LA PIEMONTESE DELLA COSCIA

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DI CARLO BERTANI

A dir il vero, ero partito per scrivere tutt’altro: ero, come si suol dire, in altre faccende affaccendato. Colpa del Web e del suo irrompere immantinente, senza chiedere permesso.
Basta indugiare un secondo, e concedersi il lusso di una svolazzata sulle agenzie, che ti compare l’ultima follia di questa assurda campagna elettorale, la meno amata – da sempre – dagli italiani.
Di spalla al pezzo forte, ossia alle alchimie politiche di Silvio Berlusconi – che immagina “una Camera alla sinistra qualora Napolitano dovesse dimettersi” – c’è il vero piatto di giornata, ovvero il prorompente ingresso nell’agone politico di una giovane (si fa per dire…) puledra piemontese, tale Daniela Santanché.

E passi che il Cavaliere s’ingozzi di boutade e di cattivo gusto: Napolitano sarà pure un anziano intellettuale partenopeo – forse intento a rileggere Benedetto Croce, forse a sfogliare gli almanacchi di San Gennaro – ma parlare di “dimissioni” di un Presidente della Repubblica, di quella veneranda età, è proprio cattivo gusto. Si fa prima a chiedere il numero di telefono dell’impresa di pompe funebri.
Di spalla alle serie (!) riflessioni politiche del Cavaliere, ecco irrompere la prorompente piemontese della coscia: qui, il lettore avrà bisogno di qualche chiarimento.

La bella manzetta è cuneese di nascita, e quindi abitiamo le stesse terre anche se il sottoscritto – ci tiene a precisarlo – non ha avuto i natali da queste parti.
Anche volendo cercare evanescenti comunanze, bisogna spiegare al lettore di Cosenza o di Gorizia che la provincia di Cuneo è “granda”, e tutto contiene. Da una lato, verso oriente, c’è l’introversa Langa di Pavese e di Fenoglio, con i suoi silenzi che s’interrompono soltanto per le schioppettate di “Un giorno di fuoco”, oppure per le diafane luci della luna e dei falò. E’ una terra dimenticata, separata da aspri colli sia dalla placida pianura piemontese, sia da quel mare di Conte “che non sta fermo mai”. Una Shangri-là con i suoi segreti, con i suoi Kafiri sempre pronti a violarla.
Dall’altra, verso occidente, c’è una vasta pianura che s’incunea, nella sua parte terminale verso la montagna: là sorge una città chiamata – onomatopeico – Cuneo, la quale ha dato i natali alla sopraccitata manza. E non basta: non so se proprio in città o nel circondario, anche a Pinocchio/Ferrero – che si è dilettato per un paio d’anni nel paese dei balocchi chiamato “Solidarietà Sociale” – ed a Mazarino/Damiano, che partì per demolire i lager per lavoratori creati dalla destra e finì per renderli ancora più tetri. A margine, c’è sempre una ministra della Salute della quale sappiamo poco – una biondina cotonata “anni 60”, tale Livia Turco – ed un ex ministro della Salute, tale Costa, che oggi è il Presidente della Provincia, dopo che s’era battuto per anni per l’abolizione delle Province. Come si cambia.

Non vorremmo tediare il lettore oltremodo, ma è necessario precisare che nella “granda” provincia s’alleva una razza di vacche chiamata “piemontese della coscia”, per la precipua specificità di possedere bicipiti copiosi, tali da concupire qualsiasi Pannella digiunatore.
Si fa un gran parlare della “Fiera del Bue Grasso” di Carrù, come dell’apoteosi dei sensi per chi straccia le analisi del colesterolo, convinto d’annacquarle con copioso Barbera d’annata.
Ora che abbiamo tracciato il quadro d’insieme – pur tralasciando particolari piccanti e gustosi, da provincia francese dell’Ottocento – possiamo affrontare il diniego politico della robusta manza nei confronti del Cavalier che tutto puote. In poche parole, la pulzella ha lanciato nell’agone politico il rifiuto per future alleanze, comunicando all’agenzia AGI il 9 Aprile 2008: “Berlusconi è ossessionato da me. Tanto non gliela do…”.

