DI CARLO BERTANI
La notizia che i russi hanno ripreso i voli dei grandi bombardieri strategici è stata commentata da Washington con sufficienza : «Se hanno voglia di spendere quattrini per far volare qualche ferrovecchio» è stato il commento statunitense «padroni di farlo». Il commento americano, sotto il profilo militare, è ineccepibile.
Chiariamo che per gli aspetti militari la mossa russa non ha nessuna rilevanza: qualche decrepito TU-95 Bear (ad elica!), oppure le poche decine di TU-160 Blackjack che sono rimasti alla Russia dopo il crollo dell’URSS, non hanno nessun rilievo strategico. I più moderni bombardieri strategici russi sono forse paragonabili ai B1-B americani: certamente una “generazione” addietro rispetto ai B2-Spirit, che sono aerei stealth.
Rimangono poche centinaia di TU-22/26 Backfire, che sono però grandi bombardieri destinati soprattutto all’attacco contro le navi, ma non portano armi strategiche in senso stretto e, soprattutto, non hanno l’autonomia per reggere i lunghissimi pattugliamenti oceanici. Gli americani, dunque, hanno perfettamente ragione nel definire un bluff la mossa russa.
Se i russi bluffano, anche Washington non scherza: la colossale “puparata” messa in piedi sul sistema di difesa anti-missile, vale quanto far decollare qualche aereo ad elica sul Mar Artico.
Il progetto di difesa anti-missile – partorito ai tempi di Reagan – ebbe l’acronimo di MAD (Missile Air Defense): qualcuno, all’epoca, fece notare che “mad”, in inglese, significa “pazzo”. Perché? Poiché quel progetto è una completa follia.
Si parla tanto di “ombrello protettivo” contro le armi nucleari, ma nessuno sa ancora oggi come attuarlo.
La teoria del progetto era questa, suddivisa in quattro fasi:
1) Distruzione dei missili, dallo spazio, mentre sono ancora in fase di preparazione al lancio nei silos, a terra.
2) Intercettazione con missili lanciati da satelliti o navette nella fase di salita.
3) Stessa storia, quando i missili raggiungono l’apogeo della traiettoria (qui, sarebbero dovute intervenire armi laser d’elevata potenza).
4) Distruzione dei missili residui, durante la picchiata dei veicoli di rientro, mediante missili intercettori lanciati da terra (le prime stesure del progetto prevedevano anche “armi a tiro rapido” poi, forse per decenza, i cannoni sparirono).
Le simulazioni del tempo, prevedevano che circa l’85% dei missili fossero distrutti: l’assurdità è tutta contenuta in quel 15% che, in ogni modo, colpisce l’obiettivo.
C’è però una seconda incongruenza: le armi da utilizzare nello spazio – che dovrebbero “coprire” tre dei quattro punti – sono di là da venire. Laser di grande potenza…missili iperveloci…brusche correzioni di traiettoria mediante piccole cariche pirotecniche comandate dal computer di bordo…tante chiacchiere e basta.
Furono effettuati tre lanci di prova di un missile intercettore da Kwajalein (Oceano Pacifico), per colpire dei bersagli (Minuteman) lanciati dalla California. I primi due furono un fiasco completo, mentre il terzo – effettuato nel 2002, nell’occasione del primo incontro fra Bush e Putin, a Lubiana – fu coronato da successo.
Un successo effimero, perché la verità venne a galla poche settimane dopo: sul Minuteman, gli americani avevano installato una specie di radiofaro per guidare il missile intercettore. Un pietoso inganno: nella realtà – all’opposto – il missile attaccante diffonderebbe come contromisura elettronica decine di falsi echi, altro che guidare l’avversario urlando ai quattro venti “Sono qui, ehi, dove stai andando? Da questa parte…”
La casistica delle intercettazioni non depone certo a favore dei tentativi USA: i paleolitici SCUD di Saddam Hussein non furono mai intercettati dai Patriot americani. Il dispiegamento delle batterie, anche oggi, avviene soltanto come misura psicologica nei confronti delle popolazioni.
Una seconda misura, fu quella di nascondere le perdite: un solo civile, affermarono all’epoca gli israeliani, morto per infarto. 155 morti, ammisero qualche anno dopo.
