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La Redazione

 

I piu' letti degli ultimi 30 giorni

IRAN – LA ROSA DI HAFEZ

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A cura di Davide
Il 10 Febbraio 2013
539 Views
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DI FULVIO GRIMALDI
fulviogrimaldi.blogspot.it

Il Saggio

Ero perso con lo sguardo verso il mare
Ero perso con lo sguardo nell’orizzonte,
tutto e tutto appariva come uguale;
poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo,
ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione
di essere imprigionata fra le spine
non l’ho colta ma l’ho protetta con le mie mani,
non l’ho colta ma con lei ho condiviso e il profumo e le spine tutte quante.

Iran live

Siamo a Shiraz, la città dei giardini, dei tappeti, delle rose, del vino, coltivati fin dai primordi dell’impero persiano, quando c’erano Ciro il Grande e poi Dario e Serse e le infinite dinastie che nell’immenso spazio tra Indù e Mesopotamia hanno fatto fiorire una delle più prospere e lussureggianti civiltà dei tempi antichi. Civiltà dei giardini, degli immani templi e monumenti, e, con Ciro, della prima formulazione giuridica dei diritti umani fondamentali. Inevitabilmente civiltà delle lettere, dell’arte, della poesia. E ci  tocca un’esperienza indimenticabile, uno di quei momenti stellari che ti danno la commozione della bellezza umana viva tra gli altri e, insieme, il dolore di quella che da noi si è dissipata. Al centro di uno degli innumerevoli giardini, detti del Paradiso (termine nato qui), con cui l’uomo ha aiutato la natura a vincere sui deserti e che ad alberi, fiori e uccelli ha offerto oasi di felice convivenza, sta la tomba del poeta Hafez, uno dei massimi, dei più amati di ieri e di oggi. Oggi, come da cinque secoli, donne, uomini, bambini, di Shiraz, scolari, operai, contadini, casalinghe, anche in pellegrinaggio da tutto l’Iran, si avvicinano in silenzio al sepolcro, vi sostano, uno dopo l’altro lo sfiorano con mano leggera. Se ne percepisce l’amore, la gratitudine, l’intimità con un padre il cui canto continua a vibrare nei cuori. Fuori dal cancello del sacrario, un sorridente venditore di versetti del corano e di detti del poeta sollecita la sua cocorita a scegliere col becco quanto sicuramente non si addice che a te, viandante. Sul foglietto leggo: “Non essere vanitoso, aiuta piuttosto gli altri”.


Mashad, santuario-sepolcro dell’8° Imam.

Nel paese che a noi viene presentato come schiacciato dall’escludente tirannia del pensiero unico religioso, la poesia è istinto e anima, guida e forza. Tanto nell’eremo fiorito di Hafez, quanto nei luoghi di altri protagonisti di una cultura millenaria, mai impolverata, mai obliata, mai sopraffatta dagli idoli rumorosi della modernità tecnocratica. Poeti, scienziati, cesellatori, calligrafi, creatori di storia e di storie, vindici della giustizia e della dignità. Quanto anche nella “Casa dell’Arte”, splendida villa nel cuore di Tehran, nel parco animato dai mormori delle fontane e dai cinguettii di uccelli che, irriducibili, oppongono ali e canto all’aggressione dello smog. Qui, in un affollato andirivieni, celebri laureati della creatività iraniana si mescolano ai giovani della nuova scena artistica, cinematografica, letteraria. Mostre di pittori, laboratori di idee, le più significative uscite del mondo editoriale internazionale, da Harry Potter a Galeano, da Foucault ai realisti magici, passando attraverso Calvino, Grass, Darwish.

Persepoli

Da Ciro il Grande ai ragazzi dei video

In una delle tante sale cinematografiche tre ragazzi salgono sul palco tra gli applausi, a ricevere il premio per il loro video sui vizi e virtù del trasporto pubblico nella capitale: ampie corsie riservate a rapidissimi bus, i meandri del metrò, la stagnazione tra i gas di un traffico micidiale (ma sempre meno allucinato e violento di quello romano). In un’altra sala, uno dei grandi del cinema iraniano, settima arte assurta dopo la rivoluzione a protagonista mondiale, a dispetto di censure imposte a chi è visto come collaboratore dei destabilizzatori esterni di questo paese, intrattiene giovani allievi e appassionati sui lavori dell’imminente Berlinale, dove ancora una volta il nuovo cinema iraniano la farà da mattatore. Sulle panchine del parco, giovani coppie si tengono per mano, interrompono l’incanto degli scambi di “amorosi sensi” per sorriderti e salutarti con la mano.