Ora, a tutto eravamo preparati, ma che si mischiassero elementi di diritto costituzionale, d’opportunità politica, di grandi strategie per il futuro dell’italico stivale con le negate grazie di una manzetta piemontese “della coscia”, ci sembra un po’ eccessivo: in fin dei conti, forse anche Monica Lewinsky ha avuto una parte nella storia, ma mica ne menava gran vanto. Chissà se, anche grazie ai bollori spenti dalla giovane stagista, il “buon” presidente democratico – così amato dai veltroniani – finì per non invadere la Serbia?

Di conseguenza, invitiamo la giovane manza a passar oltre ai suoi rigidi principi: Parigi val bene una messa!
Non si leverà mai da noi, che la seguiamo con apprensione, nessun grido di disapprovazione: mai qualcuno ardirà ad accostarla a qualsiasi Violetta della storia o dell’arte, né ad una stralunata epigone di Madame Bovary, tanto meno ad un’enigmatica Mata Hari. Se il sacrificio è necessario per la stabilità della nazione, la signora ricordi che ministerium significa servizio: donna Veronica è signora di gran gusto, e saprà certamente comprendere certi sacrifici fatti nel nome del supremo interesse nazionale, come seppe fare – con gran signorilità – la famiglia Petacci.

Perduto per qualche attimo dalla novità prorompente, accompagnata dalle immagini osé della parlamentare della Destra, m’ero quasi scordato di quel che andavo facendo. Stavo meditando su un breve articolo di Carlo Gambescia dal titolo “Un minimo di chiarezza sulla tesi del superamento della dicotomia destra-sinistra”, pubblicato sul blog dell’autore e ripreso da altri siti e blog. Lo stavo rileggendo e meditando anche alla luce di un libro che ho appena letto, e che mi ha profondamente colpito.
Di là delle negazioni al “dialogo” della Destra, e delle profferte confusionarie della variegata sinistra, c’è qualcuno – in questi mesi occupati da un clamore afono di melensa campagna elettorale – che fa sul serio. Come, del resto, al sempre crescente disinteresse per penosi Festival di Sanremo, rimane l’ancora di salvezza del Premio Tenco per la vera canzone d’autore.

E di vero libro d’autore si deve parlare per affrontare il testo, fresco di stampa, “Alla ricerca della speranza perduta”, di Costanzo Preve e Luigi Tedeschi (Edizioni Settimo Sigillo – euro 25), che – in qualche modo – ci può indicare un sentiero sul superamento della dicotomia destra-sinistra, il dilemma che indicava Gambescia.
Sgomberiamo subito il campo da interpretazioni frettolose e di bassa lega – quali “opposti estremismi che si giungono”, oppure più sofisticate tesi sulla condivisione di un fumoso “piano istituzionale” – perché qui di tutt’altro si parla: siamo al Tenco, non a Sanremo.
Affermare che i due autori riescano ad indicare una risposta alla domanda (implicita) di Gambescia sarebbe fuori luogo, poiché è così tanta l’acqua portata al mulino, in quelle 290 pagine, che non si può contenerla in un catino. Farebbe comodo – lo so – sarebbe comodo, ma ciò che è comodo non presenta crudamente le asperità che c’attendono.
Spezzando una lancia d’ottimismo, potremmo affermare che nella lunga “cavalcata” fra l’analisi critica del Novecento, l’ellenismo che trasuda ad ogni pagina e il pragmatismo di chi avverte la pericolosità degli anni a venire, si può tracciare al minimo un quadro dinamico, ma estremamente preciso, della situazione attuale. Cosa che pochi analisti – oggi – riescono a fare.
Anzitutto si sgombrano macerie: macerie di guerra fredda, di luoghi comuni – soprattutto – di falsi perbenismi e di ammiccanti concessioni al riguardo della globalizzazione.
Senza peli sulla lingua, appare chiaro sin dalle prime pagine che l’attuale fase di globalizzazione viene osservata sia da Destra (Tedeschi) sia da Sinistra (Preve), come il “rullo compressore” dell’economicismo sfrenato, che altro scopo non ha che quello d’omogeneizzare paesi e mercati, con l’unico obiettivo di renderli ricettivi ai desiderata della finanza liberista. E, già questo, è un primo passo.

