LA MISURA COME RIBELLIONE ESTETICA ALLA MODERNITA'

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DI EDUARDO ZARELLI

ilribelle.com

La bellezza salverà il mondo? La domanda che un personaggio de L’idiota pone al principe Myskin, protagonista del romanzo di Dostoevskij, contiene una sfida: misurarsi con il Bello nell’epoca del nichilismo. Ha ancora un ruolo possibile, la dimensione metafisica del Bello, nella critica al disincanto della modernità?

Caratteristiche peculiari dell’attuale società occidentale – il cui modello esonda da un alveo geografico e si impone in tutto il Pianeta – sono il dominio titanico dell’informe, la ridondanza dei mezzi in assenza di fini, il consumismo, il conflitto insanabile con la natura, l’inesausto spreco di risorse in rapporto direttamente proporzionale alla produzione di rifiuti, l’automatismo dello sviluppo tecnologico, il primato dell’economico su tutti gli altri aspetti della vita e della cultura.

La critica all’esito dello sviluppo, inteso come cumulazione quantitativa, passa per l’obiezione alla crescita illimitata anche sul piano qualitativo, simbolico e immaginativo dell’arte. Sono io che non capisco, titola infatti Maurizio Pallante le sue “Riflessioni sull’arte contemporanea di un obiettore alla crescita” (Edizioni per la Decrescita Felice, pp. 128, € 12) e con grande chiarezza identifica gli aspetti della società edonistica, che hanno plagiato l’arte contemporanea: il mito del “nuovo” fine a se stesso; l’individualismo esasperato; la distruzione della memoria, e quindi della tradizione; la separazione, nel fare creativo, dalla contiguità che legava l’arte all’artigianato; la rimozione della bellezza, come canone estetico, nella riduzione dell’agire artistico a modalità concettuali declinate in oggetti o impianti fuggevoli, eccentrici, effimeri, obsolescenti. È un’arte di regime mercantile, massificante come non mai, perché «nei sistemi economici finalizzati alla crescita questa è l’arte riconosciuta ufficialmente, sostenuta finanziariamente e imposta dal potere».

Etimologicamente, l’aggettivo moderno deriva dall’avverbio latino modo, che significa adesso, ora; il significato dell’aggettivo moderno è quindi analogo a quello dell’aggettivo odierno. Moderno è ciò che accade ora. Sappiamo che, nella storiografia, l’epoca “moderna” (1492-1815) in realtà attuale non è, e lo sarà sempre meno in futuro, ma nell’uso comune oggi dominante l’aggettivo moderno non si limita a indicare ciò che sta accadendo; allude piuttosto a un avanzamento verso il “meglio”. La concezione vettoriale della storia come progresso, laicizzatasi con l’Illuminismo e rafforzatasi nell’Ottocento, sia con il finalismo idealista che con il determinismo positivista, si plasma nell’attuale “senso comune” tecno-scientifico, ragione per cui ciò che avviene ora è – in quanto tale – migliore di ciò che è accaduto prima, e ciò che avverrà sarà migliore di ciò che adesso sta accadendo. Insomma, il futuro sarà migliore perché innovativo: se si limitasse a ripetere ciò che è già accaduto, non garantirebbe il miglioramento indotto.

D’altra parte, qual è il meccanismo della società dei consumi? Se il fine di un sistema economico è la crescita della produzione di merci, non importa se si producono cose buone (e “belle”) o dannose (e “brutte”); fondamentale è che siano sempre di più e che, di conseguenza, se ne comprino senza limite. L’essere umano è ridotto a un ente di bisogni indotti, che si soddisfano moltiplicando all’infinito cose inutili o dannose, le quali però garantiscono lo “sviluppo” come accumulo materiale.