E per mano nella piazza dell’Imam, che abbraccia la moschea di Isfahan, la più grande e architettonicamente spettacolare piazza del mondo, si tengono altre coppie, giovani e meno giovani, passeggiando nei viali, o accoccolati sui curatissimi prati, tra famigliole al picnic, pensatori solitari, bimbetti che s’inseguono schiamazzando. Avevamo sentito dire da Shirin Ebadi, dissidente in giro per il mondo per diffondere la vulgata occidentale sui “misfatti degli Ayatollah” e sulle sventure della società iraniana, donne in testa, che a quelle a cui spuntasse una ciocca di capelli da sotto al velo venivano riservate, in piena strada, le frustate della “polizia morale”.  Deve essere stato una nostra ostinata renitenza alle rabbiose e accorate denunce delle nequizie integraliste inflitte alla società iraniana ad averci resi ciechi alla realtà di donne tutte sepolte dallo chador e inibite dal minimo spazio di autonomia. E evidentemente le migliaia di donne sole, o in compagnie di amici, fidanzati, mariti, con la ricca capigliatura tracimante da leggeri foulard a malapena appesi sulla nuca, che abbiamo incrociato per ogni dove, ce le ha fatte immaginare la nostra perversa abitudine a diffidare di Shirin Ebadi  e delle assordanti voci del padrone che le fanno da coro. Del resto, la venerata pasionaria dei diritti delle donne in Iran, l’abbiamo sentita direttamente dichiarare agli studenti di un liceo italiano che in Siria è meglio che vincano i ribelli salafiti di Al Qaida piuttosto che Bashar el Assad.  Piccola crepa nel tripudio femminista.

Il velo, alibi dell’aggressione

Certo, sono anche tante le donne che indossano l’Abaja, la tunica nera che lascia libero solo l’ovale del viso. La vestono nelle occasioni pubbliche, nei luoghi dell’amministrazione, sono più frequenti nei centri minori e nelle campagne, ma sarebbe un azzardo etnocentrico sentenziare se tale abbigliamento lo subiscano come imposizione, o lo rivendichino come identità. Ci sarà l’uno e l’altro. In ogni caso, gli anatemi e le aporie le lasciamo a chi ha molto poco da stigmatizzare sull’immagine della donna che in Occidente viene proposta dallo strumento totalizzante della telecrazia, tipo Grande Fratello, Sex and the City, Amici e pornospettacoli vari in “fascia protetta”, quali le inenarrabili oscenità di un Bonolis. Quando la veneranda Shirin Ebadi ci minchiona con la storia delle donne escluse dalla società attiva, dall’istruzione, da incarichi di livello, ci sono a smentirla i dati ONU che pongono l’Iran tra i primi paesi della regione e dell’Asia per Indice di Sviluppo Umano: il 65% degli studenti universitari sono donne e donne sono spesso la maggioranza nelle professioni a più alta qualifica: medici, giuristi, biologi, giornalisti, dirigenti aziendali. Il 70% degli iraniani ha meno di trent’anni, si prospetta una società dove la parola delle donne avrà un peso determinante. Come nel diritto di famiglia, eredità, divorzio, affidamento dei figli, della cui evoluzione necessaria ci ha parlato Leila Wallahi, figlia di operai, cieca, avvocato impegnata su questi temi. Di una cosa, però, si può essere certi: angustiano i feldmarescialli della democrazia da esportare molto meno i veli e i limiti delle donne che non la sanità universalmente assicurata e gratuita, l’istruzione garantita senza oneri a ogni classe sociale, lo sforzo per case dignitose per tutti, l’eliminazione progressiva della povertà attraverso una distribuzione della ricchezza che rispetto all’abisso tra ricchi e poveri sotto lo Scià pare un paese scandinavo, la cura dell’ambiente, l’incondizionato appoggio alla ricerca e alla cultura. La gente in Iran  considera queste cose diritti umani.

