di Valentina Bennati
comedonchisciotte.org
Camilleri racconta come veniva vissuta la festa dei morti in Sicilia quando era un bambino, prima dell’avvento della modernità che ci ha condotto verso Halloween, fenomeno legato e spinto da tutto un indotto commerciale.
Non so se in Sicilia la ricorrenza dei morti – con la tradizione dei dolci e dei giocattoli portati in dono la notte dalle anime dei parenti defunti “che poi si andavano a trovare il giorno dopo al camposanto per salutare e ringraziare” – sia ancora così sentita. Quello che osservo, con tristezza, è che ormai i bambini non mettono quasi più piede nei cimiteri. Invece, aspettano con ansia tutti gli anni di festeggiare quello che, per loro, è una sorta di carnevale autunnale, tra maschere tenebrose, dolcetti e scherzetti.
La verità è che siamo sempre più lontani dalle nostre tradizioni, da certe esperienze significative vissute dai nostri antenati. E questo, oltre a essere triste, è anche pericoloso perché, perdendo le nostre usanze e tradizioni, rischiamo un giorno di perderci definitivamente anche come popolo.
Proprio in un’epoca come questa, di grandi e profondi stravolgimenti, è bene, invece, cercare di riscoprire chi siamo.
Se sappiamo chi siamo e teniamo care le nostre tradizioni, passando l’eredità ricevuta a chi viene dopo, anche la nostra identità sarà salva.
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“Il giorno che i morti persero la strada di casa” tratto da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi.
Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto.
Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa.
Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.
A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.
Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli.
Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
VIDEO:
La “Festa dei Morti” raccontata da Andrea Camilleri. Prove per una tragedia siciliana di John Turturro
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