Il sogno d’intercettare un oggetto che cade dalla stratosfera ad 8.000 Km orari, che ha una sezione radar di pochi decimetri quadrati, con un altro oggetto che sale a 2.000 Km orari e che deve centrarlo o passargli vicinissimo, s’infrange miseramente per l’impossibilità di definire con precisione le traiettorie (stiamo parlando di pochissimi metri e di frazioni di secondo!). E, riflettiamo, lo SCUD è un’arma degli anni ’50.
In questi frangenti, si capovolge la nota teoria che, in guerra, vede avvantaggiato chi si difende: basta un minimo incremento, nelle velocità e nell’imprevedibilità delle traiettorie di un missile attaccante, per mandare in fumo anni di ricerche e realizzazioni in chiave anti-missile. Difatti, il nuovo missile russo Topol-M sarebbe già oggi difficilmente intercettabile, anche se il tanto strombazzato sistema americano fosse affidabile.
Si aggiunga che lo stesso fenomeno avviene per le tecnologie stealth: ciò che è “invisibile” al radar, dipende dal tipo di radar e da ciò che si cerca. Difatti, i radar russi S-300 ed S-400, “beccano” sia i B-2 che gli F-117: una volta stabilita la forma dell’oggetto da cercare, tutto il lavoro di anni dei progettisti aeronautici viene vanificato cambiando semplicemente l’hardware ed il software dei sistemi. Altra cosa sembrerebbe essere la protezione fornita da sistemi al plasma, sviluppata per i loro aerei dai russi: la notizia è ovviamente stata pubblicata solo per gli aspetti generali, mentre la parte più squisitamente tecnologica è, ovviamente, “classificata”. In ogni modo, non potendo verificare se il sistema esiste per davvero, non lo possiamo considerare per le nostre analisi.
Altro fatto da non sottovalutare è che gli armamenti convenzionali in uso, oggi, sono quelli ereditati dalla guerra fredda: poche novità, perché – cessato il rischio di un puramente teorico scontro titanico nelle pianure europee – non c’era bisogno di spendere soldi in ferraglia militare. Difatti, tutti “tirano avanti” con quel che hanno.
F-16 ed F-15 da una parte, Mig-29 e Su-27 dall’altra…insomma, la solita roba, alla quale ogni tanto di dà una “riverniciata”. Tutti i programmi per nuovi velivoli, da una parte e dall’altra, viaggiano con la velocità di una lumaca. Riflettiamo che, a 18 anni dal crollo del Patto di Varsavia, non è entrato in servizio un solo velivolo veramente innovativo: F-22 Raptor (sembra che sia appena iniziata la consegna ai reparti) e JSF americani, Mig-35 e Sukoi vari sono ancora dei prototipi.
Se il quadro militare è un completo non sense, perché azzuffarsi tanto?
Gli eventi acquistano senso soltanto se vengono privati proprio della loro componente squisitamente militare, per osservarli invece alla luce delle strategie di lungo respiro. Qui, dobbiamo fare un passo indietro.
La disgregazione dell’URSS, coincise praticamente con i due mandati di Clinton, all’incirca dal 1992 al 2000.
Prima, però, c’era stato il vigoroso impulso alle spese militari dato da Reagan e proseguito da Bush I il Vecchio. Gli USA giunsero ad investire il 7% del PIL in ferraglia militare, il che condusse l’URSS ad un parallelo incremento, che fu stimato nel 16,5% del PIL russo. Sono cifre abbastanza indicative, ma non da valutare al centesimo: da un lato, la possibilità di celare nelle “pieghe” dei bilanci stanziamenti occulti, dall’altra la difficoltà di misurare, con il metro occidentale, l’economia sovietica.
In ogni modo, Mikhail Gorbaciov ammise sostanzialmente il problema di competere negli armamenti con gli USA, quando dichiarò a Demetrio Volcic – allora inviato a Mosca della RAI – che “non era possibile reggere quel ritmo, perché l’economia americana valeva due volte e mezza quella sovietica”.
E’ quindi dalle parti di William Clinton che dobbiamo cercare se vogliamo capire la ragione del sostanziale immobilismo USA per quasi un decennio. Uno dei cavalli di battaglia di New American Century – think-tank dei neocon americani – fu proprio l’accusa nei confronti di Clinton d’essere imbelle nei confronti dei russi, oramai in ginocchio.