Questa crescita inusitata, in natura, non è data e negli organismi viventi produce il tumore. Il cancro è una malattia causata da una proliferazione incontrollata di cellule: queste, non riconoscendosi più nella coerenza generale dell’organismo, perdono la capacità di interpretare le indicazioni del codice genetico che le guida, non riescono a limitarsi nella compiutezza funzionale e si riproducono patologicamente. L’oncogenesi è quindi dovuta alla clonazione (moltiplicazione da una unica cellula), all’anomia (crescita indipendente dai fattori organici fisiologici), all’anaplasia (mancata differenziazione cellulare coordinata), alla metastasi (riproduzione a distanza e in zone diverse da quella d’origine); in altri termini, il cancro è una manifestazione della fase preterminale di varie disarmonie e squilibri, che determina o accelera la morte dell’organismo: una entropia del significato esistenziale del vivente. Se si producono sempre più cose, occorre che si comprino sempre più cose e, per indurre a comprarne sempre di più, non si può continuare a produrre le stesse cose. Per mantenere viva la domanda di merci, occorre produrre continuamente qualcosa di nuovo. In questo modo, “comprare” diventa un valore in sé, indispensabile per impedire il crollo del sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci. In un sistema economico fondato sulla crescita esponenziale della produzione di merci, la valorizzazione del nuovo, di contro a ciò che è tradizionale, deve diventare l’elemento fondante del sistema di valori condiviso. Il nuovo deve essere identificato con il progresso e con il miglioramento, deve essere desiderato indipendentemente da ogni valutazione di scopo e senso. L’arte contemporanea e la sua commistione con la diffusione pubblicitaria in una società ridotta a “spettacolo” – per dirla con Guy Debord – contribuisce in modo determinante a modellare, nei Paesi occidentali, l’immaginario collettivo e a offrire un consenso di massa al processo, che sostituisce le economie comunitarie di sussistenza con quelle di scambio di mercato e crescita consumistica. La distruzione creatrice, teorizzata da Joseph Schumpeter come motore del progresso e connotazione fondante il modo di produzione industriale, è – di fatto – la carta d’identità della modernità.

I critici della crescita “illimitata”, per i suoi effetti distruttivi sugli ecosistemi e la messa in forma della civiltà stessa, non possono non essere contrari alla valorizzazione dell’innovazione in sé, perché il livello raggiunto dalla crescita della produzione e dei consumi richiede una quantità insostenibile di risorse rinnovabili; ugualmente, i critici dell’arte contemporanea non possono non constatare la sua aderenza culturale all’economia consumistica. Non si può, cioè, ignorare la sintonia esistente tra il sacrificio della bellezza e la ricerca autoreferenziale dell’innovazione e dell’evanescenza evenemenziale. Una distruzione della bellezza del mondo causata dalle innovazioni tecnologiche di processo e prodotto, inscritte nel riduzionismo meccanicistico e finalizzate alla crescita di produzione e consumo merci.

L’artista non crea dal nulla; si appella all’invisibile, richiama alla memoria un rimando simbolico o, meglio ancora, ricorda, discerne, evoca con il cuore modelli, archetipi, idee, suggestioni, empatie, sentimenti, emozioni gravitanti in una sfera di relazioni, che in modi originali lo collegano all’altro da sé: lo spirito, la natura, la storia, la cultura e l’umanità delle generazioni trascorse. Un’opera d’arte è riuscita quando si palesa una compiutezza olistica, in cui la totalità risulta superiore alla somma causale delle sue parti. L’arte bella è spontanea come la bellezza della natura, ma l’opera d’arte non è un’imitazione meccanica della natura e neppure un’interpretazione della realtà, non proviene dall’intelletto: è frutto del sentimento, che nell’opera d’arte esprime l’universale nel particolare, l’intelligibile nel sensibile, l’infinito nel finito.

Nella cultura greca arcaica, il termine kalós – che abitualmente traduciamo con “bello” – non aveva un significato “estetico”; quando la poetessa Saffo parla di «kalé seléne», allude non alla “bella luna”, come saremmo portati a credere, ma al plenilunio. La luna è kalé, “bella”, perché è piena, cioè integra, compiuta: non manca di nulla. Insomma, secondo la cultura e la mentalità classica, bello è tutto ciò che si presenta con le caratteristiche di una forma compiuta. Scaturisce da questi presupposti la convinzione, diffusa in tutta l’antichità greco-latina, che la perfezione, e quindi anche la bellezza, coincida con la finitezza. Se bello deve essere considerato ciò che è integro, a cui non manca nulla, è evidente che una cosa, per essere bella, non dovrà essere in-finita, senza fines, senza con-fini: al contrario, dovrà avere contorni compiuti. La Bellezza, infatti – quale portatrice di armonia, simmetria ed euritmia – si proponeva come misura e ordine dell’essere e del mondo; una misura e un ordine, che garantivano – in senso lato, ecologico – l’abitabilità del Cosmo e quindi, in definitiva, facevano di essa il compendio della legalità cosmica. Da ciò si evince, di conseguenza, una concezione del Bello come immagine ideale del Bene, e quindi come un qualcosa di annoverabile tra i principi primi dell’Essere.

