DI EUGENIO BENETAZZO
Cercherò di spiegarvi con termini molto semplici questo argomento, sottolineando la criticità che caratterizza questo fenomeno per il momento storico in cui viviamo. Con il termine picco di produzione massima del petrolio si vuole individuare un’epoca temporale nella storia della civiltà umana in cui il quantitativo di greggio complessivamente estratto in tutto il pianeta inizia progressivamente a diminuire, lentamente anno dopo anno. Questo significa che se oggi vengono estratti in tutto il mondo 80 milioni di barili al giorno, tra due anni se ne potranno estrarre solo 78, tra quattro anni solo 75, tra dieci anni solo 70, tra quindici anni solo 60, e così via, presumibilmente per altri 40/45 anni.
Il motivo di questa contrazione è dovuto naturalmente a cause geofisiche, infatti man mano che il greggio viene estratto da ogni giacimento, si assiste ad una diminuzione della pressione interna e ad un graduale esaurimento delle riserve stratificate di petrolio, in proporzione alla sua fluidità. Per prime vengono estratte le parti più fluide e più leggere e successivamente quelle più viscose e pesanti. In termini industriali perciò, dalla scoperta di un giacimento di petrolio, si assiste ad una esponenziale crescita nel tempo dei volumi di estrazione sino ad un momento in cui questo trend, prima si arresta dopo aver realizzato un massimo (un cosi detto picco), e lentamente inverte la sua dinamica andando ad assottigliare nei periodi temporali seguenti i volumi di estrazione.
Questo fenomeno è stato descritto ed analizzato ancora agli inizi degli anni 50 dall’emerito Prof. Marion King Hubbert, forse il più fenomenale geofisico incompreso esistito su questo pianeta.Il Prof. Hubbert, scomparso nel lontano 1989, fu il direttore delle Ricerche per la Shell in Texas durante gli anni cinquanta ed anche un prestigioso docente presso le migliori università statunitensi: la Columbia University, Stanford University, Johns Hopkins University ed il MIT.
Si distinse nel mondo accademico per una sua personale teoria geofisica riguardante lo sfruttamento delle risorse di un giacimento, teoria che venne condensata attraverso una rappresentazione grafica denominata Curva di Hubbert.
Innanzitutto stabilì che la produzione di greggio da un giacimento non rispecchia questo tipico schema di sviluppo: scoperta del giacimento, crescita dei volumi di estrazione sino ad un determinato livello di stabilità, mantenimento dei livelli di stabilità per un lungo periodo e successivamente improvvisa riduzione a zero in seguito alla fine di tutto il petrolio.
Se ci pensate un attimo questo è nell’immaginario collettivo, si pensa che si continuerà ad estrarre petrolio sino a quando ce ne sarà sul fondo. Assolutamente nulla di tutto questo.
In base agli studi di Hubbert, la produzione di greggio tende piuttosto a seguire una curva a campana: ogni giacimento petrolifero, pertanto, è caratterizzato da una curva produttiva ascendente, destinata a realizzare un picco, infine un arco produttivo discendente quando la pressione interna cala.
Facciamo un esempio concreto: il primo pozzo che perfora un giacimento è in grado di estrarre solo una quantità limitata di oro nero, tuttavia aumentando il numero dei pozzi si può progressivamente aumentare la produzione nel complesso.
In un primo tempo quindi la produzione aumenta rapidamente in quanto si riesce ad avere accesso al petrolio di prima superficie. Barile dopo barile invece, si rivela sempre più difficile arrivare al greggio che rimane: la produzione inizia a diminuire, anche se si continuano a trivellare nuovi pozzi.
Il picco di produzione si manifesta quando sarà stata estratta quasi la prima metà di ogni giacimento. Alla fine risulterà fisicamente impossibile ed economicamente non conveniente riuscire ad estrarre anche l’ultimo barile.