Musica bandita? Donne frustate? Lapidazioni?

I Photoshop del giornalismo occidentale

Ricordate lo tsunami di passione per Sakineh? La signora che con l’amante aveva prima avvelenato e poi fulminato il marito? Dal noto Saviano, sempre pronto al fischio del Mossad, all’universo mondo dei diritti umani a stelle e strisce, questo assassinio premeditato ed eseguito a sangue freddo era diventato il piedistallo sul quale innalzare il monumento alla donna-martire dell’oscurantismo. Un avvocato cialtrone, poi rigettato dall’imputata, si era spinto fino a negare il delitto, pure confessato in tutti i barbari dettagli.  In tutto il mondo occidentale ci si è strappati capelli e vesti sull’orrore della lapidazione riservata alla santa donna. Lapidazione mai sentenziata, non praticata da molti anni, cancellata dal codice penale. Sakineh è viva e sta in carcere. Forse rischia ancora la pena di morte, che non ci piace, né in Iran né negli Usa, né in Cina, né in Arabia Saudita. (regime nostro amico che invece lapida, frusta, recide arti).

Avevamo anche letto che guai a provare a far musica per strada, all’aperto. Punizione inevitabile e immediata. Ciondolavamo, appunto, per quella fantastica piazza di Isfahan, città dei ponti sui quali poteva aver passeggiato anche Harun el Rashid, il grande califfo delle Mille una notte, quando abbiamo incrociato una torma di ragazzi, studenti medi, indistinguibili peraltro da quelli che avremmo potuto incontrare all’uscita di qualche Mamiani o Virgilio. Parlavano inglese, ed è subito stato uno scoppiettio di saluti, risate, battute. Uno aveva a tracolla la custodia di una chitarra. Lo abbiamo pregato di suonarci qualcosa e il ragazzo, sopraffatto dagli incitamenti degli amici, ci ha regalato una canzone. Ed è subito stato folla plaudente. Il giorno dopo, sotto le arcate dell’antico Ponte Sharestan, un altro canto. In alternanza, nella fervida e grata attenzione di donne e uomini, due cantori sfruttavano l’acustica del portico sul fiume secco per far danzare tra le mura antiche note popolari di amore e rimpianto, il Zeitgeist musicale di tante culture che non si vogliono lasciar perdere negli abissi del tempo. C’era nei volti compresi, nel fervore dell’ascolto, la stessa ricchezza d’animo che ci aveva investito sulla tomba del poeta Hafez.

Nucleare civile libero! Aria pulita libera!

Rientrati sulla sponda veniamo travolti da un corteo di centinaia di bambini, affiancato dagli applausi e incitamenti di altrettanti genitori. Ci viene tradotto uno dei cartelli che quest’onda scatenata brandisce, un po’ cantando, un po’ lanciando slogan sotto l’impulso di coloro che ne dovevano essere maestri e maestre. Dice: “Abbiamo diritto a un’aria pulita quanto all’energia nucleare”. Due rivendicazioni in una: se voi volete che condividiamo la vostra difesa dell’energia nucleare a uso civile, dovete anche provvedere a salvaguardarci dall’inquinamento. C’è tutta la cittadinanza. Ed è tutto l’Iran, nelle grandi città soffocate dai gas di scarico, ha sostenere il diritto, prima, il bisogno, poi, di rimpiazzare gli idrocarburi in inevitabile esaurimento con energia pulita, non solo nucleare. Chi ogni due per tre, nel consenso degli utili idioti delle nostre parti, da Tel Aviv promette di assalire l’Iran, “cuore del terrorismo mondiale e imminente bombarolo atomico”, vorrebbe occultare le sue 400 bombe atomiche, la guerra infinita contro i suoi vicini, la pratica tattico-strategica del terrorismo, il rifiuto della firma del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (firmato e osservato da Tehran), il rifiuto di collaborare con  l’AIEA, agenzia atomica, che invece in Iran fa tutto quello che le pare opportuno. Ma oggi è  venerdì, giorno e aria di festa e, dopo la moschea che unisce, ci piaccia o no, il 90% degli iraniani, ecco la preghiera alla vita sulle sponde di un fiume che per millenni l’ha alimentata e che non c’è più, disseccato da come il nostro di mondo ha trattato il pianeta.

