IL LIBRO VERDE DI SACCONI: CHI NON LAVORA NON OSI MANGIARE

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DI CARLO GAMBESCIA

Veniamo subito al sodo. Crediamo che le critiche dell’opposizione e del sindacato al cosiddetto decreto anti-precari siano sicuramente giuste. Tuttavia riteniamo pure che si tenda a scambiare l’albero con l’intera foresta. E quale sarebbe la foresta? Presto detto: il Libro Verde di Sacconi, Ministro del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali.

A dire il vero l’opposizione di centrosinistra si è scagliata contro l’ipotesi di innalzalmento dell’età pensionale ventilata nel documento. Il che non è sufficiente. Qui è lo spirito del Libro Verde (http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/PrimoPiano/20080725_Libroverde.htm) che non può essere assolutamente condiviso. E per almeno due ragioni.

In primo luogo, escluse le cosiddette fasce deboli (in particolare gli anziani oltre i sessantacinque anni ) si collega la fruizione delle prestazioni al possesso e alla ricerca attiva di un lavoro ( welfare to work). “Ciò comporta” si legge, “una riflessione critica sul reddito minimo garantito alle persone in età di lavoro mentre forme di sussidio potrebbero riconoscersi a coloro il cui stato di bisogno o la cui età è tale da non consentire che il lavoro sia la doverosa risposta alla indigenza” (p. 13). O meglio, “la concessione di tutele e benefici deve essere condizionata piuttosto, ovviamente là dove possibile, alla partecipazione attiva nella società, nell’ottica virtuosa del binomio opportunità – responsabilità, e deve essere indirizzata anche verso coloro che, con comportamenti attivi e stili di vita responsabili, possono e vogliono operare come moltiplicatori di risorse e ricchezza e comunque prevenire lo stato di bisogno” (p. 14): pochi giri di parole, chi non lavora non osi mangiare! Il che significa che viene meno il concetto di welfare come diritto sociale di cui godono tutti i cittadini, a prescindere dal fatto che lavorino o meno.

In secondo luogo, si apre ai privati. E con il solo scopo, dopo la previdenza, di introdurre anche una sanità basata su assicurazioni private, integrative o totali, di cui però andrebbero a fruire solo i soggetti in possesso di un lavoro e dunque in grado di stipulare una polizza assicurativa. Ecco a riguardo un altro passo molto significativo: ”Lo sviluppo del pilastro privato complementare è un passaggio essenziale per la riqualificazione della spesa e la modernizzazione del nostro Welfare. L’eccessiva intermediazione dello Stato nella predisposizione dei redditi per la quiescenza impedisce lo sviluppo di istituti redistributivo-assistenziali per i quali quella intermediazione è essenziale. Questi istituti non possono prescindere dalla fiscalità generale, sia che questa vada a finanziamento di produzione diretta di beni e servizi sia che essa finanzi deduzioni/detrazioni o voucher a sostegno di scelte dei cittadini, individuali o associate. Lo sviluppo dei fondi su base contrattuale, delle forme di mutualità, delle assicurazioni individuali o collettive può essere la risposta alle limitate risorse pubbliche e alla domanda di accesso a maggiori servizi” (p. 20). Pertanto “occorre dare, dunque, maggiore impulso allo sviluppo della previdenza complementare nonché ai fondi sanitari integrativi del servizio pubblico al fine di orientare e convogliare la spesa privata verso una modalità di raccolta dei finanziamenti…” (p. 21)”

E’ ovvio che in un quadro del genere poi si cerchi di favorire l’innalzamento dell’età pensionabile. Ma si tratta della punta dell’iceberg. O se si preferisce del punto di arrivo di una “filosofia” sociale basata sul “chi non lavora, a meno che decrepito, non osi mangiare”. Una “filosofia” lavorista che va combattuta perché superficiale e dettata soltanto da utilitaristiche e produttivistiche ragioni di mercato. E che quindi riduce il lavoratore a un puro e semplice Homo oeconomicus, condannato al lavoro (forzato) a vita.

Quel che è più irritante (e derisorio per chiunque abbia un minimo di intelligenza) è il richamo di Sacconi a un Welfare che, una volta riformato, conserverebbe “un carattere universale” ma coniugando “la caratteristica della universalità con quella della personalizzazione e anche della selezione dell’intervento” (p. 15) …

Ma come si può parlare di “Welfare universale”, e dunque a prescindere, se poi lo si collega al possesso di un posto di lavoro? O quel che è peggio di una salute decrepita a causa dell’ età e magari a seguito di un lavoro usurante?

Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com
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28.07.2008

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