DI JOHN PILGER
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Ho trascorso due anni girando un film documentario, The Coming War on China, che raccoglie prove e testimonianze che dimostrano che la guerra nucleare non è più un’ombra, ma una possibilità concreta. È in corso il più imponente accumulo di forze militari sotto l’egida statunitense dalla Seconda Guerra Mondiale. Si trovano ai confini occidentali della Russia, in Asia e nel Pacifico, e sono puntate verso la Cina.
Il grande pericolo che ciò implica non fa notizia, oppure viene sepolto tra le altre news e distorto: una propaganda martellante che riecheggia nella campagna psicopatica inculcata nella coscienza pubblica per gran parte del Ventesimo secolo.
Come la riforma della Russia post-sovietica, anche l’ascesa della Cina come potenza economica è considerata una “minaccia esistenziale” al diritto di emanazione divina degli Stati Uniti di governare e dominare il destino dell’umanità.
Per contrastarla, nel 2011 il presidente Obama ha annunciato un “pivot verso l’Asia”, che significava che quasi due terzi delle forze navali statunitensi sarebbero state trasferite in Asia e nel Pacifico entro il 2020.
Ad oggi, più di 400 basi militari americane circondano la Cina con missili, bombardieri, navi da guerra e, soprattutto, armi nucleari. Dall’Australia, proseguendo a nord attraverso il Pacifico e arrivando in Giappone e Corea, e attraverso il continente eurasiatico fino all’Afghanistan e all’India, le basi formano, come dice uno stratega statunitense, “la trappola perfetta”.
Uno studio della RAND Corporation – che, a partire dal Vietnam, ha pianificato le guerre dell’America – è intitolato War with China: Thinking Through the Unthinkable (La guerra con la Cina: riflettere sull’inconcepibile). Commissionato dall’esercito americano, i suoi autori rievocano la Guerra Fredda, quando la RAND rese famoso il motto del suo stratega in capo Herman Kahn – “thinking the unthinkable” (pensare l’impensabile). Il libro di Kahn On Thermonuclear War elaborava un piano per una guerra nucleare “sostenibile” contro l’Unione Sovietica.
Oggi la sua visione apocalittica è condivisa da coloro che detengono davvero il potere negli Stati Uniti: i militaristi del Pentagono e i loro collaboratori neoconservatori al governo, le agenzie d’intelligence e il Congresso. L’attuale Segretario alla Difesa, Ashley Carter, un ampolloso provocatore, dice che la politica degli Stati Uniti è quella di combattere coloro “che sono consapevoli del predominio americano e vogliono portarcelo via”.
Ho incontrato a Washington Amitai Etzioni, illustre professore di affari internazionali alla George Washington University. Gli Stati Uniti, scrive, “si stanno preparando alla guerra con la Cina, una decisione epocale che finora non è stata valutata in modo approfondito da parte dei funzionari eletti, cioè della Casa Bianca e del Congresso.”
Questa guerra inizierebbe con un “attacco per mettere fuori uso le strutture difensive cinesi, incluse le piattaforme per il lancio di missili a terra e in mare… armi satellitari e anti-satellite”.
Il rischio enorme deriva dal fatto che “degli attacchi sul suolo cinese potrebbero erroneamente essere percepiti dai cinesi come tentativi preventivi di privarli delle loro armi nucleari, generando in loro ‘un terribile dilemma tra utilizzarle o perderle’ che condurrebbe alla guerra nucleare.”
Nel 2015 il Pentagono ha pubblicato il suo Law of War Manual. “Gli Stati Uniti”, si legge in esso, “non hanno accettato nessuna norma di un trattato che proibisce per se l’uso di armi nucleari, perciò le armi nucleari sono considerate dagli Stati Uniti armi lecite.”
In Cina un esperto militare mi ha detto: “Noi non siamo vostri nemici, ma se voi [in Occidente] decidete che lo siamo, dobbiamo essere pronti a reagire senza indugi.” L’esercito e l’arsenale cinesi sono piccoli rispetto a quelli americani. Tuttavia, “per la prima volta”, ha scritto Gregory Kulacki dell’Unionof Concerned Scientists, “la Cina sta valutando di tenere pronti i suoi missili nucleari in modo che possano essere lanciati velocemente in caso di minaccia di un attacco… Questo sarebbe un significativo e preoccupante cambiamento nella politica cinese… In effetti, la linea politica sulle armi nucleari degli Stati Uniti è il fattore esterno più evidente che sta influenzando i fautori cinesi di un innalzamento del livello di allerta delle forze nucleari cinesi.”
