LA CITT DOVE SONO NATO E IL SUO DESTINO

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blankDI JAMES HOWARD KUNSTLER
Clusterfuck Nation

Ero nella città dove sono nato, New York City, durante il weekend. Tutti, così sembrava, erano fuori ad affollarsi nelle strade e nei parchi, con un tempo molto variabile. Le magnolie e i sanguinelli stavano germogliando. Ogni cosa illuminata dal fogliame dorato era tutto un brillare. La scintillante condizione fisica della città era dovuta di certo all’andamento del flusso del denaro che usciva a fiotti da Wall Street negli ultimi vent’anni, nonostante il grande rutto del 2008.

In tutta la mia vita non ho mai visto New York meglio di così – erano migliorati perfino quei quartieri che un tempo erano brutti come il Bowery – ma era difficile non rimuginare sul suo destino. Si potevano leggere i blocchi di edifici come una tavola cronologica. Riflettevano l’improvviso dinamismo di questa nazione, l’afflusso della prodigiosa ricchezza del continente in una manciata di decenni che avevano trasformato l’isola di Manhattan in un colosso urbano che, a partire dal 1920, sbalordiva anche gli intellettuali d’Europa che risiedevano nella città.La città esplose in verticale in pochi decenni quando il genio dell’ingegneria e del business di Thomas Edison rese possibile fornire elettricità a ogni blocco. Passammo il periodo subito dopo la Guerra Civile a costruire palazzi di calcare e cumuli di mattoni tanto imponenti quanto quelli di Parigi e Londra (e quasi delle stesse dimensioni), e poi dal 1890 circa in poi li abbattemmo tutti nel momento in cui l’ascensore rese possibile affittare centinaia di appartamenti o una serie di uffici nello stesso “perimetro” immobiliare dove prima c’erano soltanto una dozzina di unità affittabili.

Si potrebbe anche leggere la storia delle nostre risorse energetiche negli edifici. Fino al 1920 circa, gli edifici venivano riscaldati con il carbone. La mole e la scomodità del carbone erano attenuate da orde di immigrati sottopagati che si contendevano la materia prima nei seminterrati e la spalavano nelle fornaci in turni di lavoro a rotazione. Ciò permise, pressappoco nel 1908, di riscaldare un edificio che conteneva più di centinaia di appartamenti. Mia madre e mio padre crebbero in edifici di 20 piani come questo.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, quando i motori delle navi corazzate furono convertiti dal carbone al petrolio, le fornaci dei grandi edifici urbani seguirono la stessa tendenza. Il petrolio, rispetto al carbone, era molto più semplice da trattare, trasportare, immagazzinare e usare. Lo si doveva soltanto trasferire con un tubo da un’autobotte a una cisterna nel seminterrato. Non c’era bisogno di un triplo turno di ucraini per far funzionare le caldaie. Non c’era bisogno di centinaia di pattumiere nel vicolo per depositare la cenere. Ciò eliminava uno dei limiti pratici delle fattezze dei grandi edifici. Così a partire dal 1920, ci fu un proliferare di grattacieli, tra cui i più imponenti del mondo: il Chrysler building, l’Empire State Building, motivi di assoluta meraviglia per persone nate alla luce delle candele in paesini insignificanti.

Avremmo potuto costruire altre stravaganze del genere se non fosse stato per la crisi dei capitali che chiamiamo Depressione – all’improvviso non c’era denaro! – e poi scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Quando finì, New York ricominciò a crescere verso l’alto. Solo in quel momento entrò in vigore un nuovo canone stilistico: il Modernismo, il quale impose che gli ornamenti erano out, le superfici semplici e lisce in, e i tetti degli edifici piatti. Questo inaugurò l’epoca dei blocchi in vetro. Dopo un po’, fu difficile distinguerli l’uno dall’altro e non c’era niente di speciale in nessuno di essi. Persino il più canonico blocco in vetro, il Seagram building (1958), fu celebrato più per la sua piazza vuota davanti a Park Avenue che per l’edificio di vetro brunastro in se stesso. Strade come Sixth Avenue divennero voragini vertiginose di blocchi in vetro identici, derisi ovunque tranne che nelle scuole di architettura.

Uno degli oscuri segreti del movimento modernista era quello di sbarazzarsi degli ornamenti e realizzare tetti piatti ideologicamente obbligatori che permettessero all’America corporativa di costruire edifici enormi molto più a buon mercato, e l’enorme guadagno nella superficie affittabile fu un sostegno supplementare. In breve tempo, la torre di blocchi in vetro poté essere identificata con tutte le peggiori caratteristiche dispotiche della vita corporativa – presentare un Darth Vadarish vuoto di fronte alla strada, nascondere progetti per truffare il pubblico o per inquinare l’aria e l’acqua o per fare il protettore del complesso militare-industriale.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale accadde un’altra cosa. Fummo in grado di sostituire le fornaci a petrolio nelle nostre mega-strutture con il gas naturale. Il gas era persino più conveniente del petrolio. Non c’era bisogno che arrivasse un camion due volte al mese per riempire il serbatoio. Anzi, una rete di tubazioni di gas, grande quanto la città, lo distribuiva in modo continuo ovunque e tutto ciò che si doveva fare era aprire la valvola. Ora riscaldare un edificio gigantesco non era più un problema, tantomeno un lavoro.

