DI MARIO CAPANNA
7 dicembre, sera. Verso le 19.30 ci presentiamo in piazza della Scala. Saremo in 3/400. Una miseria rispetto alla nostra normale capacità di mobilitazione. Ecco la prova che lo spontaneismo è «una minchia piena d’acqua», bofonchia Salvatore Toscano. Fa un freddo cane e l’umidità prende alle ossa. La nebbia è così spessa che di quando in quando sembra trasformarsi in una pioggerellina fitta fitta. Come se non bastasse, piazza della Scala è stata trasformata in una piazza d’armi. Polizia e carabinieri dappertutto. Di fronte al teatro, dirimpetto al palazzo del comune, all’imbocco delle vie adiacenti, in galleria Vittorio Emanuele, in piazza Duomo.
Arrivano i primi «scaligeri», agghindatissimi. Gli uomini sono lustri come manichini. Le signore impellicciate e ingioiellate per centinaia di milioni. Uno schiaffo per milioni di poveri cristi. Per qualche minuto non succede nulla. Si infittisce l’arrivo. Auto sontuose e lucide, con autisti in livrea, depongono con grazia tirati melomani all’ingresso del tempio. Uno studente solleva, alto sopra la testa, un cartello che dice: «I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento». Parte un coro: «Borghesi, ancora pochi mesi» (ecco che le esigenze della rima costringono a svisare i tempi storici).Una coppia, impeccabilmente addobbata, fende sinuosamente i cordoni di polizia, a tre metri dagli studenti. Parte un uovo. Centro perfetto sulla spalla dell’uomo. Schizzi giallastri massacrano di rimbalzo lo stupendo abito della sua compagna. Per brevi minuti è tutto un via vai, in aria, di uova e cachi. (A proposito: la mitologia giornalistica ha fatto prevalere l’idea che si trattasse di uova marce. Sciocchezze faziose. Come sanno tutti i cuochi, è rarissimo trovare uova marce.). I tiri sono per lo più esatti. I bersagli colpiti,’ numerosi. Elevata la percentuale di smoking, toupé e pellicce messi fuori uso. La polizia mostra segni di nervosismo rapidamente crescenti. E’ chiaro che dopo l’indignazione popolare per l’eccidio di Avola ha ricevuto ordini di non intervenire fino al limite del tollerabile. Si avverte che la corda sta per spezzarsi. Ci vuole qualcosa che rompa la tensione, almeno la diluisca. Un ragionamento, ecco quel che ci vuole. Che renda esplicitamente chiaro il messaggio magmatico della protesta.
Sì, un ragionamento può essere la chiave di volta. Afferro il megafono, mi porto sotto il naso del più vicino cordone di poliziotti e attacco. Non ce l’abbiamo con voi – questo il succo del pistolotto – perché voi, come noi, siete figli di lavoratori e di poveri. Riflettete: il 74 per cento di voi viene dal Sud e dalle isole. Avete dovuto abbandonare le vostre case e vestire la divisa per il pane. Sappiamo quanto la vostra vita è difficile. Quattro giorni fa vi hanno fatto sparare su una folla di braccianti, dove magari c’era tuo padre o tuo fratello (e segnavo a dito, pronunciando quelle parole). Adesso vi fanno star qui per ore, al freddo, e per un salario misero, a proteggere i ricchi, quelli che vi hanno costretto ad abbandonare il paese e affamano le vostre famiglie. Bisogna finirla con questa situazione. Lottiamo insieme, e insieme con i lavoratori, per avere giustizia. Noi siamo qui per questo. Il primo esperimento funziona a meraviglia. Tutti i dimostranti si raggruppano intorno al megafono. I lanci cessano. I poliziotti sono sorpresi. La tensione comincia a calare. Bene.
Abbiamo trovato il filone giusto. Lo utilizziamo a fondo. Ci spostiamo vicino al cordone misto di poliziotti e carabinieri. Solita musica. Si vede dalle facce che le parole entrano dentro. Mentre do fiato al megafono, saranno le 20.15, gli Operatori della Rai-Tv, che trasmettono in diretta il fasto scaligero, hanno l’idea, provvidenziale per noi, di far sentire per un attimo le voci della piazza. Molti studenti a casa, che non sapevano nulla della manifestazione, restano con il cucchiaio della minestra a mezz’aria sentendo dal televisore la voce metallica del megafono. Schizzano via come saette verso piazza della Scala. Un’ora dopo siamo quadruplicati. Continuano i comizi volanti. Ci spostiamo nell’ottagono della Galleria, tra la Scala e piazza Duomo, dov’è schierato il maggior numero di agenti. Quando ridico dei braccianti di Avola, che lì magari c’era tuo padre o tuo fratello, vedo un agente, rigido sull’attenti nella fila, giovane, avrà 22 anni, alto e magro come uno stecco, con le lacrime che gli scendono. Termino con il consueto invito alla lotta e all’unità. Sono a due metri da quel giovane che piange. Lo abbraccio forte. Mentre lo stringo, lo sento mormorare: «Sono di Lentini». Lentini è un grande centro agricolo, a un tiro di schioppo da Avola. Chiedo scusa, ma, quando ripenso a quel fatto, mi commuovo ancora oggi. E se qualcuno pensa che questa è ricostruzione romanzata dopo vent’anni, sappia che ci sono decine di testimoni oculari di quell’episodio.
Questa è stata la contestazione alla Scala che, con mio grande cruccio, ha finito col simboleggiare il ’68 italiano. Va da sé che non avevamo nulla contro il Don Carlos di Giuseppe Verdi messo in scena quella sera. L’indomani il «Corriere» scriverà: «Gazzarra davanti alla Scala» e «Tentativi sediziosi dei dimostranti», ovvero la realtà diminuita e stravolta a tavolino.
Il brano è tratto dal libro di Mario Capanna,”Formidabili quegli anni” . pag. 38
Fonte:www.carmillaonline.it
7.12.04