DI RICK KELLY E JERRY WHITE
Con il suo editoriale in prima pagina dello scorso Martedì 18 Ottobre,
“Quando i soldati dicono no,” il New York Times ha anticipatamente
marcato
la propria approvazione nei confronti della punizione di 18 riservisti
dell’esercito degli Stati Uniti in Iraq che la scorsa settimana si sono
rifiutati di effettuare quella che uno di loro ha descritto come una
“missione suicida.”
Il 13 Ottobre, i soldati della 343esima Quartermaster Company, della
Carolina del Sud, hanno rifiutato l’ordine di guidare sette
autocisterne non
blindate piene di combustibile attraverso l’Iraq del sud e quello
centrale,
aree nelle quali i combattenti della resistenza hanno ripetutamente
attaccato i convogli degli Stati UnitiMembri delle loro famiglie hanno segnalato che i riservisti sono stati
arrestati e detenuti, anche se l’esercito sostiene che non sono più
tenuti
in custodia. Tutti quelli che sono coinvolti potrebbero dover
fronteggiare
severe misure disciplinari, compresa la perdita del rango, la cacciata
dall’esercito — con la relativa perdita dei benefici riservati ai
veterani
— e la possibile condanna fino a cinque anni di prigione.
“I soldati in combattimento non possono selezionare e scegliere le loro
missioni, non importa quanto siano elevati i rischi che gli viene
richiesto
di affrontare,” ha dichiarato l’editoriale del Times. “Ordini diretti e
legali devono essere obbediti.”
Il Times ha riconosciuto che soldati riservisti, compresa l’unità
ribelle
destinata ai rifornimenti, sono state inviati in azioni di
“combattimento
contro gli insorgenti” senza sufficiente addestramento o protezione. Ha
anche fatto notare più avanti che i ripetuti appelli dei soldati agli
ufficiali del comando sono sempre stati ignorati.
Tuttavia, il giornale ha concluso: “Nessuna di queste osservazioni
diminuisce la gravità che è dietro al rifiuto da parte di soldati in
uniforme di portare a compimento ordini legali. Un esercito nel quale
la
disciplina si spezza non può nè compiere la sua missione nè proteggere
le
sue stesse truppe. Una volta che si sarà fatta luce sui fatti, gli
uomini e
le donne che si sono rifiutati di portare a compimento la missione
potranno
solo aspettarsi di essere giudicati responsabili per l’accaduto.”
Ma per quale precisa “missione” sono supposti sacrificare gli arti e la
vita
questi uomini e queste donne? Il Times ha deciso di non dirlo. Ma
nell’accusa portata ai soldati disobbedienti di stare insidiando la
“missione,” e nel richiedere che vengano puniti, il giornale rivela
ancora
una volta che, qualunque siano le sue critiche alla condotta di Bush
nella
guerra, la linea rimane quella di offrire pieno sostegno all’impresa
imperialista in Iraq.
La maggior parte dell’editoriale è una ripetizione di quelli che il
giornale
chiama i catastrofici passi falsi e i fallimenti della Casa Bianca e
del
Pentagono. Mentre queste critiche vengono pubblicate per dare
l’impressione
di mostrare simpatia e preoccupazione per le truppe, la chiara
implicazione
è che l’azione per schiacciare la resistenza Irachena deve essere
intensificata — con il coinvolgimento di un maggior numero di truppe
degli
Stati Uniti e con più morti e mutilazioni sia da parte degli Americani
che
degli Iracheni.
Quello che il Times non dice e non dirà è che la guerra in sé è una
flagrante violazione del diritto internazionale e dei diritti
democratici
della gente Americana. È un crimine e coloro che l’hanno progettata e
lanciata sono dei criminali – e non coloro che resistono ad ordini che
rivelano l’indifferenza e il disprezzo per le vite dei soldati
ordinari.
Ogni spiegazione razionale data alle truppe e alla gente Americana in
generale, per giustificare l’invasione e l’occupazione dell’Iraq è
stata
esposta per essere una bugia. Così è stata anche l’affermazione che gli
invasori sarebbero stati accolti dalle masse Irachene come eroi e
liberatori. Quando quella favola è esplosa in mille pezzi, è stata
tirata
fuori una nuova bugia — che quelli che si oppongono all’occupazione
degli
Stati Uniti sono solo un piccolo gruppo di Baathisti “terminali,” di
terroristi di Al Qaeda e di comuni criminali. Questa finzione è stato
combinata con un nuovo pretesto ex-post-facto per giustificare il
continuo
massacro – ossia che gli Stati Uniti stanno portando la democrazia alla
gente dell’Iraq e all’intero Medio Oriente.
