DI RENE’ NABA
mondialisation.ca
Per una proclamazione unilaterale d’indipendenza della Palestina e la sua iscrizione nel patrimonio dell’umanità
Parigi, 21 novembre 2009. Mese carico di date simboliche pregne di decisioni dolorose e dalle drammatiche conseguenze per il popolo palestinese. Novembre commemora al contempo la Promessa Balfour, il 2 novembre 1917, che impegnava la Gran Bretagna a pianificare su un territorio altrui un “Focolare nazionale ebraico” in Palestina [1], la Risoluzione n. 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, contenente il piano di divisione della Palestina in due stati, uno ebraico l’altro arabo, e la risoluzione n. 242 del Consiglio di sicurezza del 22 novembre 1967 che ha posto le basi per regolare il conflitto arabo-israeliano.
92 anni dopo la promessa Balfour, 62 anni dopo il piano di divisione, 42 anni dopo la risoluzione internazionale, la Palestina, culla di tre grandi religioni monoteiste, Islam, Cristianesimo ed Ebraismo, luogo simbolo della coesistenza tra Oriente e Occidente, è diventata il più grande campo di concentramento a cielo aperto dell’epoca contemporanea con i suoi diecimila prigionieri politici palestinesi, una popolazione in agonia sotto il peso di 750 posti di blocco militari, un muro discriminatorio di separazione, tre volte più lungo del Muro di Berlino, mentre parallelamente l’80% del territorio palestinese è stato spogliato e incancrenito dalle colonie israeliane, l’80% delle risorse idriche della Cisgiordania dissanguate a vantaggio degli Israeliani, così come le risorse di gas al largo di Gaza, oggetto di una vera e propria rapina [2].
La rinuncia di Mahmoud Abbas ad un nuovo mandato presidenziale, bruciato dal suo tergiversare sul caso del rapporto Goldstone su Gaza e dallo schiaffo americano riguardo le colonie israeliane, ha risuonato, il 5 novembre 2009, a sei giorni dalla commemorazione della morte di Yasser Arafat, come una sfida alla legalità internazionale, un insulto all’Organizzazione delle Nazioni Unite nella loro incapacità di risolvere la questione palestinese.
In questa prospettiva, la proclamazione unilaterale dell’indipendenza dello Stato palestinese e l’iscrizione della Palestina nel patrimonio dell’umanità restituirebbe all’istituzione internazionale un po’ di umanità, in mancanza di credibilità, e nello stesso tempo eliminerebbe la sofferenza del popolo palestinese innocente con il sanzionare le procedure dilatorie israeliane.
I. Un palestinese, Said Wajih Al-Ataba [3], decano dei prigionieri politici nel mondo
Anche sul piano carcerario, la palma spetta alla Palestina. Un palestinese, Said Wajih Al-Ataba, rivendica in effetti il triste onore di essere il decano dei prigionieri politici nel mondo, con al suo attivo 32 anni di detenzione, superando di quasi cinque anni il record di Nelson Mandela, il leader del movimento separatista sud-africano ANC (African National Congress) e futuro presidente del Sud Africa post apartheid.
Dopo la terza guerra arabo-israeliana del giugno 1967 e l’occupazione dei territori arabi che ne è seguita, il 42% degli uomini palestinesi è stato arrestato almeno una volta. Diecimila marciscono nelle galere israeliane con pene di lunga durata.
Il record di Nelson Mandela – detenuto per 27 anni e 190 giorni nella prigione di Robben Island – è largamente battuto non solo da Said Al-Ataba ma anche da quattro altri militanti palestinesi. In totale, quattordici palestinesi sono detenuti da più di un quarto di secolo da Israele; dodici di loro hanno anche superato questo limite e solo due sono detenuti da 25 anni, secondo il computo effettuato nel 2009 sulla base della data d’incarcerazione.
Alla fine del 2007, il numero di palestinesi che avevano passato più di 15 anni nelle prigioni israeliane aveva raggiunto le 232 persone e quelli che vi avevano trascorso più di 20 anni erano 73 prigionieri.
Tra i detenuti di lungo corso, tre militanti palestinesi sono originari di Wadi Ara, tutti e tre membri della famiglia Younes (Sami Khaled Salameh Younes, Karim Youssef Younes, Maher Abdel-Latif Younes). Wadi Ara o Nahal Iron (in arabo: وادي عارة) fa riferimento ad una zona all’interno di Israele principalmente abitata da arabi. E’ situata a nord-ovest della linea verde, per la maggior parte in seno al distretto di Haifa. Altri tre militanti palestinesi sono originari di Ramallah, sede dell’Autorità palestinese e mausoleo di Yasser Arafat, capo storico del movimento nazionale palestinese, a 15 chilometri a Nord di Gerusalemme, nella zona delle colline centrali della Palestina. Due appartengono alla famiglia Barghouti (Na’èl Abdallah Al Barghouti e Fakhri Al Barghouti), il terzo è Hassan Ali Nimr Salamah. Marwane Al Barghouti, il carismatico leader della nuova leva palestinese, condannato nel 2004, non conta ancora abbastanza anzianità carceraria per figurare in questa classifica.
