SOLLEVAZIONE (BLOG)
L’articolo che qui sotto pubblichiamo compare sull’edizione odierna de Il Sole 24 Ore. Non fatevi ingannare dal titolo. Gli economisti borghesi hanno il terrore al solo pronunciare la parola “proletariato”. Per essi è un tabù. Così essi lo annegano nell’indistinto ectoplasma della “classe media”. Ma basta graffiare un po’ la superficie per capire che stanno parlando anzitutto dei lavoratori salariati, non tanto dei bottegai. Fatta quest’operazione preliminare quest’articolo è davvero istruttivo, e lo è tanto più perché viene dal seno della classe dominante. Non lo “scontro di civiltà” la chiave di lettura del periodo storico in cui entriamo, ma quello tra classi sociali, sia in Occidente
che nei cosiddetti “emergenti”, Cina compresa. Giusta la simmetria: in Occidente il conflitto sarà causato dalla pauperizzazione generale, negli “emergenti” dalla richiesta di una distribuzione orizzontale
del sovrapprodotto.
«La teoria dello “scontro di
civiltà”, resa celebre da Samuel Huntington, afferma che – una
volta esaurito il confronto ideologico tra comunismo e capitalismo –
i principali conflitti internazionali sorgeranno tra Paesi con diverse
identità culturali e religiose. «Lo scontro di civiltà dominerà
la politica globale. Le faglie tettoniche che dividono le civiltà costituiranno
il fronte delle battaglie del futuro», scrisse nel 1993. Per molti,
gli attacchi di al Qaida e le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno
confermato tale visione. In realtà i conflitti si sono verificati più
dentro alle civiltà piuttosto che tra esse. I devoti terroristi islamici
hanno ucciso più musulmani innocenti che nessun altro. E i contrasti
tra sciiti e sunniti continuano a mietere vittime, la maggioranza musulmane.
Secondo me, una fonte molto più importante di conflitti rispetto agli
scontri tra culture o religioni sarà costituita dalle variazioni di
reddito delle classi medie nei Paesi ricchi – in cui stanno diminuendo
– e nei Paesi poveri – dove invece stanno aumentando. Sia l’aumento
sia la diminuzione del reddito causano aspettative disattese che alimentano
l’instabilità sociale e politica.
I Paesi poveri in rapida crescita economica
possiedono oggi la classe media più numerosa della loro storia. È
il caso del Brasile e del Botswana, della Cina e del Cile, dell’India
e dell’Indonesia, soltanto per citarne alcuni. Queste nuove classi medie
non sono così benestanti come quelle dei Paesi industrializzati, ma
i loro componenti godono di un tenore di vita senza precedenti. Nel
frattempo, in Paesi come Spagna, Francia o Stati Uniti la situazione
della classe media sta peggiorando. Tutti i membri in età lavorativa
di 1,3 milioni di famiglie spagnole sono disoccupati. Soltanto l’8%
dei francesi ritiene che i propri figli avranno una vita migliore della
loro. Nel 2007, il 43% degli statunitensi affermava che con lo stipendio
riusciva appena ad arrivare a fine mese. Oggi riferisce di trovarsi
in tale situazione il 61 per cento.
D’altra parte, le aspirazioni insoddisfatte
della classe media cinese o brasiliana sono politicamente incandescenti
tanto quanto la nuova insicurezza economica della classe media che sta
smettendo di essere tale in Spagna o Italia. I rispettivi governi sono
sottoposti a enormi pressioni, sia per rispondere alle crescenti esigenze
della nuova classe media sia per contenere la caduta del tenore di vita
della classe media esistente.
Inevitabilmente, alcuni politici dei
Paesi industrializzati sfrutteranno tale scontento per dare la colpa
del deterioramento economico all’auge di altre nazioni. Diranno che
i posti di lavoro persi negli Stati Uniti o in Europa, o i salari stagnanti,
si devono all’espansione di Cina, India o Brasile. Questo non è vero.
Gli studi più rigorosi rivelano che la perdita di posti di lavoro o
la diminuzione degli stipendi nei Paesi industrializzati non sono imputabili
alla crescita dei Paesi emergenti, bensì al cambiamento tecnologico,
a una produttività anemica, alla politica fiscale e ad altri fattori
interni.
Nei paesi poveri, invece, la nuova
classe media che ha migliorato il consumo di cibo, vestiti, medicine
e case esigerà rapidamente scuole, acqua, ospedali, trasporti e qualsiasi
tipo di servizi pubblici. Il Cile è uno dei Paesi che gode del maggiore
successo politico e della maggiore stabilità al mondo, e la sua classe
media registra una crescita sistematica. Tuttavia, le proteste di strada
volte al miglioramento dell’istruzione pubblica sono ricorrenti. I cileni
non vogliono più scuole: vogliono scuole migliori. E per qualsiasi
governo è molto più facile costruire una scuola che migliorare la
qualità dell’insegnamento lì dove lo si impartisce.
In Cina, ogni anno, si tengono migliaia
di manifestazioni per richiedere maggiori o migliori servizi pubblici.
In Tunisia, la frustrazione della popolazione ha portato alla caduta
di Ben Ali, nonostante sia il Paese con il miglior rendimento economico
del Nord Africa. Non esiste alcun governo che possa soddisfare le nuove
esigenze di una classe politica media in auge alla stessa velocità
con cui tali esigenze si presentano. E nemmeno un governo che possa
sopravvivere alla furia di una classe media benestante che vede la propria
situazione peggiorare giorno dopo giorno.
L’instabilità politica causata da
queste frustrazioni è già visibile in molti Paesi. Le sue conseguenze
internazionali non sono ancora così ovvie. Ma lo saranno».
Fonte: Il Sole 24 Ore del 19 luglio 2011
Traduzione di Cinzia Montina
Moisés Naim è una delle teste
d’uovo del capitalismo globale. Già ai vertici della Banca mondiale,
oggi fa parte di vari organismi multinazionali quali il Forum Economico
Mondiale. I suoi articoli vengono regolarmente pubblicati da Financial
Times, El País, Newsweek, TIME, Le Monde, Berliner Zeitung, Corriere
della Sera, L’Espresso, e Il Sole 24 ore.
Fonte: http://sollevazione.blogspot.com/2011/07/toh-chi-si-rivede-lo-spettro-della.html
19.07.2011