Dopo due settimane di dibattiti accesi, venerdì scorso, si è conclusa la decima conferenza internazionale sul cambiamento climatico a Buenos Aires. Il commento di Giorgio Nebbia
DI GIORGIO NEBBIA
Hanno fatto le valige e prenotato il volo per passare il Natale a casa le centinaia di ministri, viceministri, delegati, consulenti, funzionari e lobbysti che, una volta all’anno, si incontrano qua e là per il mondo per dare ad intendere che vogliono salvare il pianeta dalle catastrofi dei mutamenti climatici dovuti all’inquinamento dell’atmosfera. Si chiamava COP-10 – con un titolo da film giallo americano – la decima “conferenza delle parti”, cioè dei paesi che avrebbero dovuto mettersi d’accordo, a Buenos Aires, su come limitare l’immissione nell’atmosfera di vari gas, principalmente anidride carbonica, che alterano il flusso di radiazione solare in entrata e in uscita nell’atmosfera.
Dopo anni di discussioni, in cui le migliori menti hanno cercato di dimostrare che non occorre cambiare niente rispetto al trionfale cammino dell’economia mondiale, che i mutamenti climatici che si osservano di anno in anno sono occasionali, che estati calde e alluvioni si sono verificate anche nel tardo paleolitico quando i camini e i tubi di scappamento non c’erano ancora, ormai la maggior parte delle persone e perfino dei governanti si sta rendendo conto che ci sono “troppe” alluvioni, che i deserti avanzano “troppo”, che i raccolti restano costanti o diminuiscono mentre la popolazione aumenta. Tali effetti negativi planetari derivano dai mutamenti della composizione chimica dell’atmosfera, per cui una frazione, piccola, ma significativa, in aumento ogni anno, di “calore!” solare resta intrappolata, proprio come all’interno di una serra, nell’atmosfera e scalda i continenti e gli oceani. Le modificazioni chimiche dell’atmosfera derivano dalla produzione e dall’uso delle fonti di energia fossili e quindi dai trasporti, dalla fabbricazione di acciaio, plastica, concimi, dall’allevamento di animali da carne, eccetera.
I governi sono così chiamati a decidere se accettare un contenimento dei consumi di energia e merceologici per rallentare la quantità di gas-serra che ogni anno finiscono nell’atmosfera, riportandola ai valori di emissioni del, diciamo, 1990, e quindi rallentare – rallentare, si badi bene, non fermare – i mutamenti climatici in corso, oppure se accettare che alluvioni, erosione del suolo, avanzata dei deserti, perdita di fertilità agricola, peggiorino continuamente.
Ma l’economia dei singoli paesi e dell’intero pianeta “deve” crescere, per definizione, sempre più rapidamente, e quindi l’uso dei combustibili fossili e delle merci “deve” crescere, e quindi la concentrazione dei gas-serra nell’atmosfera “deve” crescere rapidamente – e il pifferaio magico della crescita economica trascina allegramente la spensierata comunità umana verso la catastrofe.
La gente riunita a Buenos Aires ha discusso per una settimana che cosa si potrebbe fare: di rallentare la crescita merceologica ed economica non si parla neanche, figurarsi! Non possono frenare il consumo di energia e di merci i paesi industriali che sono già terrorizzati dal tasso di crescita che è troppo lento; non possono e vogliono frenare i consumi i paesi emergenti sulla strada dell’industrializzazione, come Cina e India, orgogliosi di porsi come nuovi imperi di fronte ai traballanti imperi americano e europeo. Non vogliono frenare i consumi i paesi poveri, che non avendo niente cercano almeno di uscire dalla miseria nera.
Qualche rimedio ci sarebbe. Si potrebbero filtrare i gas che escono dai camini delle fabbriche e delle abitazioni e dai seicento milioni di tubi di scappamento degli autoveicoli mondiali, ma ogni intervento tecnico costa dei soldi e farebbe rallentare quei profitti necessari per continuare la crescita economica. Niente da fare, quindi.
Un rimedio potrebbe essere offerto gratis dalla natura: ogni chilo di materiale vegetale che si forma nei boschi, nei prati, anche sul terrazzo di casa vostra, “porta via” dall’atmosfera un chilo e mezzo di anidride carbonica. Uno potrebbe andare dove vuole senza contribuire all’effetto serra se piantasse, ogni cento chilometri fatti in automobile, un albero che produce quindici chili di foglie e radici. Non è uno scherzo: una delle proposte dei vari COP prevede un patto del genere. Io, paese industriale, continuo a consumare energia e inquinare l’atmosfera e tu, paese povero, ti impegni, per soldi naturalmente, a piantare e conservare un po’ di ettari di bosco che assorbono un po’ dell’anidride carbonica prodotta da me. Io, paese industriale, dovrò ricuperare i soldi dati a quell’altro paese povero applicando delle imposte e facendo pagare di più le merci, la plastica, l’energia, le automobili i divani.
Vi figurate un governo che va a spiegare ai contribuenti che dovrà aumentare le tasse per evitare che i figli finiscano, fra venti anni, sott’acqua tre volte all’anno – perché questo è l’effetto dell’“effetto-serra”: l’aumento delle piogge e delle alluvioni e della siccità. Per farla breve, nessuna conferenza da anni ha fatto fare un passo verso la salvezza, verso il riconoscimento del dovere di una generazione di salvaguardare il diritto alla vita e alla sicurezza delle generazioni che verranno. Tale dovere e tale diritto non hanno posto in una società il cui unico fine è l’aumento egoistico del profitto, della ricchezza monetaria privata, oggi, a breve termine. Fino a quando non avremo il coraggio di rovesciare le attuali regole, di riconoscere il valore “economico” della solidarietà nell’ambito di una generazione e verso le generazioni future, smettiamola con queste inutili conferenze: risparmieremo almeno i soldi delle trasferte dei ministri e funzionari.
Giorgio Nebbia
Fonte:www.liberazione.it
18.12.04