Il professor Ted Postol è stato consigliere scientifico del comandante delle operazioni navali degli Stati Uniti. Egli, voce autorevole in tema di armi nucleari, mi ha detto: “Ognuno qui vuole sembrare un duro. Vede, io devo essere un duro… Non mi spaventa niente dal punto di vista militare, non ho paura di minacciare; sono un gorilla dal petto villoso. E siamo arrivati ad un punto, gli Stati Uniti si trovano in una situazione in cui spirano venti di guerra e tutto questo viene in realtà orchestrato dall’alto.”
Io risposi: “Sembra davvero molto rischioso.”
“Rischioso è un eufemismo”
Andrew Krepinevich è stato uno stratega militare del Pentagono e influente autore dei “giochi di guerra” contro la Cina. Egli vuole “punire” la Cina per aver esteso le proprie difese al Mar Cinese Meridionale. Auspica che l’oceano venga cosparso di mine sottomarine, che vi vengano inviate le forze speciali statunitensi e che venga istituito un blocco navale. Lui stesso mi ha detto: “Il nostro primo presidente, George Washington, disse: ‘Se vuoi la pace, preparati per la guerra’.”
Nel 2015, in gran segreto, gli Stati Uniti hanno organizzato la più grande esercitazione militare dai tempi della Guerra Fredda. Si chiamava Talisman Sabre: un’armata di navi e bombardieri a lungo raggio hanno inscenato una “Battaglia aria-mare per la Cina” – ASB – bloccando le rotte navali nello stretto di Malacca e interrompendo gli approvvigionamenti cinesi di petrolio, gas e altre materie prime dal Medio Oriente e dall’Africa.
È stata questa provocazione, insieme alla paura di un blocco navale da parte della Marina statunitense, che ha spinto la Cina a costruire febbrilmente piste di atterraggio strategiche su scogliere e isolotti contestati nelle isole Spratly, nel Mar Cinese Meridionale. Lo scorso luglio, la Corte di Arbitrato Permanente delle Nazioni Unite si è espressa contro la rivendicazione di sovranità della Cina su queste isole. Sebbene l’azione fosse stata sollevata dalle Filippine, è stata presentata da avvocati di spicco americani e inglesi e può essere ricondotta all’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton.
Nel 2010 la Clinton è volata a Manila per chiedere che la ex colonia americana riaprisse le basi militari USA chiuse negli anni Novanta a seguito di una campagna popolare contro le violenze che generavano, soprattutto ai danni delle donne filippine. In quell’occasione ha dichiarato anche che la rivendicazione della Cina sulle isole Spratly – che si trovano a più di 7500 miglia (12000 chilometri) dagli Stati Uniti – costituisce una minaccia alla “sicurezza nazionale” degli Stati Uniti e alla “libertà di navigazione”.
Dopo che gli sono stati consegnati milioni di dollari in armi e attrezzature militari, l’allora governo del presidente Benigno Aquino ha interrotto i colloqui bilaterali con la Cina e firmato un Accordo di Cooperazione segreto per la Difesa Rafforzata con gli Stati Uniti. Con esso sono state create 5 basi statunitensi per la rotazione delle truppe ed è stata riesumata un’odiata disposizione di epoca coloniale secondo cui le forze americane e i loro mercenari sono immuni dalla legge filippina.
Sotto il nome di “dominio dell’informazione” – il gergo per manipolazione dei mezzi d’informazione, su cui il Pentagono spende più di 4 miliardi di dollari – l’amministrazione Obama ha lanciato una campagna di propaganda che classifica la Cina, la più grande nazione al mondo dal punto di vista commerciale, come una minaccia alla “libertà di navigazione”.
La CNN ha preso parte attivamente alla campagna, con il suo “reporter per la sicurezza nazionale” che, tutto eccitato, trasmetteva a bordo di un volo di ricognizione della Marina statunitense sopra le isole Spratly. La BBC ha persuaso degli spaventati piloti filippini a sorvolare le isole contese con un Cessna monomotore “per vedere come i cinesi avrebbero reagito”. Nessuno dei servizi andati in onda si domandava perché i cinesi stessero costruendo piste di atterraggio al di fuori dei confini delle proprie coste, o perché le forze militari americane si stessero ammassando alle porte della Cina.