Bill Clinton non affondò la lama nei confronti della Russia – durante il mandato di Eltsin sarebbe stato in grado di farlo – per numerose ragioni, non ultima il grave pericolo della svendita a prezzi da hard discount dell’arsenale nucleare sovietico.
Non sottovalutiamo però altri aspetti: la teoria, definita “multipolare” di Clinton, valutava già allora che l’euro sarebbe stato un pericoloso competitore, e quindi non era il caso di farsi troppi nemici in giro per il mondo.
La resistenza di Clinton su questo punto fu ferrea: mentre i conservatori americani gli montavano contro il caso Lewinsky, e non perdevano occasione per attaccarlo al Congresso affermando che il Presidente stava vanificando un’occasione storica, non mosse la barra della sua politica di un solo grado.
Vennero gli attentati in Kenya e Tanzania, ma Clinton rispose con il simbolico lancio di qualche missile sulla supposta residenza afgana di Bin Laden. Giunse, soprattutto, la guerra del Kosovo.
L’importanza strategica di quel conflitto è stata troppo sottovalutata, cancellata dalla successiva “guerra al terrorismo” di Bush: eppure, a ben vedere, i frutti del dopo nacquero dai semi lasciati in Kosovo.
Anche in Kosovo – se valutassimo il solo aspetto militare – gli eventi non avrebbero molto senso: perché fermarsi – quando il “fronte interno” serbo stava disgregandosi – e lasciare una guerra a metà, che ha finito per generare una situazione incancrenita e, a lungo termine, insostenibile?
Non stiamo parlando del destino dei serbi e degli albanesi – né a Clinton e né a Bush la cosa interessava ed interessa più di tanto – ma stupisce notare che Clinton arrestò una guerra praticamente vinta, mentre Bush ne continua altre (Iraq ed Afghanistan) praticamente perse.
I piani per un ingresso in forze in Serbia dall’Ungheria e dall’Albania erano pronti e – pur ammettendo una coriacea resistenza serba – in poche settimane gli americani sarebbero entrati in Belgrado. Le fasi finali di quel conflitto furono torbide, con il gen. Clark – che stava per attaccare i paracadutisti russi giunti a Pristina dalla Bosnia – tanto che fu fermato, da un suo sottoposto britannico, pare con una telefonata a Blair.
I russi erano pronti ad inviare altre truppe con un ponte aereo per ottemperare agli accordi armistiziali, ma furono avvertiti, sempre in extremis, che il corridoio aereo per i loro velivoli non era stato completamente garantito. Immaginiamo cosa sarebbe successo se un Antonov fosse stato abbattuto nei cieli rumeni o bulgari.
Ci sono molti punti interrogativi che rimarranno tali, e conviene arrestarsi ai soli aspetti strategici, perché quella guerra causò – anche se gli USA non ebbero un assetto completamente unipolare come dopo il 2000 – le prime incrinature del “dopo guerra fredda”.
La prima, evidente, fu il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, camuffata con la pietosa scusa del solito “errore”. Non sappiamo con certezza se la ritorsione avvenne perché i cinesi attuavano ponti radio per conto dei serbi, e sarebbe curioso conoscere anche chi “accecò” il radar di Tuzla, nell’occasione del bombardamento serbo del 14 aprile 1999 (peraltro, successivo al bombardamento dell’ambasciata cinese). A meno di credere che il radar di Tuzla fosse in completa avaria: in piena guerra?
Gli altri “scontenti” furono i francesi, che mal digerirono i piani di volo preparati dagli americani e consegnati come brogliacci di volo alle loro unità, senza consultare i comandi. Lo digerirono tanto male che un loro ufficiale, a Bruxelles, li “passava” direttamente ai serbi. Furono poi smaccati dalla consegna delle miniere di Trepca a società britanniche: su quelle miniere, ci aveva già messo gli occhi Napoleone III.
Il disastro peggiore, però, fu la sconfessione del piano di pace di Chernomyrdin – uomo di Eltsin e considerato il probabile Delfino – che, per il fallimento della sua missione, in quella guerra perse ogni possibilità di sedersi al Cremlino.
