''Imagine'' e il Corano. Ascoltare Lennon a Istanbul

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La Turchia, cerniera tra Occidente e Oriente, dove Maometto convive con lo Stato secolarizzato di Kemal Ataturk. Spesso senza troppe domande

DI MICHAEL DICKINSON

Anche dopo vent’anni di permanenza a Istanbul, continuo a lamentarmi quando il richiamo del muezzin mi scuote bruscamente dal sonno alle cinque del mattino. Mi rigiro nel letto e aspetto che finisca per poter sonnecchiare altre due ore, per poi essere richiamato all’ordine dalla sveglia, a un’ora meno indecente.
Tuttavia, da quando il mondo musulmano ha scoperto l’elettricità, può volerci più tempo del dovuto. Perché una volta il caro vecchio muezzin, scelto per la sua voce soave e al tempo stesso imperiosa, doveva salire le ripide scale fino alla sommità del minareto, e da lì intonare solennemente il suo invito/comando con la voce più alta che poteva, così che i fedeli che si trovavano nelle vicinanze, cedendo al suo fascino, accettassero e obbedissero. Purtroppo però, in questa era elettronica, il muezzin non deve più salire le scale: gli basta accomodarsi in fondo al suo appartamentino e strillare dentro a un microfono che porta la sua voce a un megafono, il quale a sua volta ne diffonde il suono per un’area molto più vasta di quanto avveniva ai tempi di Maometto, quando i microfoni erano ancora di là da venire.

Ora invece sono ovunque. Più che il richiamo della moschea, sembra uno sciame di mosche: l’orario della preghiera (l’azaan) ovviamente dovrebbe essere uniforme e preciso, più puntuale di qualunque orologio, e tutti i richiami dovrebbero iniziare e terminare contemporaneamente, ma non è così. Il più vicino comincia con lo svegliarti e strilla, strilla, strilla. Quando arriva circa a metà, ne comincia un altro in un quartiere vicino e continua così per cinque volte al giorno: all’alba, a mezzogiorno, a metà pomeriggio, alla sera e alla notte. Ma il primo è il peggiore.

Purtroppo per me – forse perché non devono più salire tutti quei gradini – tutte le moschee vicine a casa sembrano aver scelto, tra gli anziani che hanno fatto il pellegrinaggio alla Mecca, quelli con la voce più gracchiante, quelli che intonano il richiamo nel modo più lamentoso, stridulo e tronfio. Le parole che grida, sempre in arabo, sono senza alcuna eccezione alcuna:

Allahu Akbar («Allah è grande», ripetuto quattro volte).

Ashhadu an la ilaha illa Allah («Sono testimone che non c’è nessun altro Dio eccetto l’Unico Dio/Allah» -due volte).

Ashadu anna Muhammadan Rasool Allah («Sono testimone che Maometto è il messaggero di Allah» – anche questo due volte).

Hayya ‘ala-s-Salah («Orsù, alla preghiera, alzatevi per la preghiera» – due volte).

Hayya ‘ala-l-Falah («Orsù, al successo, alzatevi per la salvezza» – due volte).

Allahu Akbar («Dio è grande» – sempre due volte)

La ilaha illa Allah («Non c’è altro Dio eccetto l’Unico Dio/Allah»)

Per la preghiera dell’alba, viene inserita due volte anche la seguente frase, dopo il quinto richiamo: As-salatu Khayrun Minan-nawm («Pregare è meglio che dormire»).

In Arabia Saudita, luogo di nascita dell’Islam, gli uffici chiudono per 30 minuti a ogni chiamata alla preghiera. Ma in Turchia, un paese laico, nonostante il 98% della popolazione sia musulmana, si continua a lavorare come se niente fosse.

Ebbene sì: grazie a Mustafa Kemal Ataturk, rivoluzionario fondatore della Repubblica Turca, la cui immagine ci osserva dalle banconote e dalle monete, il cui ritratto adorna obbligatoriamente ogni ufficio pubblico, ospedale, bottega di barbiere e stazione di polizia, e il cui busto troneggia nei cortili di tutte le scuole, la Turchia è il più laico di tutti i Paesi islamici.

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Mi basta affacciarmi alla finestra per averne conferma. Si scorgono almeno cinque minareti (e altri sono nascosti alla vista dalla presenza di condomini), ma i passanti – studenti in divisa scolastica, ragazzi in jeans e t-shirt con il gel sui capelli, hippy, giovani coppie che camminano mano nella mano, ragazze in pantaloni a vita bassa e maglia attillata, con l’ombelico scoperto, gli occhiali da sole, i capelli tinti e il viso truccato – si avvicendano a donne con il capo coperto e l’abito lungo, qualcuna anche vestita di nero da capo a piedi e con solo gli occhi scoperti, che segue a distanza il marito barbuto, con il berrettino aderente al cranio e in mano un rosario a grani d’ambra. Un miscuglio sociale che si fonde in modo apparentemente indolore. Eppure…

Qualche tempo fa, al termine di un corso trimestrale che avevo tenuto in una delle tante scuole private di inglese di Istanbul, mi congratulavo con gli studenti per i loro progressi e auguravo loro buona fortuna, ma una donna con il capo coperto ha rifiutato la mia stretta di mano. «Non posso toccare un uomo con la mia pelle nuda», ha spiegato. «E’ contro l’Islam». Offeso, mi sono girato verso un’altra ragazza con il capo coperto, che mi aveva già stretto la mano. «Ha ragione», ha detto desolata, «ma io lavoro in banca, e quindi mi tocca farlo lo stesso».

