Suha Arafat fa la parte della cattiva. Ma lo scontro con la dirigenza palestinese va oltre i soldi
DI PAOLA CARIDI
Suha Arafat non è un personaggio popolare, per le strade palestinesi. Tanto più impopolare, ieri, dopo il ballon d’essai gettato dagli schermi – guarda caso – di Al Jazeera. Popolare nel mondo arabo, ma popolarissima tra i palestinesi che la considerano la tv che ha trasmesso al mondo le immagini della loro cronaca e storia recente, le immagini della seconda intifada.
Quando tutto sembrava fatto – la transizione morbida dei due Abu, Mahmoud Abbas e Ahmed Qureia, e poi l’accordo con tutte le fazioni palestinesi a Gaza – Mrs. Palestine arriva a rompere le uova nel paniere. Non ci sta, e si rivolge direttamente alla gente della strada. A quella, a dire il vero, che lei non frequenta da svariati anni, visto che almeno da tre sta fuori dalla Cisgiordania, e che anche prima aveva trascorso più tempo all’estero che tra Ramallah e dintorni. Eppure Suha non ci sta. Grida che “vogliono seppellire Abu Ammar quando è ancora vivo”. E urlando rompe la cappa del silenzio che aveva circondato l’ospedale di Percy: silenzio rotto solo dai laconici comunicati stampa che la stessa moglie del rais aveva poi fatto interrompere, invocando una tutela europea come quella alla privacy.Il sasso è lanciato. Il panorama palestinese, che aveva cercato a tutti i costi di dare una immagine di unità, di calma e di pudore, si spacca. Abu Ala e Abu Mazen disdicono all’ultimo minuto un volo per Parigi, per andare al capezzale di Arafat. Dicono le solite voci, per andare in realtà a convincere Suha a spegnere le macchine che tengono in vita il rais, per poter dichiararne la morte a Laila al Kader, la notte più santa dell’islam. E poter celebrare i funerali prima che finisca il ramadan e cominci l’Eid el Fitr, la festa che per tre giorni non permetterebbe le esequie.
Da Ramallah si critica duramente Suha, accusandola di gestire come una proprietà privata proprio Arafat, uno dei leader più pubblici che il mondo contemporaneo abbia mai visto. Poi, nuovo cambio di programma. Il viaggio della dirigenza palestinese verso Parigi si fa. Chissà con quale obiettivo.
Cos’è successo? Qual è il mistero che avvolge lo scontro durissimo tra Suha e la vecchia guardia di Fatah? Si parla, subito, di un mancato accordo finanziario, ricordando la fama di Suha, accusata spesso in questi anni di spendere i soldi dell’OLP e di non farsi mancare niente nel suo esilio dorato parigino. E di nuovo si parla del fantomatico tesoro di Arafat, citando fonti sicure e fonti molto meno sicure, di cui Suha vorrebbe una quota.
Parlare solo di soldi, per una storia come questa, sembra però riduttivo. Non foss’altro perché la ruggine tra Suha Tawil in Arafat nasce sin dal matrimonio in gran segreto che Abu Ammar e la sua assistente, figlia di una delle più famose giornaliste e attiviste palestinesi, contrassero nel 1990. E che venne alla luce solo nel 1992. Non è mai corso buon sangue, insomma, tra lei e l’entourage di Arafat, come si è visto anche in questi giorni attorno al suo capezzale all’ospedale di Percy. Sembra, addirittura, che ammesso a vedere Abu Ammar assieme a Suha fosse solo Rami Khouri, capo di gabinetto e anche lui cristiano. E che gli altri pochi intimi dovessero rimanere fuori.
Illazioni, chissà quanto vere. Certo è che Suha si è tolta, dal suo ritorno attraverso il ponte di Allenby verso Ramallah, or sono dieci giorni fa, qualche sassolino dalle scarpe. Visto che era stata sempre ritratta come la giovane che si era fatta sposare dal grande capo, da Arafat, l’uomo che non dormiva mai nello stesso letto più di una notte e che non aveva vita privata. Lei, invece, lo aveva sposato e gli aveva addirittura dato una figlia, che aveva portato a curare all’estero proprio durante la seconda intifada. Dicono i biografi che soprattutto Abu Mazen avesse ingaggiato con lei una battaglia che dura da oltre dieci anni, e che ne aveva boicottato la presenza sul prato della Casa Bianca, quando suo marito strinse la mano a Rabin e a Peres. Lei, allora, non c’era, causa boicottaggio. Oggi Abu Mazen sostituisce suo marito alla testa dell’OLP.
La legge francese sulla cura dei malati dà a lei, la moglie, un ruolo che a casa propria, molto probabilmente, non avrebbe avuto. E Suha, questi diritti, se li è presi tutti. Magari, pensandola in termini personali, se è vero che Arafat è ancora attaccato a una macchina che lo fa vivere, lei ha pure qualche remora morale, affettiva, religiosa a dare il permesso di staccare la macchina.
Per quale motivo sembra così improbabile pensarla così, per Suha, dipinta a mezza bocca, ormai, come una sorta di dark lady della storia recente palestinese? Se fossimo in un teatro, a Suha avrebbero già tutti affidato la parte a tinte fosche della cattiva. L’antagonista senza scrupoli. Forse è vero, o lo è solo in parte. Certo è che di questa pièce il pubblico ha visto sinora solo pochi frammenti.
Paola Cardi
Fonte:www.lettera22.it
9.11.04