Tornando a Gambescia – che pone il problema del superamento in termini “descrittivi” e “normativi”, assegnando al primo termine un sentore empirico (di “evidenze sensibili”, potremmo affermare) ed al secondo l’arduo compito di “normare” la transizione verso una piattaforma di sentimenti e progetti condivisi – potremmo almeno affermare che si traccia un sentiero.

Va detto a chiare lettere che entrambi gli autori non avvertono il minimo desiderio di rinunciare al loro passato (cosa, di per sé, insulsa in essere), ma intendono partire dal loro bagaglio culturale confrontandolo punto per punto.
Ecco, allora, dipanarsi nel testo il confronto su guerra e falsi pacifismi, geopolitica “liberata” dai fantasmi del Novecento e, allo stesso tempo, estrapolata proprio dalle vicende storiche del secolo appena concluso: un lungo viaggio senza pelli di salame agli occhi, per essere brevi e concisi.
Un viaggio non facile – avvertiamo il lettore – poiché s’intersecano i richiami ai greci ed a Gentile, a Del Noce (non Fabrizio) ed a De Benoist. Rilievi critici e convergenze dapprima inaspettate, poi da cogliere con sorpresa, quasi con stupore.

La chiave di volta del libro è il richiamo al comunitarismo, non come risposta avversa e contraria ai sinceri valori internazionalisti e libertari, ma come rinnovato rispetto per le altrui differenze, viste come elemento di comune arricchimento, al di fuori dei facili perbenismi da sacrestia.
Sarebbe troppo sostenere che Preve e Tedeschi siano riusciti a dipanare completamente la matassa ed a renderci – in chiave facilmente fruibile – risposte ai dilemmi esposti da Gambescia: sarebbero caduti, in definitiva, in una sorta di trabocchetto “globalizzante”. In piena contraddizione con le tesi esposte.
Non è quindi un testo per palati raffinati, ma per palati “forti”, ossia disposti ad affrontare e meditare sui mille spunti che si dipanano fra le righe, i quali conducono a nuove riflessioni. Che, però, arricchiscono: proprio da queste pagine, a mio parere, potrebbe partire un dibattito dai toni nuovi, per rifondare – un giorno certamente non vicino – le basi sociali del nostro povero Paese. Che, oggi, s’interroga in prima pagina sulle (im)possibili alleanze fra manze e cavalieri, con annesso ius primae noctis.

Tutto ciò è da serbare e da rimuginare da martedì prossimo in poi, quando qualcuno avrà la sua vittoria di Pirro, ci ammansirà con nuovi proclami di rinnovata fiducia e dipingerà fulgidi futuri. “Chi mi riparlerà di domani luminosi…” recitava Fabrizio de André nel 1968: sono trascorsi 40 anni, e fra qualche giorno torneranno al solito copione.

Qualche parola in più è necessaria per quei piccoli movimenti che hanno deciso di presentarsi alle elezioni, e che da martedì prossimo torneranno nell’ombra. Perché?
Poiché, senza una necessaria fase di riflessione sui valori e sulle istanze della destra e della sinistra (quelle vere, non i teatrini per allocchi con annesse “manzette”), si finirà per continuare a gettare via il bambino con l’acqua del bagnetto.
Fascismo e Comunismo hanno fallito? Bene, non ci resta altro che uno sfolgorante capitalismo iperproteico, globalizzato, intercambiabile: dai capelli brizzolati di Bush agli occhi a mandorla di Hu – Jin – Tao. Questo, vorrebbero farci credere, è ciò che s’intende per “politica internazionale”.
In alternativa, dissertate sulle “alleanze” dettate dalle manze dalla coscia lunga, che “la danno” o “non la danno”: italiani, vi lasciamo scegliere! Più “democratici” di così…

Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com/
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9.04.08

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