L’economicismo, la devastazione ambientale, i comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli con l’insignificanza dei suoi (non) luoghi e l’inestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza messa in atto dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé – per dirla con James Hillman – può manifestarsi solo come «interiorizzazione della comunità», da un lato, e come continuità con il Cosmo, dall’altro. Ad allontanarci da noi stessi e a renderci estranei a noi stessi è la perdita di contatto con ciò che siamo e soprattutto sentiamo: è una sorta di anestesia. Comparabilmente, ad allontanarci dall’anima di un luogo è la stessa anestesia, l’essere privi di quella sensibilità che ci fa accorgere di ciò che lo deturpa, lo imbruttisce, lo sotterra e lo cementifica. Solo l’amore per l’ineffabile può arrischiarsi “oltre la linea” del già vissuto, del banale, dello scontato e del seriale, così come del suo falso opposto, la novità del progresso, proprio perché ci sono solo contrari dello stesso genere, come dice Aristotele.

La decrescita è innanzitutto un appello al pensiero anticonformista. Secondo le parole di Jean Baudrillard, è una palinodia, letteralmente un’ode, in generale un componimento, che ne inverte e sovverte uno precedente; una salutare inversione di tendenza, la quale si rende necessaria per il semplice motivo che l’attuale modello di sviluppo è insostenibile. Sarebbe più opportuno chiamarla a-crescita, in quanto non ha nulla dell’astrazione utopica, ma esprime un realistico e responsabile segnale in controtendenza, un segnavia concreto per intraprendere un sentiero diverso su cui indirizzare la postmodernità: estraniarsi dai condizionamenti della società dei consumi per declinare la scienza, la tecnica e la società in una modalità culturalmente aderente alla natura, che è fatta di ciclicità virtuose e non di linearità illimitate. La civilizzazione industriale è resa possibile dall’artificio utilitaristico di una crescita dissipativa, titanica. Al contrario, la civiltà dell’essere si esprime nel senso del limite, nella messa in forma del divenire e nell’evoluzione culturale – invece che nell’evoluzionismo materialistico – nel senso tragico dell’eterna provvisorietà della condizione umana come parte di un respiro cosmico ove il vivente si svela in presenza della sua assenza.

Martin Heidegger parla di un continuo contrapporsi di Mondo e Terra, come vera lotta «nella quale i contendenti si elevano – l’un l’altro – all’autoaffermazione della propria essenza» . Nella lotta, ognuno porta l’altro al di sopra di ciò che è. Mondo e Terra sono sempre in contrapposizione e in conflitto, perché solo così prendono il loro posto nella lotta di illuminazione e nascondimento. Terra e Mondo sono aderenti alle forze primordiali, rappresentate dai trigrammi taoisti dello Yin e dello Yang, cioè rispettivamente k’un (il ricettivo) associato all’oscurità della Terra e ch’ien (il creativo) associato all’apertura del Cielo.

Terra, dunque, come Yin, l’assidua infaticabile non costretta, la coprente custodente che destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa. Yin, originariamente, significa “il nuvoloso”, “l’oscuro”.

In contrasto, Heidegger parla di apertura del Mondo. Mondo, quindi, come Yang, il dischiudersi. Yang originariamente significa “vessillo che sventola al sole”, dunque indica cose illuminate e chiare. Come accade per Terra e Mondo, anche tra Yin e Yang si instaura quel tipo di conflitto, che per Eraclito è «padre di tutte le cose, di tutte è re». La lotta qui considerata è un conflitto originatore, in cui i combattenti sono indispensabili l’uno all’altra; delinea infatti ciò che fino a quel momento non è stato detto né pensato e sempre scaturisce come origine, come mito. Questa lotta, che porta a un continuo rovesciamento, non è priva di senso, perché è soggetta alla legge che tutto permea – il Tao, la “via”, lo stile – ragione per cui, indipendentemente dall’esito, è fondante il modo di vivere, non il perire, il cristallizzarsi. Quando si dà la preferenza a un solo aspetto, la razionalità, non si ascolta l’interiorità, l’empatia, l’intuizione, l’Essere e si dimentica che il Mondo chiama e reclama la Terra, e viceversa. Microcosmo e macrocosmo intrecciano la via del Bello, la misura dell’appropriato, perché, come afferma Eraclito, «più potente è l’armonia nascosta di quella che appare». In ultima analisi, il cammino oltre la modernità passa inequivocabilmente per un crinale estetico, immaginale e simbolico, ulteriore a ogni riduzionismo: ribellarsi allo stato presente delle cose è giusto, ma lo si deve fare perché è bello.

Eduardo Zarelli
www.ilribelle.com
10.01.2014

Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”

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