Nella stessa scuola, mentre stavo usando una cassetta per fare un dettato (era “Imagine” di John Lennon), è cominciata la preghiera di mezzogiorno e Alì, uno degli studenti più brillanti, ha fatto segno di no con il dito. «Purtroppo il volume è già al massimo» gli ho risposto, fraintendendo il suo gesto.

«No – mi ha detto – è che deve spegnerlo quando c’è questa» indicando la finestra da cui proveniva il fragoroso richiamo alla preghiera. «E’ per Allah».

«No!» ho sbraitato furioso, indicando il ritratto di Ataturk appeso al muro.

«Qui non siamo in Arabia Saudita! Questo è un paese laico, grazie a quest’uomo! Non si ferma tutto per pregare! Se volete uscire e andare a pregare, potete farlo! Ma qui si continua a fare lezione!». Alì si è alzato e si avventato fuori, sbattendo la porta dietro di sé. Gli altri studenti sono rimasti sbigottiti, ma sono riuscito a continuare.

Il giorno dopo, mi ha convocato il preside, chiedendomi se avessi fatto ascoltare agli studenti un inno cristiano. «Sono molto preoccupati per questi cristiani evangelici che ultimamente fanno proselitismo in Turchia». «Guardi che non era un inno religioso», ho replicato. Ma Alì non è mai più tornato in classe.

In tanti anni che insegno in Turchia, ho usato molte volte “Imagine” di Lennon. Anche se non nascondo che la musica mi sembra un po’ noiosa, le parole sono importanti e veicolano idee stimolanti per tutti, a prescindere dalla religione. Quando l’ho fatta ascoltare a una classe di liceali, negli anni Ottanta, è saltato su un intelligentone, sgranandomi addosso uno sguardo di accusa: «Ma questa è una canzone sul comunismo!». In Turchia, in quel periodo, il partito comunista era stato messo fuori legge.

In un’altra scuola, nell’imminenza della prima guerra del Golfo, una ragazza fu arrestata per aver scritto «No alla guerra!» sulla lavagna della sua classe. C’era un grande silenzio l’ultima volta che ho fatto ascoltare questa canzone a una classe di universitari, circa due settimane fa, prima che prendesse la parola uno sdegnoso volontario: «Noi questa canzone la odiamo!». «Perché dici noi senza consultarti con gli altri?», gli ho chiesto. «Questa canzone è contro Dio. Noi siamo musulmani», è stata la risposta.

«Non parla di Dio», ho ribattuto. «Dice che non ci sia il Paradiso», «nessun inferno», ha insistito. «Certo che esistono il Paradiso e l’inferno. Il Corano dice così». Anche il resto della classe mi squadrava con sguardo di accusa.

«Chi ha scritto il libro?». «Come è cominciato il mondo?», ho chiesto ancora. Ne è nata una breve diatriba su Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, prima che suonasse la campanella e tutti si precipitassero all’esterno per fumare una sigaretta durante l’intervallo.

A quel punto una ragazza mi si è avvicinata, gli occhi bassi. «Lei crede ad Adamo ed Eva?» mi ha chiesto.

«No», ho risposto io, «E tu?».

«Neanch’io», ha detto riordinando i suoi appunti. «Ma loro non si fanno domande. Credono a quel che gli si dice. Ed è meglio non parlare di questi argomenti». Mi ha anche regalato un cioccolatino, ma poi è stata assente per un paio di lezioni.

Ero deluso, ma non scoraggiato. Perché ho ancora il tema di uno studente adolescente di una scuola privata a cui, alla fine del secolo scorso, avevo chiesto di mettere per iscritto le loro impressioni sulla quella famosa canzone. La maggioranza della classe non ha fatto il compito, ma uno ha consegnato il tema. Gli ho chiesto se potevo tenerlo, ed eccolo qua.

Imagine. «Mi è piaciuta questa canzone. Se mi chiede il perché, le posso dare molte risposte. Prima di tutto, la musica è carina. Il cantante canta bene. Ma la cosa più importante è che le parole della canzone sono perfette.

Quando ho ascoltato questa canzone, ho dimenticato tutti gli incubi della mia vita e sono stato felice. Mi sono sentito diverso. Perché parlava di bontà, di pace e di un mondo stupendo pieno di gente stupenda. Questo Lennon vuole che immaginiamo un mondo come il Paradiso.

E immaginiamolo. Tutti si aiutano a vicenda. Non si combatte, c’è la pace. Non ci sono sentimenti cattivi, persone cattive, guerre e malattie. Siamo felici, l’ambiente è pulito e bello.

Mi piacciono queste idee, e se tutti quelli che conoscono questa canzone la pensassero come me, il mondo vivrebbe in pace».

Michael Dickinson, scrittore di fama e artista britannico, vive e insegna a Istanbul.
Fonte:www.liberazione.it
Link:http://www.liberazione.it/giornale/050423/LB12D6BE.asp
23.04.05

Traduzione di Sabrina Fusari

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