Il capo della propaganda designato era l’Ammiraglio Harry Harris, il comandante in capo delle truppe USA in Asia e nel Pacifico. “Le mie responsabilità”, ha detto al New York Times, “si estendono da Bollywood a Hollywood, dagli orsi polari ai pinguini.” Il dominio imperialista non era mai stato descritto in un modo tanto conciso.
Media malleabili e partner ossequiosi
Harris è uno degli ammiragli e generali selezionati e istruiti dal Pentagono, insieme a giornalisti malleabili ed emittenti televisive, allo scopo di giustificare una minaccia tanto pretestuosa quanto quella con la quale George W Bush e Tony Blair motivarono la distruzione dell’Iraq.
“Il commercio cinese”
James Bradley è autore del best-seller The China Mirage: The Hidden History of American Disaster in Asia (Little Brown, 2015). In questi estratti della sua intervista con John Pilger, descrive come l’America moderna sia stata costruita sul “commercio cinese”.
James Bradley: Per la maggior parte della storia americana, era illegale per qualcuno come me conoscere un cinese. I cinesi venivano in America per lavorare nelle miniere d’oro e costruire le ferrovie, e gli americani decisero che non ci piaceva la competizione. Così, nel 1882, promulgammo i Chinese Exclusion Acts, che tennero i cinesi al di fuori degli Stati Uniti per circa 100 anni. Proprio nel momento in cui stavamo erigendo la Statua della Libertà, dicendo che accoglievamo chiunque, stavamo innalzando un muro e dicendo: “Accogliamo tutti, tranne quei cinesi.”
John Pilger: E nondimeno, per l’élite americana del diciannovesimo secolo, la Cina fu una miniera d’oro.
JB: Una miniera d’oro di droghe. Warren Delano, il nonno di Franklin Delano Roosevelt, era il re americano dell’oppio in Cina; era il più grande spacciatore americano di oppio, secondo solo agli inglesi. La maggior parte [degli insediamenti] della costa orientale degli Stati Uniti – Columbia, Harvard, Yale, Princeton – nacquero grazie ai proventi della droga. La rivoluzione industriale americana venne finanziata con enormi vasche di denaro – da dove proveniva? Dal più vasto mercato mondiale di droghe illegali: la Cina.
JP: E così il nonno del più liberale tra i presidenti, Franklin Delano Roosevelt, era un trafficante di droga?
JB: Sì. Franklin Delano Roosevelt non ha mai fatto molti soldi nella sua vita. Lavorò come impiegato statale ed era pagato molto poco, ma ereditò una fortuna da Warren Delano, suo padre. Ora, se indaghi su cosa c’è dietro a qualcuno con il nome Forbes troverai denaro proveniente dall’oppio… come ad esempio John Forbes Kerry…
JP: È l’attuale Segretario di Stato.
JB: Sì. Il suo bisnonno [Francis Blackwell Forbes] era uno spacciatore di oppio. Quanto era il denaro proveniente dall’oppio? Con esso venne costruita la prima città industriale degli Stati Uniti. Con esso si costruirono le prime cinque ferrovie. Ma non venne detto apertamente. Era chiamato il Commercio cinese.
A Los Angeles, a settembre, Harris ha dichiarato di essere “pronto ad affrontare una Russia revanscista e una Cina risoluta… Se dobbiamo combattere stanotte, non voglio che sia uno scontro equo. Se è una lotta ai coltelli, voglio portare una pistola. Se è una battaglia con le pistole, voglio mettere in campo l’artiglieria… e tutti i nostri alleati con la loro artiglieria.”
Questi “alleati” includono la Corea del Sud, una colonia Americana a tutti gli effetti eccetto nel nome, nonché base di lancio per il Pentagon’s Terminal High Altitude Air Defense system, anche conosciuto come THAAD, in apparenza rivolto verso la Corea del Nord. Il Professor Postol precisa invece che il suo vero obiettivo è la Cina.
