DI UGO BARDI
Si parla molto in questi giorni della “borsa iraniana del petrolio” che
il governo iraniano avrebbe in programma di aprire per commerciare il
petrolio iraniano in euro piuttosto che in dollari. Si dice che
l’apertura di questa borsa potrebbe essere un “casus belli” sufficiente
per gli Stati Uniti per attaccare l’Iran.
Sotto certi aspetti, queste preoccupazioni non sono prive di logica.
L’abbraccio (quasi mortale) fra dollaro e petrolio è qualcosa che va
avanti dai primi anni ’70, quando gli Stati Uniti si ritirarono
unilateralmente da quella serie di accordi nota come “Bretton-Woods” che
prevedeva la convertibilità dei dollari in oro e viceversa. L’abbandono
degli accordi di Bretton Woods avrebbe potuto avere conseguenze
apocalittiche sull’economia americana, ma dopo una fase difficile, il
dollaro riemerse più forte che mai. Era ancorato questa volta a una
commodity ben più robusta e utile per l’economia mondiale di quanto non
lo fosse l’oro: il petrolio.Da allora, petrolio e dollaro sono stati una coppia inseparabile. Tutto
il petrolio mondiale veniva, e viene tuttora, venduto in dollari. Questo
significa che chiunque nel mondo voglia acquistare petrolio deve per
prima cosa procurarsi dei dollari. Per fare questo deve dare in cambio
qualcosa all’unica agenzia autorizzata a stamparli: la banca centrale
degli Stati Uniti. In pratica, con questo meccanismo gli Stati Uniti
controllano il mercato del petrolio e non è cosa da poco: si tratta oggi
di un giro di circa 1500 miliardi di dollari all’anno. A questo si
aggiunge il commercio mondiale di gas liquefatto e di carbone, anche
questi normalmente prezzati in dollari.
Se la moneta scelta per le transazioni non dovesse essere più il
dollaro, le conseguenze sarebbero importantissime con la possibilità di
spostare il centro di dominazione geopolitico mondiale dagli Stati Uniti
all’entità che gestisse questa nuova moneta. E’ evidente la posta in
gioco ed anche altrettanto evidente l’opposizione che qualsiasi
tentativo del genere incontrerebbe. Fino ad oggi, c’è stato solo un
tentativo di qualche peso in questo senso, la decisione del 2002 da
parte del governo di Saddam Hussein di vendere il petrolio iracheno in
euro, cosa che secondo alcuni è stata una delle ragioni per l’invasione
del 2003. La “Borsa Iraniana del Petrolio” potrebbe essere qualcosa che
si colloca nella stessa linea e che potrebbe generare ulteriori azioni
militari nella zona del golfo.
Queste ipotesi non sembrano del tutto campate in aria, ma potrebbero
essere anche molto esagerate. In effetti, sono immense le difficoltà che
l’Iran potrebbe affrontare per generare un “effetto valanga” di
allontanamento dal dollaro. L’Iran produce meno del 5% del petrolio
mondiale e ne vende circa la metà sul mercato mondiale, il resto lo
consuma internamente. La produzione Iraniana di petrolio sembrerebbe
aver già raggiunto il suo picco ed essere ormai in declino. Per finire,
il greggio Iraniano è del tipo “pesante” che richiede una raffinazione
più complessa e costosa di quello “leggero” prodotto in altre aree.
Anche se nella situazione attuale il sistema mondiale non può fare a
meno del petrolio Iraniano, l’Iran rimane comunque un produttore
marginale in confronto a paesi come l’Arabia Saudita, L’Iraq (almeno in
potenza), la Russia e gli stessi Stati Uniti.
Sembrerebbe in effetti che la famosa “borsa iraniana del petrolio” sia
più che altro una leggenda che si trova soltanto nella stampa
occidentale. Un esame dei siti internet iraniani in inglese mostra che
non parlano molto di queste cose, se non, paradossalmente, riprendendo
notizie prese dalle agenzie occidentali. Esaminando i commenti di vari
esperti di finanza petrolifera, poi, si trova un diffuso scetticismo
sulla notizia (vedi per esempio
http://www.energybulletin.net/13192.html). Allora, cosa c’è di vero
inquesta storia?