In pochi mesi, invece, venne “ripescato” un oscuro colonnello del KGB – Vladimir Putin – che dopo un anno veniva consacrato come zar di tutte le Russie.
Ora, fermandoci un attimo a riflettere su queste vicende, verrebbe da chiedersi se Clinton “preferì” il morbido approccio unipolare all’arroganza di Bush. Soluzione semplice, troppo semplice.
Pur ammettendo delle differenze fra le due amministrazioni USA, esse differiscono non tanto per gli obiettivi, quanto per i metodi: anche a Clinton – siamone certi – non sarebbe spiaciuto mettere in ginocchio russi, cinesi e – perché no – anche gli europei più “riottosi”.
A differenza di Bush, però, fece solo qualche sondaggio in quella direzione, e gli esiti sopra indicati lo convinsero che la strada era troppo pericolosa, anche per la sola potenza planetaria rimasta.
Qui, dovremmo chiederci: ma, gli USA, erano veramente una potenza planetaria?
Quando si assume quel termine per indicare il completo dominio di una potenza, s’intende che essa domina tutto il pianeta, che nessuno può prendere iniziative di un certo peso politico senza l’assenso della potenza dominante.
E’ il caso degli USA? Non mi sembra.
L’Impero Romano dominava tutto il mondo antico conosciuto (dell’impero cinese, non si sapeva praticamente nulla) e, fin quando il potere di Roma resse, nessuno ebbe l’ardire di metterlo in dubbio. A meno di pagarlo a caro prezzo.
L’Impero Britannico, partendo da meno dell’1% delle terre emerse (la Gran Bretagna), giunse a dominare il 23% del pianeta: dal 1815 (congresso di Vienna) al 1914 (un secolo!) non avvennero che conflitti regionali. Anche le guerre d’indipendenza italiane, a ben vedere, furono orchestrate abilmente da Londra, che vedeva di buon occhio la nascita di una nuova media potenza mediterranea, per “tener occupati” i francesi. Addirittura le avventure napoleoniche – seppur importanti per la formazione dei futuri assetti europei – non colpirono molto gli interessi britannici.
L’analisi dei neocon statunitensi – quel loro affermare l’avvento “del nuovo secolo americano” – erano prive di fondamento: per mezzo secolo s’erano confrontati con Mosca, ma appena Mosca era caduta era nata Pechino.
Nel volgere di quel mezzo secolo, gli USA erano passati a controllare dal 50% al 20% del commercio mondiale: il Giappone, risorto dalle ceneri di Hiroshima, metteva ogni giorno in dubbio il primato tecnologico di Washington. La Cina iniziava a produrre beni di consumo di medio/alta tecnologia, l’India si proponeva come “fucina” di cervelli, l’Europa minava il dominio del dollaro con la nascita della nuova moneta.
Non mi sembrano, questi, gli attributi di un pianeta dominato da una sola potenza.
Gli eventi successivi posero in primo piano gli aspetti petroliferi: senza una consistente e costante richiesta di dollari, la divisa americana correva il rischio di perdere rapidamente terreno nei confronti dell’euro.
Ma, l’aumento iperbolico del greggio – da 11 a 40 dollari in pochissimi anni, salutato con gioia dalla FED – fornì alla Russia le risorse per uscire dalla deprimente fase post-sovietica: già nel 2003, Putin poteva permettersi d’aumentare del 50% gli stanziamenti per la ricerca militare.
Cina ed India divennero rapidamente terreno di scontro per gli investimenti fra le maggiori potenze: curioso notare come Bush – in un quadro nel quale la potenza economica USA perdeva terreno – preferì giocare tutto sull’opzione militare. Metaforicamente, Bush – avanzando verso Baghdad – compì la conquista di Belgrado che Clinton ritenne troppo pericolosa per i futuri assetti del pianeta (ovviamente, in termini di vantaggio strategico per gli USA).
Oggi, è troppo tardi per tornare indietro; Bush ed i suoi consiglieri non sono così stupidi da non rendersene conto:
semplicemente, non hanno altre scelte.