Noi e gli islamici, loro e gli ebrei

E che, piaccia o no, ma sempre con rispetto per altre storie e altre spiriti del tempo, oltre all’islamica che ha compattato la nazione contro gli avvoltoi alle porte, in questo paese vivono e prosperano altre religioni. Ci sono addirittura ancora i zoroastriani, radicati nel primo impero persiano e ci sono gli ebrei sfuggiti alla “deportazione volontaria” degli imbonitori sionisti e ci sono gli armeni nelle loro splendide e affollate chiese. Ne abbiamo visitato le comunità e i luoghi di culto. 25mila sono gli ebrei, la più grande comunità della regione, che mai si sono sognati di emigrare dalla loro culla ancestrale. Superato  un cortile invaso da ragazzini alla caccia di un pallone, si entra in una delle sinagoghe di Isfahan (a Tehran ce ne sono ben 25) e si incontra il capo della comunità, Suleiman Sasson, ingegnere, professore d’università. Che tutto condivide di come gli ebrei vengono rispettati e onorati in Iran e nulla condivide di come i correligionari nella terra presunta d’origine si rapportano alla religione e alla vita dei nativi, o di come descrivono questo paese promettendo di obliterarlo. Ci ritiriamo, dopo un ampio giro d’orizzonte geopolitico che illustra la piena consapevolezza di questo israelita di dove sta il giusto e dove l’ingiusto tra Iran e Israele, con la coda tra le gambe. Ci avevano portato a sospettare che gli iraniani trattassero gli ebrei come noi trattiamo i musulmani.

Le quattro facce del terrorismo

Nelle maggiori città c’è una sede dell’Associazione di Vittime del Terrorismo, di solito gestita da figli, genitori, fratelli, congiunti di persone assassinate. Quella cui si riferisce specificamente non è l’unica forma  di terrorismo praticato dagli assedianti a partire dal 1979, quando il popolo iraniano, nelle sue varie espressioni politiche, sottrasse il paese agli orrori delle dittatura dello Scià, caro alle cancellerie, ai servizi segreti e ai fogliacci del gossip su idoli come Soraya o Farah Diba, spose del principe della tortura. 

C’è il terrore di una guerra assurda, fratricida, tra Iran e Iraq, lunga otto anni e un milione di morti, voluta e goduta da chi, come Kissinger, segretario di Stato, si augurava “il dissanguamento reciproco dei due paesi renitenti all’ordine imperiale” in costruzione. Ne sono raccapricciante testimonianza, in tutte le città, sterminate distese di tombe. C’è il terrorismo dei separatismi fomentati dagli stessi congiurati che sollecitarono quella mattanza e, prima, si adoperarono perché fosse sventato il tentativo, sotto Mossadegh, di un Iran democratico e, con il concorso anche di Enrico Mattei, sciolto dalle catene di uno supersfruttamento che arredava di lussi i salotti britannici del tè.

C’è il terrorismo delle sanzioni, un embargo di trent’anni e una successione in crescendo di misure sempre più feroci per soffocare, con il pretesto di un nucleare armato mai progettato e mai neppure iniziato ad attuare, e con la ragione vera di stroncare un tentativo di progresso nell’indipendenza e autodeterminazione. Sanzioni che si assicurano mirate esclusivamente alla leadership, ma che si sanno e vogliono destinate all’impoverimento e alla disperazione collettiva. Su quasi tutti i piani del ricatto l’Iran ha saputo difendersi e reagire, anche perché, esclusa la sedicente “comunità internazionale”, comunità criminale organizzata, la maggioranza dei paesi, come rappresentata al vertice di Tehran l’anno scorso dai 120 Paesi Non Allineati, Russia,  Cina e BRICS in testa, che hanno eletto l’Iran alla presidenza, ha compensato il sabotaggio delle esportazioni di idrocarburi e il blocco delle transazioni finanziarie. Cionondimeno le sanzioni sanno uccidere. A Tehran abbiamo visto un giovane pallido e magrissimo ricevere una trasfusione. La biologa volontaria Shirin Ravanbod è la direttrice di una Ong di medici e sanitari  che si prende cura di emofiliaci, talassemici, diabetici. Malattie endemiche che colpiscono 8 milioni di iraniani. Malattie le cui terapie dipendono da farmaci prodotti all’estero e che all’Iran dalle sanzioni è impedito di acquistare. Prove di genocidio. Ne siamo esperti, noialtri bianchi cristiani, da parecchi secoli.