A Sydney, in Australia, Harris si è rivolto alla Cina intimandole di “abbattere la sua Grande Muraglia nel Mar Cinese Meridionale”. La metafora è finita in prima pagina. L’Australia è “l’alleato” più ossequioso dell’America; la sua élite politica e militare, le agenzie di intelligence e i mezzi d’informazione dominati da Murdoch sono totalmente inquadrati in quella che viene chiamata “l’alleanza”. Non è inconsueto che il Sydney Harbour Bridge venga chiuso in occasione del passaggio del corteo di macchine di un “dignitario” del governo americano in visita. Al criminale di guerra Dick Cheney venne accordato lo stesso onore.
Sebbene la Cina sia il maggior partner commerciale dell’Australia, da cui dipende in buona misura l’andamento dell’economia nazionale, “opporsi alla Cina” è il diktat che arriva da Washington. I pochi dissidenti politici a Canberra rischiano di essere diffamati come maccartisti nella stampa di Murdoch. “Voi in Australia siete dalla nostra parte qualsiasi cosa accada”, disse uno degli artefici della guerra in Vietnam, McGeorge Bundy. Una delle più importanti basi statunitensi è Pine Gap, vicino ad Alice Springs. Creata dalla CIA, sorveglia la Cina e l’intera Asia, e dà un contributo vitale alla guerra omicida condotta da Washington per mezzo di droni in Medio Oriente.
Nel mese di ottobre Richard Marles, il portavoce della difesa del principale partito d’opposizione australiano, il Partito Laburista, ha chiesto che le “decisioni operative” riguardanti atti provocatori verso la Cina siano lasciate ai comandanti militari che si trovano nel Mar Cinese Meridionale. In altre parole, una decisione che potrebbe sfociare in una guerra contro una potenza nucleare non dovrebbe essere presa da un leader eletto o da un parlamento, bensì da un ammiraglio o un generale.
Questa è la linea del Pentagono, una rottura epocale per qualsiasi stato che voglia definirsi una democrazia. L’ascendente del Pentagono su Washington – che Daniel Ellsberg ha definito un tacito colpo di stato – si riflette nella cifra record di 5 trilioni di dollari che gli Stati Uniti hanno speso in guerre di aggressione dall’11 settembre ad oggi, secondo quanto rilevato da uno studio della Brown University. Un milione di morti in Iraq e 12 milioni di rifugiati provenienti da almeno quattro paesi ne sono la conseguenza.
“Affermo con chiarezza e convinzione”, disse Obama nel 2009, “l’impegno dell’America nel perseguire la pace e la sicurezza in un mondo senza armi nucleari.” Durante la presidenza di Obama, la spesa per le testate nucleari ha superato quella di qualsiasi altro presidente dalla fine della Guerra Fredda. È stata progettata una mini arma nucleare. Conosciuta con il nome di B61 Model 12, ha un preciso significato, afferma il Generale James Cartwright, in precedenza vice Capo di Stato Maggiore della Difesa: “Renderla più piccola [fa il suo uso] più concepibile.”
Resistenza pacifica
L’isola giapponese di Okinawa ha 32 installazioni militari, dalle quali Corea, Vietnam, Cambogia, Afghanistan e Iraq sono stati attaccati dagli Stati Uniti. Oggi il bersaglio principale è la Cina, con cui Okinawa ha forti legami culturali e commerciali.
Aerei militari sorvolano costantemente il cielo sopra Okinawa; qualche volta si abbattono su case e scuole. Le persone non riescono a dormire, né gli insegnanti a insegnare. Dovunque vadano, nel loro stesso paese, trovano recinzioni e gli viene detto di stare alla larga.
Da quando nel 1995 una ragazza di 12 anni subì uno stupro di gruppo da parte di alcuni soldati americani, ha iniziato a diffondersi un movimento molto popolare tra gli abitanti di Okinawa. Questo è solo uno delle centinaia di crimini commessi, molti di essi mai perseguiti. Sebbene la resistenza di Okinawa sia scarsamente conosciuta nel resto del mondo, rappresenta un esempio tangibile di come gente ordinaria possa affrontare pacificamente un gigante militare e uscirne quasi vittoriosa.
La loro campagna ha portato all’elezione del primo presidente giapponese contrario alla base, Takeshi Onaga, e si è rivelata un’inaspettata spina nel fianco per il governo di Tokyo e per il Primo Ministro ultra-nazionalista Shinzo Abe, intenzionato a modificare la “costituzione pacifista” del Giappone.