La realtà è che la resistenza gode di un massiccio appoggio popolare e
che
il governo ad interim installato dagli Stati Uniti è disprezzato dagli
Iracheni – allo stesso modo dai Sanniti e dagli Sciiti. Ben lontana dal
“liberare” il paese, l’invasione ha causato un catastrofico declino
nelle
condizioni di vita degli Iracheni ordinari e li ha sottoposti ad un
nuovo
regime autoritario, sostenuto dai carri armati, dagli aerei da guerra e
dalle pallottole dell’America.
C’è una crescente consapevolezza nei ranghi dell’esercito Statunitense
dell’oceano che separa la realtà delle loro esperienze quotidiane dalla
propaganda che emana da Washington. Migliaia di truppe percepiscono di
essere state ingannate, e va sviluppandosi il sospetto che gli autori
della
guerra hanno motivi ben più reconditi che non hanno niente a che fare
con la
democrazia, la pace, o la sicurezza della gente Americana.
Inoltre, la spericolata condotta della amministrazione Bush e la sua
criminalità in Iraq e in Afghanistan ha implicazioni serie ed immediate
per
la sicurezza dei soldati. Molti sono indubbiamente consapevoli che il
disprezzo mostrato del governo nei confronti delle Convenzioni di
Ginevra e
il suo ricorso alla tortura ad Abu Ghraib, Bagram, Guantanamo e in
altre
prigioni militari, li espone alla possibilità di un trattamento
similmente
brutale nel caso che dovessero essere loro a venir presi prigionieri.
Attraverso la storia, è successo molto spesso che le fasi di apertura
di
fratture su grande scala nella disciplina dei militari siano state
contrassegnate da soldati impegnati a mettere in discussione la
competenza e
la capacità dei loro superiori a proseguire la guerra. Quando le truppe
perdono la confidenza nell’abilità di direzione dei loro comandanti,
ben più
ampie questioni che riguardano la natura stessa del conflitto seguono
invariabilmente.
La sfida portata dai riservisti fa intravedere una radicalizzazione più
profonda nei ranghi dell’esercito. Le future proteste si presenteranno
inevitabilmente su più ampia scala e su una base politica più
esplicita.
L’elite di potere — e i redattori del Times — sono acutamente
consapevoli
di tutto questo, ed è proprio questa la ragione per cui il caso dei
riservisti viene trattato con tale nervosismo ed apprensione.
Le espressioni di simpatia del Times per la difficile situazione
fronteggiata dai soldati degli Stati Uniti in Iraq sono assolutamente
ipocrite. Fino alla scrittura di questo articolo, più di 1.100 di loro
sono
stati uccisi in combattimento e migliaia di più sono stati feriti,
molti di
loro mutilati e paralizzati a vita. Decine di migliaia di Iracheni sono
stati uccisi e migliaia di più moriranno nel corso dei prossimi assalti
su
Fallujah e su altri centri della resistenza Irachena.
Esiste soltanto una maniera per far evitare ai soldati degli Stati
Uniti un
maggior danno e per arrestare il massacro Americano degli Iracheni:
ritirare
immediatamente e senza riserve tutte le forze degli Stati Uniti e
quelle
straniere e permettere alla gente Irachena di prendersi cura dei propri
affari.
Il Times, che parla a nome delle cosiddette sezioni “liberali”
dell’establishment politico e corporativo degli Stati Uniti, si schiera
in
opposizione ad un simile corso. Sulla questione dell’Iraq, così come
sull’obiettivo più generale di stabilizzazione dell’egemonia globale
degli
Stati Uniti, le differenze all’interno dell’elite di potere Americane e
fra
i suoi due maggiori partiti — non importa quanto taglienti o amare
esse
siano – riguardano la tattica e i mezzi, non i principi o i fini.
Ecco spiegata la ragione per cui il New York Times si schiera a fianco
dei
capi dell’esercito e contro quei soldati che osano resistere e dire di
“No.”
Traduzione di Melektro – A Cura di Peacelink
Da:www.wsws.org
Fonte:www.peacelink.it
23.10.04