Forma subdola e letale di terrorismo diffuso è la droga, strumento privilegiato occidentale di arricchimento  delle élites e di distruzione soprattutto delle nuove generazioni di società da privare della spina dorsale dell’intelletto e della volontà, fin dalla guerra dell’oppio contro la Cina. L’occupazione dell’Afghanistan è servita agli Usa per duplicare il sistema Colombia. Accanto alla cocaina, l’oppio, la morfina, l’eroina. Dal 2001, con gli Usa a controllo di coltivazione e produzione, dopochè i Taliban l’avevano sradicata, l’Afghanistan è arrivato a fornire il 92% dell’eroina mondiale. Dalla via della seta si è passati alla via della droga, con primo mercato e canale di transito Iran, il Caucaso, la Russia e conseguente sviluppo esponenziale della tossicodipendenza in questi paesi che prima a malapena la conoscevano. Il vicesegretario generale dell’ente statale preposto alla lotta al traffico e al consumo, Taha Taheri, ci ha illustrato la battaglia che il paese conduce contro questa guerra mossa ai suoi giovani, una guerra che, secondo l’attivissimo responsabile ONU della lotta alla droga e al crimine a Tehran, Antonio De Leo, conduce con migliore efficacia e intelligenza di tutti i paesi della regione.

A Mashad e nell’angolo di fuoco tra Iran, Afghanistan e Pakistan, corridoio privilegiato dei trafficanti, abbiamo constatato l’impegno iraniano per combattere la piaga. Ogni giorno in quest’area i militari iraniani sono costretti ad affrontare le bande armate che, sotto gli occhi degli occupanti, agli ordini di boss notoriamente intrecciati al regime del quisling Karzai, cercano di attraversare il confine, superando il complesso di barriere, muraglie, fossati, fili spinati allestiti per ostacolarne il passaggio. Nessun paese della regione ha saputo raggiungere il volume di sequestri realizzati dall’Iran. Che, oltre all’apparato repressivo statale, si avvale anche di una moderna e saggia strategia di lotta al consumo e di recupero di quello che si calcola sia un milione di tossicodipendenti. L’assiste un grande numero di organizzazioni non governative, sostenute dallo Stato con contributi di fondi e di mezzi terapeutici. Ne abbiamo visto all’opera una a Tehran, la “Congress Sixty”, fondata e diretta da un personaggio eccezionale, Hossein Dejakam, che ha riunito intorno a sé decine di collaboratori volontari impegnati nella terapia e nell’assistenza psicologica e materiale. Un centinaio tra ex-tossici, tossici in cura e collaboratori assistevano tra gli applausi alla consegna a donne e uomini strappati alla schiavitù della droga della “patente di persona libera”. 

 La troupe di “VisioNando” con interprete a Isfahan

Mujahedin e-Khalk come Al Qaida: terroristi cari agli Usa

Ma il terrorismo di cui si occupa l’associazione delle vittime è quello più scoperto e convenzionale: attentati e uccisioni mirate. 17mila assassinii a partire da pochi anni dopo la rivoluzione, perlopiù gente qualsiasi, artigiani, contadini, maestri, casalinghe, studentesse, ma con più recente predilezione per intellettuali, esponenti delle professioni strategiche, soprattutto scienziati nucleari. E’ una strategia che gli specialisti del Mossad e della Cia hanno insegnato ai nuclei di Al Qaida da disseminare ovunque occorresse un pretesto di intervento, che hanno praticato e fatto praticare in giro per il mondo, dalla Palestina all’Iraq, dall’America Latina ad, appunto, l’Iran. Sanno che non è in gioco il blocco della bomba atomica islamica, ma l’evoluzione di un paese che, grazie al suo sviluppo industriale, all’autonomia alimentare, all’egemonia geopolitica in gran parte della regione di cui costituisce l’asse della resistenza e alla crescente rete di nazioni opposte alla dittatura e depredazione del Nuovo Ordine Mondiale, rappresenta la lacerazione della ragnatela della globalizzazione imperiale. I sicari dei servizi impegnati in questa sanguinaria campagna di terrore diffuso e di eliminazione degli attori dell’emancipazione, sono i Mujahedin e-Khalk (MEK).