Tra i leader della resistenza vi è Fumiko Shimabukuro, di 87 anni, sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale, quando un quarto della popolazione di Okinawa morì durante l’invasione americana. Fumiko si rifugiò insieme a centinaia di altre persone nella splendida Henoko Bay, e adesso si sta battendo per salvarla. Gli Stati Uniti vogliono deturpare la baia ampliando le piste di atterraggio per i loro bombardieri. Mentre eravamo radunati pacificamente al di fuori della base americana, Camp Schwab, giganteschi elicotteri Sea Stallion continuavano a sorvolare le nostre teste senza alcuna ragione se non quella di intimidirci.
Nel Mar Cinese Orientale si trova l’isola coreana di Jeju, un santuario semi-tropicale Patrimonio Mondiale dell’Umanità, dichiarato “un’isola di pace nel mondo”. In quest’isola di pace è stata costruita una delle basi militari più provocatorie del mondo, a meno di 400 miglia (650 chilometri) da Shanghai. Il villaggio di pescatori di Gangjeong è dominato da una base navale sudcoreana costruita appositamente per le portaerei statunitensi, i sottomarini nucleari e i cacciatorpedinieri equipaggiati con il sistema missilistico Aegis, rivolto verso la Cina.
Da quasi un decennio un gruppo di persone organizzano una resistenza a questi preparativi di guerra sull’isola di Jeju. Ogni giorno, spesso due volte al giorno, gli abitanti del villaggio, alcuni preti cattolici e sostenitori provenienti da tutto il mondo inscenano una funzione religiosa che blocca i cancelli della base. In una nazione dove le manifestazioni di protesta contro la politica vengono spesso vietate, e invece le religioni sono influenti, questo stratagemma ha prodotto uno spettacolo considerevole.
Uno dei leader, Padre Mun Jeong-hyeon, mi ha detto: “Canto ogni giorno quattro volte alla base, con qualsiasi condizione climatica. Canto anche durante i tifoni – senza eccezioni. Per costruire questa base hanno distrutto l’ecosistema e la vita degli abitanti, e noi abbiamo il compito di esserne testimoni. Vogliono controllare il Pacifico. Vogliono isolare la Cina dal resto del mondo. Vogliono essere gli imperatori del mondo.”
Sono volato a Shanghai per la prima volta dopo più di una generazione. Il suono più forte che ricordavo dell’ultima volta che ero stato in Cina era quello del tintinnare dei campanelli delle biciclette; Mao Zedong era morto da poco e le città sembravano luoghi bui, dove lo scoraggiamento competeva con le aspettative. Nel giro di pochi anni Deng Xiaoping, “l’uomo che ha trasformato la Cina”, era il “leader indiscusso”. Niente mi aveva preparato agli sbalorditivi cambiamenti di oggi.
Ho incontrato Lijia Zhang, una giornalista di Pechino tipica esponente di una nuova classe di schietti anticonformisti. Il suo libro campione di incassi si intitola ironicamente Socialismo è grande! Lijia Zhang è cresciuta nel contesto della caotica e brutale Rivoluzione Culturale ed è vissuta negli Stati Uniti e in Europa. “Molti americani credono”, ha detto, “che il popolo cinese viva una vita miserabile e repressa, senza nessun tipo di libertà. [L’idea del] pericolo giallo non li ha mai abbandonati… Non sono consapevoli che ci sono circa 500 milioni di persone che sono uscite dalla povertà, e qualcuno ritiene che siano addirittura 600 milioni.”
Ha descritto la Cina moderna come una “gabbia dorata”. “Da quando sono iniziate le riforme”, ha detto, “e abbiamo iniziato a stare molto meglio, la Cina è divenuta una delle società più inique del mondo. Oggi sono in corso molte proteste: di solito, perché la terra viene sottratta da funzionari governativi per scopi commerciali. Ma i contadini sono più consapevoli dei loro diritti e i giovani operai chiedono salari e condizioni di lavoro migliori.”
Il mondo si sta spostando ad est
La Cina di oggi presenta notevoli paradossi, non da ultimo la casa di Shanghai dove Mao e i suoi compagni fondarono segretamente il Partito Comunista Cinese nel 1921. Adesso si trova al centro di un quartiere dello shopping davvero molto capitalista: il visitatore esce da questo santuario del comunismo con il suo Piccolo Libro Rosso e il busto di plastica di Mao e, fatti pochi passi, si ritrova stretto nell’abbraccio di Starbucks, Apple, Cartier e Prada.