La nuova “guerra fredda” che sta prendendo forma è quindi sintomatica di una situazione d’impasse internazionale: Russia e Cina giocano la carta dell’alleanza militare, i primi consci che per almeno 40 anni saranno i “padroni” del gas che alimenta l’Europa, i secondi perché possono tranquillamente ignorare le velleità USA. La difesa di Taiwan – fiore all’occhiello della strategia USA – potremmo, per usare un eufemismo, affermare che è molto “appannata”: e i miliardi di dollari del debito americano in mani cinesi?
Sull’altro fronte, Mosca e Pechino sanno bene che non sarà facile né breve far “sloggiare” gli americani dall’Afghanistan – sognato “ponte” occidentale nei confronti dell’Asia Centrale – né dal Golfo Persico.
I segni di debolezza, in Iraq, diventano ogni giorno più evidenti: dopo aver appoggiato per anni la fazione sciita, poche settimane or sono i jet americani hanno bombardato Sadr City, roccaforte degli sciiti iracheni. Dall’altra, sognare un riavvicinamento con la fazione sunnita – dopo il tanto sangue scorso ed una poco “provvidenziale” impiccagione di Saddam Hussein – sembra più un incubo che una speranza.
La strategia americana pare quindi più dettata da una dilagante schizofrenia che da un lucido piano strategico: proprio per la sua sostanziale mancanza di realismo, corre il rischio di diluirsi nel tempo come in Vietnam. Una sorta di sconfitta annacquata negli anni, un tentativo di conservare almeno qualche spicciolo nelle tasche irrimediabilmente bucate e pagata con il sangue di tanti giovani statunitensi (oltre, ovviamente, dagli iracheni): non a caso, spunta la proposta da “ultima spiaggia”, ufficializzata dagli alti gradi del Pentagono, di ricorrere nuovamente alla leva obbligatoria.
Personalmente, ci credo poco: significherebbe, come per il Vietnam, “riportarsi il morto in casa”, con tensioni sociali che oggi sono poco avvertite proprio perché l’esercito è formato da mercenari mentre, se i giovani americani fossero nuovamente forzati nel polverone iracheno…beh…
Anche dall’altra parte, però, più che qualche tintinnar di baionette non si può far udire: i cinesi hanno inviato il loro primo uomo nello spazio, ma queste cose – russi e americani – le facevano quasi mezzo secolo fa.
L’affossamento – con la caduta dell’URSS – dei piani dello shuttle russo, ha condotto alla dolorosa rinuncia alla stazione spaziale che avrebbe dovuto rimpiazzare la MIR, ed il vantaggio lasciato nello spazio agli USA sarà lungo da colmare.
In una simile situazione, che c’è di meglio di un po’ di guerra fredda?
Da una parte si corteggiano Polonia ed Ucraina, mentre dall’altra si moltiplicano le violazioni dello spazio aereo georgiano da parte russa. La marina cinese si potenzia acquistando incrociatori e cacciatorpediniere russi, e dall’altra il Giappone esce dallo “slum” militare dov’era stato cacciato dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Grandi manovre congiunte nelle pianure russe, ma a correre nella polvere sono vecchi blindati con fiammanti, nuove bandiere: tanta voglia di riconquistare la potenza perduta, ma la consapevolezza che, per molti anni, più che un po’ di polverone non si potrà fare.
Se a Mosca ci s’accontenta, a Washington non si ride: la potenza “blue water” americana è indiscutibile, ma appena scendono a terra sono guai e, se vuoi basare la tua economia sul binomio dollaro/petrolio, a presidiare i pozzi qualcuno ci deve andare.
Riflettiamo che, da anni, gli USA non riescono ad aver ragione di qualche decina di migliaia di guerriglieri: perché?
Poiché i grandi apparati, oggi, in guerra sono drammaticamente vulnerabili.
La sconfitta di Israele in Libano (la perdita di 1/7 delle forze corazzate!) significa che, di questi tempi, il cannone è più forte della corazza. Il “cannone”, si chiama lanciarazzi RPG e sta mostrando tutta la sua letalità nei confronti di mezzi corazzati superprotetti e super-tecnologici. E questa, ricordiamo, non è una novità: nel 1986, sul confine libico, le misere forze del Ciad (armate, appunto, con lanciarazzi e lanciamissili anticarro dai francesi) ebbero la meglio sulle divisioni corazzate di Gheddafi, che subirono una bruciante sconfitta a Quaddi-Doum. A voler osservare come andavano le cose vent’anni fa, l’oggi è più comprensibile.