Un tempo componente del movimento di massa che ha abbattuto la dittatura, da milizia armata “per la democrazia e il socialismo” si è trasformata, sotto il dominio assoluto della guru Mariam Rajavi, ospitata e sostenuta a Parigi, in un culto esoterico che, non diversamente da sette depersonalizzanti ipernaziste come Scientology, la Chiesa dell’Unificazione del Rev. Moon, o la Falung Gong cinese, fa dei propri adepti strumenti criminali disposti a ogni obbedienza, comprese quelle relative ai rapporti personali. Rifugiatisi in Iraq e operativi contro il proprio paese dal famigerato Campo Ashraf, una cittadella misterica di tipo tibetano, nel corso della guerra con l’Iraq, i MEK, si sono poi arruolati al servizio dell’occupante Usa. La strategia degli assassini seriali contro cittadini qualunque ed esponenti della scienza e della cultura inizia allora. Ricorderete la successione di attentati con il metodo dell’ordigno esplosivo applicato da motociclisti alle’auto che trasportavano scienziati nucleari.

Uno sguardo nella realtà terrificante della manipolazione biopolitica dei propri adepti ce l‘ha offerto dal suo rifugio di Londra, Massud Bani Sadr, cugino di uno dei primi premier dopo la cacciata di Reza Pahlevi e fino agli anni ’90 rappresentante del MEK presso gli Stati Uniti e l’ONU. Imponendogli una dedizione assoluta, ne hanno imposto il divorzio e la distruzione della famiglia, insieme a una vita sotto costante minaccia di rappresaglia mortale. Una rappresaglia già operata contro altri “traditori”, nell’impunità garantita dalla potenza di lobby politiche e mediatiche occidentali, attivissime a Washington, Parigi, Londra, Bruxelles, dotate di forte capacità condizionante grazie a un’incredibile e misteriosa disponibilità di fondi. Ma la conferma de visu del lavoro trentennale di questa banda di killer psicopatici  ce l’hanno data gli incontri, a Tehran, Shiraz, Isfahan, con i congiunti delle vittime e i transfughi dell’organizzazione. Vedove, orfani, famiglie spesso povere, ora assistite dal governo, rimaste senza il sostentamento del marito, del padre, del fratello. Decine di migliaia. I loro boia, nella lista euro-statunitense delle organizzazioni terroristiche finchè operavano con Saddam, da un ordine esecutivo di Obama sono stati cancellati da quell’elenco e restituiti alla dignità di “oppositori democratici del regime”.

Savak, il dono della Cia allo Scià

Lo chiamano Museo Ebrat. E’ uno dei luoghi più agghiaccianti che questo cronista, familiare dai tempi di Dresda con le aberrazioni compiute dall’Occidente nel nome della democrazia, legge e ordine, law and order, come interpretati dai protagonisti della nostra democrazia, abbia avuto la ventura di conoscere. Era la prigione in cui la Savak, polizia segreta dello Scià, rinchiudeva, seviziava, uccideva. Un palazzo circolare di numerosi piani, concepito come cassa armonica per far rimbalzare e potenziare per ogni udito le urla dei torturati. Al centro una vasca che si faceva ribollire di corrente elettrica per immergervi chi doveva “parlare”. Nelle celle gli strumenti e i manichini di tecniche suggerite, dal covo sotterraneo nell’ambasciata Usa, dai tecnici della Cia: corpi martoriati e appesi, mani e piedi dalle unghie strappate, piante e palmi con la pelle strappata dalle frustate, gli annegamenti del waterboarding poi legalizzati da Bush e sanciti da Obama, le finte esecuzioni, le percosse senza fine, gli stupri.