Nella pratica, nulla impedisce al governo iraniano di provare a mettere
su una “borsa del petrolio” ma i risultati difficilmente saranno
devastanti come qualcuno sembra credere. Il petrolio viene oggi
commercializzato principalmente nelle borse di New York e Londra, non è
ovvio che i traders vorrebbero spostarsi in Iran per una borsa che
avrebbe l’unico vantaggio di trovarsi in vicinanza di un produttore che
controlla, al massimo, qualche percento della produzione mondiale. Se la
cosa fosse boicottata attivamente dai principali attori del commercio
internazionale non ci sarebbe bisogno di bombe atomiche per fermarla.
Quello che il governo Iraniano può fare, al massimo, è di vendere il
proprio petrolio direttamente in Euro a chi lo vuol comprare. Questo
potrebbe avere un valore dimostrativo, ma da solo non stravolgerà
certamente il mercato.
In fin dei conti, il nocciolo della dominanza planetaria del dollaro non
sta tanto nel fatto che il petrolio viene comprato in dollari, ma in
quello che succede ai dollari dopo che sono stati usati per comprare il
petrolio. Ovvero, una volta che i dollari sono finiti nelle tasche dei
petrolieri, dove vanno a finire? La risposta è che, al momento, in gran
parte ritornano negli Stati Uniti in forma di investimenti bancari,
immobiliari e azionari. Questo vale sia che i petrolieri siano le
multinazionali occidentali sia gli sceicchi del Medio Oriente. E’ questo
immenso flusso di ritorno dei cosiddetti “petrodollari” che rende gli
Stati Uniti la maggior potenza economica e militare mondiale.
Nessuno è obbligato a investire i petrodollari negli Stati Uniti; se
qualcuno li vuole trasformare in Euro, Rubli, o Yuan cinesi o che altro
lo può fare quando vuole. Investirli negli Stati Uniti è una scelta
dettata dalla percezione generale di stabilità e di convenienza degli
investimenti. Tuttavia, il sistema mondiale del commercio del petrolio
(noto anche sotto il nome equivalente di “globalizzazione”) sta
mostrando segni preoccupanti di instabilità. Questa instabilità non è
dovuta tanto all’azione politica di qualche potentato locale ma al
graduale esaurimento del surplus produttivo che era stato comune fino a
poco tempo fa. Se il petrolio si fa scarso, la tentazione di chi lo
produce è di *non* venderlo. Ovvero, se i proprietari dei pozzi
riterranno che i prezzi siano destinati a continuare ad aumentare, gli
conviene tenere il petrolio nei pozzi piuttosto che trasformarlo in
dollari, euro, Yuan, o conchiglie di fiume del Belucistan. Questa è una
situazione del tutto nuova, di cui non tutti si sono ancora resi conto,
ma che ha il potenziale di destablizzare un sistema economico
globalizzato che ormai tutti consideravamo la normalità.
Non sarà certamente il presidente Iraniano Ahmadi-Nejad l’untorello che
scardinerà il mercato petrolifero mondiale. Ma niente è eterno,
specialmente le cose che ci sembrano le più stabili.
Ugo Bardi*
Fonte: http://petrolio.blogosfere.it
Link: http://petrolio.blogosfere.it/2006/03/supereroi_e_bor.html#more
6.03.06
*Docente dal 1990 presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze. La sua carriera precedente include periodi di studio e insegnamento presso le università di New York, Marsiglia, Berkeley e Tokyo. Attualmente si occupa di nuove tecnologie energetiche e di politica dell’energia È membro dell’associazione Aspo, un gruppo di scienziati indipendenti che studiano le riserve di petrolio mondiali e il loro esaurimento.
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