Oggi, bastano pochi lanciarazzi RPG a puntamento laser e vecchie mine anticarro per mandare in tilt l’elefantiaco apparato di controllo americano; già lo scriveva Ernesto Guevara Linch: una forza guerrigliera – determinata ed armata, che riceve rifornimenti di armi e gode dell’appoggio della popolazione – non può essere domata da potenti eserciti.
Sappiamo che gli iracheni non sono certo grandi ammiratori degli yankee, ma possiamo facilmente comprendere da dove giungono le armi. Tutta la tecnologia bellica in mano ai guerriglieri iracheni ed afgani ha un solo marchio: prodotta forse in Iran, in India, in Cina in qualche caso in Russia o nelle repubbliche dell’Asia Centrale. La “madre” di tutta quella tecnologia, però, è la Russia: non a caso, gli israeliani si lamentarono con Mosca proprio dei nuovi lanciarazzi RPG con carica doppia, che vanificavano le corazze reattive israeliane. Non accusarono, in quel caso, Siria ed Iran: se la presero con Mosca e basta.
In definitiva, la politica neocoloniale di Bush cozza proprio contro un altro assioma degli irriducibili liberisti: vogliamo un’economia senza pastoie né limiti, in grado di spostare capitali e risorse laddove s’ottengano maggiori utili.
Va da sé che lo stato nazionale, in quest’ottica, perde importanza e addirittura senso: Bush si comporta come colui che mette in salvo qualche tanica di carburante, mentre non s’accorge che il tetto ed i muri della casa si stanno rapidamente disgregando.
Gli USA hanno investito nella guerra enormi ricchezze, giungendo a ricavare assai poco: la produzione petrolifera irachena – a causa della perdurante instabilità, degli attentati e del pessimo stato dell’apparato petrolifero dovuto ad anni d’embargo – non è risalita oltre la produzione prebellica (del 1991). Fu proprio il primo governatore dell’Iraq – Paul Bremer – ad osservare “che ci stiamo rimettendo”: niente paura, chi s’accorge dell’inganno viene sostituito.
In un quadro di fallimento totale della politica di potenza – per non aver capito che i destini dell’umanità si basano, oggi, più sugli aspetti economici che sulle “cannoniere” – la miglior scelta è il “congelamento”. Quasi un sinonimo di “guerra fredda”.
Nuove alleanze? L’India che si smarca dal legame con Mosca? Può essere: però – per approdare alla “Triplice” insieme ad USA e Giappone – Delhi deve potersi permettere d’acquistare (non in conto finanziamenti a fondo perduto!) armamenti americani al posto di quelli russi (con ben altri costi).
E ritorniamo da capo: una potenza “planetaria” sarebbe in grado di fornire a Delhi quel che le serve senza chiedere troppo. Della serie: butta via i Mig-29 ed i Su-27 e non ti consegniamo – con finanziamenti alle calende greche – F-16, F-15 e, se sarai bravo, anche qualche F-22.
Può ardire a tanto una nazione super indebitata, che ha ridotto al minimo sindacale quasi tutte le retribuzioni, che gioca oramai su un piatto di poker per salvarsi (la vicenda dei mutui…) e che dovrà affrontare, prima o dopo, un altro Vietnam ritirandosi dall’Iraq?
La situazione americana di questi anni – che il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà risolvere – assomiglia molto alla condizione della Gran Bretagna dopo la Prima Guerra Mondiale: montagne di debiti, con gli USA e con i banchieri. Non bastò nemmeno l’oro tedesco, e fu soltanto a metà degli anni ’30 che Londra uscì dalle “peste”, per poi ripiombarci pochi anni dopo.
Le velleità di potenza – a Washington – ci sarebbero, ma manca l’ingrediente essenziale per sorreggerla: i soldi.
Come si può notare, dopo tanti strombazzamenti, non c’è stato nessun attacco all’Iran – come avevo più volte previsto – e così non ci sarà, nel breve e nel medio termine, nessuna Terza Guerra Mondiale.
Un lungo periodo d’assestamento; una nuova “guerra fredda”, appunto: quello che serve quando quella “calda” non te la puoi permettere.
Carlo Bertani
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25.07.08