Mao ne resterebbe scioccato? Ne dubito. Cinque anni prima della sua grande rivoluzione nel 1949, egli inviò a Washington un messaggio segreto. “La Cina deve industrializzarsi”, scrisse. “Ciò può essere fatto solo attraverso la libera impresa. Gli interessi cinesi e americani combaciano, dal punto di vista economico e politico. L’America non deve dubitare che saremo collaborativi. Non possiamo rischiare nessun conflitto.”
Mao si offrì di incontrare alla Casa Bianca Franklin Roosevelt, il suo successore Harry Truman e ancora il suo successore Dwight Eisenhower. Venne ogni volta respinto o volutamente ignorato. L’opportunità che avrebbe potuto cambiare la storia contemporanea, evitare certe guerre in Asia e salvare innumerevoli vite venne sprecata perché questi tentativi di apertura furono ignorati dalla Washington degli anni Cinquanta, “quando la trance catatonica della Guerra Fredda”, scrisse il critico James Naremore, “teneva il nostro paese in una morsa inflessibile”.
Eric Li, un investitore e politologo di Shanghai, mi ha detto: “Sono solito raccontare una barzelletta: in America puoi cambiare i partiti politici, ma non puoi cambiare la linea politica. In Cina non puoi cambiare il partito, ma puoi cambiare la linea politica. I cambiamenti politici che sono avvenuti in Cina negli ultimi 66 anni sono stati più ampi e più profondi di qualsiasi altra potenza di cui si abbia memoria.”
Nonostante tutte le difficoltà di chi non trae beneficio dalla rapida crescita della Cina, come i lavoratori arrivati dalle campagne che ora vivono ai margini di città costruite nel nome del consumismo sfrenato, e come quei coraggiosi di Tienanmen che sfidarono “il centro”, cioè il Partito, ciò che è sorprendente è il diffuso senso di ottimismo che accompagna l’epica del cambiamento.
Il mondo si sta spostando verso est; ma l’incredibile visione che la Cina ha dell’Eurasia è a stento capita in Occidente. La “Nuova Via della Seta” è un nastro di rotte commerciali, porti, oleodotti, treni ad alta velocità che arrivano fino in Europa. La Cina, il leader mondiale della tecnologia ferroviaria, sta negoziando con 28 paesi per la costruzione di ferrovie dove i treni raggiungeranno i 400 chilometri orari. Questa apertura al mondo gode dell’approvazione di gran parte dell’umanità e sta portando all’avvicinamento di Cina e Russia; e stanno facendo tutto da soli, senza di “noi”, senza l’Occidente.
Noi – o, per lo meno, molti di noi – rimaniamo alla mercé degli Stati Uniti, che si sono intromessi con la violenza negli affari interni di un terzo dei membri delle Nazioni Unite, rovesciando governi, sovvertendo i risultati elettorali, imponendo embarghi. Negli ultimi cinque anni, gli Stati Uniti hanno venduto armi letali a 96 paesi, molti dei quali sottosviluppati. Dividere le società per controllarle è la politica statunitense, e le tragedie dell’Iraq e della Siria ne sono la dimostrazione.
“Io credo nella straordinarietà dell’America con ogni fibra del mio essere,” ha detto Barack Obama, evocando il morboso attaccamento nazionalista degli anni Trenta. Questo moderno culto della superiorità è l’Americanismo, il predatore più temibile del mondo. Accompagnato da un lavaggio del cervello che lo presenta come un concetto illuminante, esso si insinua nelle nostre vite.
A settembre il Consiglio Atlantico, un gruppo di esperti di geopolitica statunitensi, ha pubblicato un report che pronosticava un mondo hobbesiano “caratterizzato dalla fine dell’ordine, da estremismi violenti [e] da un’epoca di guerra perenne”. Una Russia “risorta” e una Cina “sempre più aggressiva” erano identificati come i nuovi nemici. Solo l’America, eroicamente, può salvarci.
C’è una caratteristica che rende folle questo bellicismo. È come se il “secolo americano” – così proclamato nel 1941 dall’imperialista statunitense Henry Luce, proprietario della rivista Time – fosse giunto alla fine senza che ce ne rendessimo conto e nessuno abbia avuto il coraggio di dire all’imperatore di rinfoderare le sue pistole e tornarsene a casa.
John Pilger