Said Wajih Al-Ataba, Marwane Al Barghouti (Fatah) e Ahmad Saadate (FPLP) figurano in cima alla lista dei prigionieri di cui Hamas reclama la liberazione in cambio di quella di Gilad Shalit, il soldato franco-israeliano catturato da un commando palestinese al limitare della Striscia di Gaza nel 2006.
Perché la loro lotta non sia stata invano e la loro detenzione non sprofondi nell’oblio, ecco la lista dei resistenti:
1. Said Wajih Al-Ataba, decano dei prigionieri palestinesi dopo la liberazione del libanese Samir Kintar nel 2008 in favore di uno scambio di prigionieri con Hezbollah. Nipote del capo della sezione locale del Partito comunista palestinese per il settore di Nablus, Said Al Ataba è detenuto da 32 anni. Ha passato più tempo in prigione che di vita attiva.
Nato nel 1951 a Nablus, Said Wajih Al-Ataba si è distinto a 15 anni manifestando contro le truppe giordane che controllavano all’epoca la Cisgiordania, poi ulteriormente contro le forze d’occupazione israeliane. E’ stato uno degli organizzatori della manifestazione di protesta anti-israeliana che ha fatto seguito alla morte di una famosa militante palestinese, Lina Naboulsi, nel 1975
E’ stato arrestato il 29 luglio 1977, all’età di 26 anni, a Nablus (Cisgiordania) per la sua appartenenza a un commando del Fronte Democratico di liberazione della Palestina (FDLP, organizzazione marxista diretta da Nayef Hawatmeh). E’ stato condannato a tre ergastoli e sconta la pena nella prigione di Ashkelon, la città portuale conosciuta in arabo come Askalane.
Un membro della sua organizzazione, autore di un attentato dinamitardo in Israele che ha fatto un morto e 33 feriti, è stato condannato come Said Al-Ataba all’ergastolo. E’ stato liberato nel 1985 nel quadro di uno scambio di prigionieri mentre Said Wajih Al-Ataba, paradossalmente, è rimasto in prigione in quanto Israele si è rifiutata all’ultimo momento di liberarlo con il pretesto che “è stato condannato a una pena perpetua”. Il suo capo politico, Yasser Abed Rabbo, rientrato nei Territori palestinesi dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993, è il co-autore del piano di pace di Ginevra con il suo amico israeliano, l’ex ministro del lavoro Yossi Beilin. Said Al-Ataba si è anch’egli pronunciato a favore del piano di pace.
Questa è la ripartizione dei prigionieri in base alla loro anzianità e provenienza geografica:
2. Na’ êl Abdallah Al-Barghouti, originario della regione di Ramallah. Data di incarcerazione il 4 aprile 1978, celibe, nato nel 1957 (31 anni di detenzione);
3: Fakhri Al-Barghouti, originario della regione di Ramallah. Data d’incarcerazione il 23 giugno 1978, sposato, nato nel 1954 (31 anni di detenzione);
4. Akram Abdel Aziz Mansour, originario di Qalqyiah, nel nord-est della Cisgiordania. Data d’incarcerazione il 2 agosto 1979, celibe, nato nel 1962 (30 anni di detenzione);
5. Fouad Kassem Al-Raim, originario di Gerusalemme “al-Quds”. Data d’incarcerazione il 30 gennaio 1981, celibe, nato nel 1958 (28 anni di detenzione);
6. Ibrahim Fadl Nimr Jaber, originario di Hebron, Al-Khalil (Cisgiordania). Data d’incarcerazione l’8 gennaio 1982, sposato, nato nel 1954 (27 anni di detenzione);
7. Hassan Ali Nimr Salamah, originario di Ramallah. Data d’incarcerazione l’8 agosto 1982, sposato, nato nel 1958 (27 anni di detenzione);
8. Housmane Ali Hamdan Mouslih, originario di Nablus (Cisgiordania). Data d’incarcerazione il 15 ottobre 1982, sposato, nato nel 1952 (27 anni di detenzione);
9. Sami Khaled Salamah Younes, originario della regione di Wadi Ara (Palestina 1948). Data d’incarcerazione il 5 gennaio 1983, sposato, nato nel 1932 (26 anni di detenzione);
10. Karim Youssef Younes, di Wadi Ara (Palestina 1948). Data d’incarcerazione il 6 gennaio 1983, sposato, nato nel 1958 (26 anni di detenzione);
11. Maher Abdel-Latif Younes, di Wadi Ara (Palestina 1948). Data d’incarcerazione il 20 gennaio 1983, celibe, nato nel 1957 (26 anni di detenzione);
12. Salim Ali Al-Kayyal, originario di Gaza. Data d’incarcerazione il 30 maggio 1983, sposato, nato nel 1952 (26 anni di detenzione);
13. Hafiz Nimr Qinds, di Jaffa (Palestina 1948. Data d’incarcerazione il 15 maggio 1984, celibe, nato nel 1958 (25 anni di detenzione);
14. Issa Nimr Abd Rabbo, originario di Deheishe, Bethlem. Data d’incarcerazione il 21 ottobre 1984, celibe, nato nel 1963 (25 anni di detenzione).