Hubbert, pertanto, immaginò che come ogni giacimento, anche ogni area petrolifera e di conseguenza ogni nazione dovessero seguire lo stesso tipo di curva a campana, e quindi essere soggette al raggiungimento di un picco di produzione nazionale.
Nel 1956, in seguito ad analisi personali sul tasso di crescita degli USA dal 1850 al 1950, il Prof. Hubbert, sulla base di quanto descritto sopra, allertò le comunità finanziarie ed i mercati petroliferi che, molto prima di quello che si sarebbe potuto immaginare, gli Stati Uniti d’America avrebbero raggiunto il loro picco di produzione petrolifera, e perciò in seguito sarebbero statti costretti a rifornirsi altrove di greggio. Nel dettaglio Hubbert individuava tra il 1971/1973 il periodo temporale nel futuro in cui gli USA avrebbero iniziato a diminuire progressivamente i loro volumi di estrazione.
Il povero Hubbert venne mediaticamente deriso e bannato come un profeta di sventura o un uccello del malaugurio.
Occorre a questo punto fare un quadro macroeconomico di quel periodo storico prima di fare ulteriori considerazioni sulla curva di Hubbert e sulle sue previsioni.
Tanto per iniziare durante gli anni cinquanta, gli USA erano esportatori netti di petrolio nei confronti del mondo intero, ed erano anche il più grande esportatore al mondo, vale a dire che estraevano dal loro sottosuolo molto più petrolio di quanto ne avessero bisogno ed esportavano il resto a chi ne faceva richiesta. In questo stesso periodo storico ha origine l’egemonia valutaria del dollaro americano, come moneta principe per gli scambi internazionali.
Il dollaro divenne la moneta richiesta su scala internazionale proprio perché era necessaria per acquistare il petrolio dagli Stati Uniti. Senza dollari i paesi e le grandi corporations del pianeta non potevano acquistare il petrolio: fu così che per tacita convenzione mercantile, il dollaro divenne una valuta richiesta e detenuta perché con essa si poteva acquistare il greggio.
In quel periodo storico la capitale del mondo per importanza strategica era Dallas e non New York: in Texas, infatti, risiedevano le più potenti e ricche compagnie petrolifere americane, dalla Texaco alla Exxon.
Il petrolio sgorgava con quantitativi sbalorditivi dai pozzi americani, e nessuno avrebbe mai pensato che un giorno questo trend si sarebbe potuto interrompere.
In virtù di questo ottimismo irrazionale e dilagante, come se nessuno sapesse che come risorsa limitata il petrolio prima o poi si sarebbe esaurito, il Prof. Hubbert venne tacciato di catastrofismo e ridicolizzato come uno iettatore. Ricordiamolo ancora: era il 1956.
Nel frattempo gran parte del mondo occidentale era in piena ricostruzione postbellica e necessitava di materie prime in quantitativi industriali, quindi carburanti ed additivi chimici possibili grazie alla petrolchimica. Verso la fine di quel decennio a seguito della fame che il mondo aveva di petrolio, vennero scoperti, a forza di cercare, i più grandi giacimenti del pianeta, proprio in quelle zone oggi oggetto di attenzione proprio da parte degli usa: il Medio Oriente.
Fu agli inizi degli anni 60 che gli USA vendettero l’anima al diavolo pur di tutelarsi in termini di approvvigionamento petrolifero: in quegli anni infatti gli Stati Uniti allargarono la loro federazione al 51 esimo stato. l’Arabia Saudita, attraverso un vero e proprio patto strategico.
Tuttavia, all’inizio degli anni settanta, per la precisione nel 1971, successe qualcosa di inaspettato, gli USA piccarono ovvero raggiunsero i volumi massimi di capacità estrattiva, e a partire da quell’anno videro diminuire sensibilmente e progressivamente la loro produzione di greggio, anno dopo anno. L’analisi ed i moniti di Hubbert, 25 anni prima, si dimostrarono impeccabili. Hubbert aveva ragione. Tuttavia questa crisi strutturale dal punto di vista mediatico passò piuttosto inosservata in quanto qualcos’altro di inaspettato teneva in apprensione l’intero pianeta: l’embargo petrolifero del 1973.
