le imprese che costruiscono navi, missili e veicoli corazzati; che fanno cannoni, uniformi e giubbotti antiproiettile; che distribuiscono cibo, bevande analcoliche e munizioni; che forniscono assicurazioni, medicinali e carta igienica; che costruiscono porti, piste di atterraggio e alloggi; e ricostruiscono villaggi distrutti, fabbriche, scuole, ospedali – loro e solo loro, sono i grandi vincitori.

Il resto di noi sono ingannati da quell’unica, esagerata parola: terrorismo.

Il collasso economico attuale ha risvegliato in noi l’importanza di regolamentare e prevalere sulle persone che controllano le imprese che ricevono un vantaggio dall’abuso di parole come terrorismo e che commettono altre truffe. Ci rendiamo conto che oggi i colletti bianchi dirigenti non sono una speciale razza incorruttibile. Come il resto di noi, hanno bisogno di regole. Eppure non è sufficiente per noi ristabilire regole che separano le banche di investimento dalle banche commerciali e dalle compagnie di assicurazione, ripristinare le leggi anti-usura e imporre linee guida per garantire che i consumatori non siano gravati da un credito che non possono permettersi. Non possiamo semplicemente tornare a soluzioni che hanno funzionato prima. Solo con l’adozione di nuove strategie che promuovano a livello mondiale la responsabilità ambientale e sociale proteggeremo il futuro.

John Perkins ha adattato questo estratto di “Hoodwinked: un sicario dell’economia rivela perché i mercati finanziari mondiali sono implosi, e cosa dobbiamo fare per ricostruirli” per “YES! Magazine”, un’organizzazione informatica nazionale non-profit che combina idee potenti con azioni concrete. John è anche autore di “Confessioni di un sicario dell’economia”, “Il mondo è come tu lo sogni: Insegnamenti shamanistici del Rio delle Amazzoni e delle Ande”, e “Lo spirito del Shuar.

Titolo originale: “Poverty, Global Trade Justice, and the Roots of Terrorism

Fonte: http://www.yesmagazine.org
Link
15.11.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CONCETTA DI LORENZO

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