La milizia MEK, neoassunta al servizio di Cia e Mossad e gratificata di sostegno e rispetto da un’opinione pubblica che si vuole lanciata contro  il “cuore iraniano dell’ Asse del Male”, ne perpetua gli obiettivi. Discepola degli stessi che istruirono la Savak,  si può dire classica espressione dell’eterogenesi dei fini dichiarati, non meno di quell’Israele che si voleva nata nel segno del riscatto dalla dittatura e del pionierismo socialista. Su tutto questo non si è sentita una parola mai, né di Shirin Ebadi, fan dei tagliagole salafiti in Siria, né degli affini che, nel 2009, elezione trionfale di Ahmadinejad, presidente più dalla parte dei poveri che dei nostalgici di Scià e saccheggi neoliberisti, dichiarata frutto di brogli mai dimostrati, lanciarono la “rivoluzione verde”. “Rivoluzione” colorata che, con l’intervento dei collaudati strumenti Usa, i Think Tank operativi della destabilizzazione nel segno della “Guerra al terrorismo e per i diritti umani”, contaminò ed espropriò quanti vi volevano partecipare con onestà d’intenti e rifiuto di strumentalizzazioni esterne. Su quel movimento impresse il suo segno il famoso episodio di Neda Soltan, giovane donna che venne proclamata vittima dei repressori e fu elevata in Occidente a icona della resistenza contro la cosiddetta dittatura dei religiosi. La clamorosa smentita, portata da un video in cui, fotogramma per fotogramma, si scopre la finzione, fu sepolta dalla complice ignavia della professione giornalistica come da noi praticata.

Non c’è bisogno di identificarsi con l’ideologia e la struttura datesi dalla Repubblica Islamica dell’Iran dopo la caduta dello Scià e l’arrivo di Khomeini. Vi si possono rivolgere le critiche che detta il personale convincimento di come gli esseri umani debbano organizzarsi e vivere. Ma se ne devono condividere la difesa della sovranità, il rispetto per una popolazione che trae il suo consenso dalla consapevolezza della sua civiltà e della sua volontà di autodeterminazione. Se ne deve sostenere la resistenza, unitamente alle migliori componenti di un’umanità che rifiuta una  sottomissione che porterebbe all’autodistruzione collettiva e definitiva. Come nel caso del Vietnam, dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia, della Siria, delle oltre 70 guerre, cospirazioni e colpi di Stato, che gli Usa, con la mosca cocchiera israeliana, hanno praticato dalla metà del ‘900 in qua, sempre più con la partecipazione dei governi vassalli, quelli che di tali aggressioni sono stati l’oggetto meritano a priori la nostra stima e il nostro appoggio. Anche la nostra gratitudine.

Quello che prevale nel mio ricordo è una gente con tutti i connotati di una civiltà della convivenza  che da noi si va perdendo nel culto indotto dell’individualismo e della competizione: sorriso, pronta amicizia, calore, ospitalità come fosse dire buongiorno, anche per noi che arriviamo con tutto il carico dei crimini e degli errori qui inflitti. Non c’era verso di incontrare famiglie, personalità, autorità, passanti, senza finire davanti a una tavola imbandita, pur non potendoci essere la prospettiva dell’offerta ricambiata. Le disquisizioni, del tutto legittime, sulle qualità e compatibilità con il nostro senso del bene e del giusto dell’ordinamento politico iraniano, le lasciamo ad altri momenti e ad altre analisi. Chi segue questo blog, il nostro lavoro, sa perfettamente quali sono i principi su cui si fonda la nostra Weltanschaung. E’ che, oggi come oggi, trovo seccante fare il grillo parlante nei confronti di chi dal mondo di cui faccio parte non ha ricevuto che sprangate sui denti. E pur si muove.

Il racconto è lungo, ma mi fermo qua. Molto altro lo potrete vedere quando, fra un po’, uscirà il nostro nuovo docufilm. Lo vorrei chiamare, pensando alla metafora della poesia di cui sopra e all’incanto della tomba del suo autore, “IRAN, la rosa di Hafez”. Che ne dite? Se avete idee migliori, fatemele conoscere.  

Fulvio Grimaldi
Fonte: http://fulviogrimaldi.blogspot.it
Link: http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2013/02/iran-la-rosa-di-hafez.html#more
10.02.2013

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