L’incapacità degli USA di mantenere i propri volumi di estrazione al pari degli anni precedenti creò indirettamente le condizioni di mercato affinché un evento allora imprevisto mettesse in ginocchio tutte le economie occidentali con in testa proprio la locomotiva statunitense.
Gli aiuti militari degli USA a favore di Israele in conflitto contro l’Egitto (nella così detta guerra dello Yom Kippur) si trasformarono in un boomerang dagli effetti inaspettati. I paesi produttori arabi interruppero le forniture petrolifere agli Stati Uniti, rei di aver dato sostegno ad un paese ostile e nemico delle comunità arabe. I prezzi del greggio al barile quadruplicarono nel giro di qualche mese (passando dai 3 $ ai 12 $ al barile), mai fino ad allora il mondo comprese la natura essenziale e sostanziale del fluido nero per la stabilità dei sistemi economici.
A distanza di alcuni anni, sempre ancora per ragioni politiche, un secondo contingentamento petrolifero colpì i mercati di approvvigionamento mondiali: nel 1979 il rovesciamento del regime dello scià in Iran, insediato al potere grazie all’intervento della CIA nel lontano 1953.
Questo evento fece da detonatore al conflitto tra IRAN ed IRAQ, due dei maggiori produttori di petrolio del mondo. La sopraggiunta scarsità di greggio sui mercati mondiali contribuì a spingere il prezzo del petrolio oltre i 30 $ al barile.
Le conseguenze di questi due shock ai prezzi ed alle quantità di petrolio si protrassero per quasi dieci anni con una inflazione quasi galoppante (oltre il 10 %) del costo di tutte le merci e delle materie prime. Fu allora che gli Stati Uniti e le sette sorelle (Exxon, Royal Dutch Shell, British Petroleum, Texaco, Chevron, Gulf, Mobil) capirono che, per garantire una crescita costante nel tempo del PIL e soprattutto per non dare scossoni ai bilanci ed alle quotazioni azionarie delle grandi corporation, era di vitale importanza, quasi una priorità nazionale, garantire che gli approvvigionamenti di greggio fossero stabili, sicuri e non da meno anche a prezzi molto contenuti. Finivano gli anni settanta.
Gli anni che seguirono furono incentrati alla ricerca ed individuazione di grandi aree di rifornimento sul globo terrestre al fine di calmierare lo strapotere dei sauditi ed il peso mediorientale.
Vennero così individuate tre nuovi grandi bacini di interessenza mondiale per il greggio: il giacimento del Golfo del Mexico, il giacimento in Alaska (Prudhoe Bay) ed il giacimento del Mare del Nord.
Questi tre contenitori per i successivi 20 anni non fecero altro che pompare greggio ed inondare i mercati anche quando non ve ne era bisogno (alla faccia dell’OPEC) consentendo di mantenere molto competitivo il prezzo del greggio al barile, toccando addirittura il minimo di 10 dollari nel 1998.
Questa fenomenale ondata di greggio, abbondante ed a buon mercato, ha consentito di dare slancio alla locomotiva statunitense per quasi un ventennio, con le ovvie conseguenze a cascata per tutte le economie del pianeta. La ricchezza prodotta grazie al greggio di quel periodo ha generato una vera propria corsa dei listini di borsa: dai 2.000 punti del Dow Jones nel 1980 ai 12.500 nel 2000.
Dal 2000 ad oggi tuttavia qualcosa sembra essere accaduto, perché senza crash o embarghi petroliferi, il prezzo del petrolio ha iniziato a salire lentamente e progressivamente, sino ad arrivare agli 80 USD nell’estate 2006. Ma cosa è successo ? Lo spettro del picco di produzione mondiale del greggio comincia ad inquietare i mercati e le comunità finanziarie.
Eugenio Benetazzo
Tratto da BEST BEFORE, edito da Macro Edizioni
22.06.2007