La storia dei grattacieli sembrò raggiungere il suo punto finale con la costruzione delle sfortunate Torri Gemelle del World Trade Center (1970), seguita da più di un decennio d’embargo del petrolio, di sconvolgimento economico, di tassi d’interesse sorprendentemente alti e d’incertezza politica. Fu anche l’epoca in cui New York City ebbe un tracollo economico. Il tasso di criminalità subì un’impennata. I lavavetri gestivano un racket di estorsioni lungo le rampe sul ponte. I graffiti spuntarono ovunque come la scrofola. La città era rovinata e il presidente Gerald Ford, in una frase che passò alla storia, disse al consiglio cittadino di “crepare” (almeno secondo il New York Post). Sembrava disperato.

Ma dalla metà del 1980, i giacimenti petroliferi in Alaska e nel Mare del Nord tolsero potere alla OPEC e il prezzo del petrolio iniziò a scendere fino a raggiungere il punto minimo di 11 dollari al barile all’alba del XXI secolo e, come se non fosse abbastanza, lo sviluppo dell’economia suburbana esplode con il ritrovamento di titoli di stato provenienti dalla conversione di beni immobili. L’America avrebbe potuto sbarazzarsi della sua unta e vecchia economia industriale, ma Wall Street stava proprio allora gonfiando un nuovo mercato indirizzato a ogni genere di “derivati” in grado di produrre “denaro” dall’aria rarefatta, in apparenza da un mare di promesse di restituire i prestiti – producendo una sopravvenienza di bonus per i maghi che progettavano queste operazioni – e i nuovi ricchi alla fine si esprimevano in ciò che credo sarà visto come il momento culminante del boom della città nei beni immobili verticali.

In anni recenti, in tutta Manhattan si potevano vedere gru innalzare nuove lucenti torri di condomini e edifici per gli uffici. All’improvviso sorge un problema. A parte il completo fallimento della finanza dei beni immobili diffusasi in tutta l’economia come un cancro, c’è l’intera questione di ciò che accade a un organismo urbano pieno zeppo di così tante torri gigantesche. Quello che vediamo oggi a New York nei canyon di muratura e vetro sembra normale, inevitabile, permanente. Personalmente penso che sia una grave anomalia della storia con un tragico destino.

In questi giorni assistiamo a una controversia popolare, il cui portavoce memorabile fu lo scrittore David Owen del New Yorker Magazine, secondo cui Manhattan è il più “verde” agglomerato umano concepibile per il fatto che puoi stipare così tanta gente nelle torri su minuscoli pezzi di terra. Tutto questo è un’illusione, sebbene sia diventata l’opinione dominante negli ambienti d’elite. Il grattacielo è già un oggetto del passato. Non lo sappiamo ancora (così come non sappiamo che l’Happy Motoring è vicina alla fine). Anche se il boom dei gas di scisti continua a mantenere i prezzi abbordabili per un po’di tempo, siamo di fronte a una serie di problemi che presto renderanno la città del gigantesco grattacielo obsoleta. L’hardware della rete di distribuzione elettrica statunitense è decrepito. Siamo a corto di capitale. Il capitale diventa ancora più insufficiente.

La Recessione/Depressione, in qualunque modo vogliate chiamarla, che sta arrivando sarà una lunga, macabra sgobbata, forse una condizione duratura che inaugura una nuova età buia. Senza una scorta in continuo aumento di risorse energetiche, le operazioni di crescita del capitale cessano. Tutto questo è già evidente, nonostante gli abbaglianti stratagemmi nella contabilità delle grandi banche, la Federal Riserve, e delle agenzie governative che le incoraggiano.

È possibile che la ragione più grande del superamento dell’età della città dei grattacieli sia la probabilità che non saremo in grado di ristrutturare questi edifici, in particolare i più recenti con gli impianti più sgargianti realizzati con materiali della più alta tecnologia, persino quelli che si definiscono “verdi”. Non avremo il capitale per ristrutturare questi edifici e siamo certi di non avere i materiali modulari di costruzione per fare il lavoro. Questi sono edifici che hanno in sé una sola generazione di vita. Non saranno riusati con adattamenti, e quando saranno dimenticati non sapremo che farcene. Certo, non verranno dimenticati tutti nello stesso momento, ma alla fine col tempo perderanno tutti di utilità e di valore. Non saranno più attivi, saranno passivi.

La città appare grande in questo momento della storia a causa dello tsunami di denaro che le è scivolato addosso per un paio di decenni. Ma questo è il punto di svolta. Da qui in avanti poche cose saranno fissate ogni mese. Dopo un po’ sarà dimostrato. Torneremo piuttosto in fretta alle condizioni in cui eravamo nel 1970, ma il processo non si fermerà qui. A pochi secoli da adesso, il ricordo dell’odierna consuetudine sembrerà la più esotica meraviglia che la razza umana abbia mai realizzato. Ma la maggior parte di essa sarà passata.

Un seguito del mio romanzo del 2008 sull’America post-petrolio, “World Made By Hand”, sarà pubblicato nel settembre 2010 da The Atlantic Monthly Press. Il titolo è “The Witch of Hebron”.

Titolo originale: “My Hometown and Its Fate”

Fonte: http://www.kunstler.com
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12.04.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FEDERICA DI EGIDIO

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