IL PRESIDENTE KIBAKI, RAILA E TUTTI I KENIANI SONO IMPUTATI

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Una lettera anonima da Nairobi
The Nation

Scrivere questa lettera sarà la mia ultima azione mortale su questa terra. Ho deciso, per due ragioni, di raccogliere gli indirizzi mail delle persone preminenti che conosco e dei miei amici e mandarla da un indirizzo anonimo.
La prima è risparmiar loro lo sconforto di sapere anticipatamente quel che mi accingo a fare e quindi sottrarli ad ogni colpevolezza. E in secondo luogo perché la mia identità ora come in futuro è irrilevante- potrei essere qualsiasi persona sparsa per il paese che prova ciò che provo io.

Come potrete intuire dalla mia scrittura, sono un uomo colto. Sono laureato alle università di Nairobi e di Strathmore. Ho avuto il privilegio di ricevere un’istruzione in varie parti del mondo.
Ho lavorato a Berlino, Stoccolma, Londra, New York e in vari altri posti. Parlo correntemente sei lingue.
Ma pur con tutto quel che ho raggiunto, non ho più una ragione per vivere. Se leggendo queste parole vorrete cercarmi, andate al obitorio cittadino dove ho deciso di marcire in mezzo alla gente anonima che finisce lì.
Vi spiegherò il perché con questa lettera e, come Pavlov, mi ritirerò. Questa sarà la mia unica protesta.Mr Kibaki, io la incrimino.
Lei ha rubato le elezioni alle quali partecipare mi è costato sei ore di fila. Grazie alle sue azioni, la mia vita è cambiata irrevocabilmente. La storia non dimenticherà i grandi obiettivi e l’eredità che lei sarebbe stato chiamato ad onorare, e ricorderà che a causa della sua arroganza di credersi nel giusto, molte persone hanno perso la vita, la proprietà, e più di ogni altra cosa, la speranza.
In nome del sangue del mio popolo, io la incrimino.

Mr Odinga, presidente da me prescelto, in nome del sangue e delle lacrime del mio popolo, io la incrimino.
A causa della sua amarezza, per quanto giustificata, la mia vita cambia irrevocabilmente. La cosa maggiore che ho acquisito, la mia famiglia, è morta in nome suo. Mio figlio, il mio erede, colui che porta il nome dei miei antenati, è andato in fumo prima che potesse pronunciare il mio nome o il suo: Koitalet.
Le mie gemelle, Wanjiru e Sanaipei, furono trovate presso la mia casa bruciata ad Eldoret ferite e dissanguate. Mia moglie è morta con dentro di lei il seme di sei uomini, in uno stato finale di demenza e catatonia. Questo è successo in nome suo, signore. Perché lei deve ottenere la sua giustizia. Perché mia moglie apparteneva alla comunità sbagliata. Perché lei deve ottenere ciò che le spetta.
Lei questo lo leggerà e non proverà nulla. Lo razionalizzerà come accettabili danni collaterali. A qualcuno tocca pur di morire per il conseguimento della giustizia, non è cosi?

Keniani, in nome del sangue dei miei figli, vi incrimino tutti. Avete perso il controllo.
Avete dimenticato che la nostra appartenenza etnica è qualcosa di cui abbiamo sempre scherzato mentre sbrigavamo le nostre faccende.
Avete dimenticato che non era nostra abitudine combattere, ma mediare. Avete dimenticato che siamo un grande popolo costruito sulla schiena di grandi persone. Avete dimenticato che si tratta soltanto di elezioni. In nome del sangue dei miei figli, delle lacrime di mia moglie morta, delle lacrime delle vostre madri, delle lacrime che intridono le lenzuola di coloro che dormono nella pioggia, io vi incrimino.

PATRIOTA
Nairobi

Questa lettera è stata pubblicata venerdì sul giornale keniota “The Nation”. A me è arrivata tramite un’amica che ha fatto le scuole a Nairobi e ora vive a Gallarate. Nella mailing list dei suoi ex compagni che se la sono girata, si trovano nomi tedeschi, italiani, anglosassoni, greci, indiani, persino serbi e ovviamente africani. Nelle poche frasi che l’accompagnano, in inglese, si esprime un senso di perdita profonda e di preoccupazione per quelli rimasti laggiù.
Di questa lettera mi ha colpito la sua capacità di arrivare con mezza pagina a dare i contorni di una catastrofe irreversibile. E mi ha colpito che questo avvenga attraverso un uso della retorica che sembra avere qualcosa di disperato: come se quest’arte della parola fosse l’arma estrema che colui che scrive cerca di opporre allo sfacelo che gli ha distrutto, insieme alla voglia di vivere, ogni riferimento e ogni immagine di sé. Comporre questa lettera, redigerla secondo certe modalità espressive, mi è parso un gesto che vuole trasformare un suicidio quasi in un atto da kamikaze. Al di là di ogni giudizio estetico, credo sia utile confrontarsi col fatto che possa esistere ed apparire necessario un uso simile della scrittura. La traduzione è mia.

HJ

Fonte:www.nazioneindiana.com
Link: http://www.nazioneindiana.com/2008/02/03/il-presidente-kibaki-raila-e-tutti-i-keniani-sono-imputati/#more-5281

3.02.08

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