Il campo di rifugiati di Deheishe è stato costruito nel 1949 su un terreno di circa 430 dounoums (approssimativamente 1 chilometro quadrato) all’interno dei confini della città di Bethlem sulla riva occidentale del Giordano. I Palestinesi che si trovano a Deheishe vengono da più di 45 villaggi situati ad ovest di Gerusalemme e di Hebron.
Si tratta di uno dei 61 campi realizzati dall’UNRWA (United Nation Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) per alloggiare i 750.000 Palestinesi delle regioni costiere e delle pianure della Palestina espulsi dalle loro case da parte degli Israeliani al momento della fondazione d’Israele, nel 1948.
II- La Palestina, il più grande campo di concentramento a cielo aperto dell’epoca contemporanea.
Promemoria: Nelson Mandela, il Capo del movimento indipendentista sud-africano ANC (African National Congress) e futuro presidente dell’Africa del Sud post apartheid, è stato detenuto per 27 anni e 190 giorni nella prigione di Robben Island.
Robben Island (in inglese) o Robbeneiland (in afrikaans) è un’isola dell’Africa del Sud, al largo del Capo, che è stata utilizzata nel XX secolo come prigione politica per gli oppositori del regime d’apartheid. E’ stata inserita nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1999.
Dopo la terza guerra arabo-israeliana del giugno 1967 e l’occupazione dei territori arabi che ne è seguita, l’80% del territorio palestinese è stato spogliato e inquinato dalle colonie israeliane di popolamento, l’80% delle risorse idriche della Cisgiordania prelevate a vantaggio d’Israele, così come le risorse di gas al largo di Gaza, che sono state oggetto di un vero e proprio sequestro [3], mentre parallelamente il 42% degli uomini palestinesi sono stati arrestati almeno una volta, ossia quasi la metà della popolazione.
Nel momento in cui L’Assemblea generale delle Nazioni Unite si appresta a celebrare, questo 29 novembre, il 62° anniversario del piano di divisione della Palestina (risoluzione 181), un anno dopo la conferenza di rilancio americana di Annapolis, l’organizzazione internazionale starebbe azzardando di sognare di inserire come patrimonio dell’umanità la Palestina, il più grande campo di concentramento a cielo aperto dell’epoca contemporanea con i suoi diecimila prigionieri politici palestinesi, i suoi 750 posti di blocco militari e un muro discriminatorio di separazione.
III. Il Muro dell’Apartheid un “moderno Muro di Gerico”
La caduta del muro di Berlino celebrata con fasto il 9 novembre scorso da parte delle cancellerie occidentali non può occultare la nuova realtà uscita dalla globalizzazione dei flussi. Agli antichi muri postumi della guerra fredda (Corea, Cipro, Sahara occidentale, Ceuta e Melilla, il filtro all’immigrazione verso la ricca Europa), si sono aggiunti nuovi muri, particolarmente tra gli Stati Uniti e il Messico, lungo il Rio Grande, per proteggere l’America dall’invasione latino americana, in Arabia saudita, per proteggere la petromonarchia tanto dall’Iraq che dallo Yemen, che il Regno cerca di destabilizzare da mezzo secolo, sia nell’Iraq stesso, nella zona verde a Bagdad, il perimetro attrezzato nell’ex palazzo presidenziale per proteggere gli invasori americani dagli ultimi colpi della guerriglia irachena.
In Europa, sotto l’impulso del “patto per l’immigrazione” proposto dalla Francia ai suoi partner europei, la Commissione europea da parte sua, nel maggio 2009, ha identificato una lista di 45 progetti di ricerca pubblico-privata intitolata “Verso una società più sicura e una migliore competitività industriale”, di cui otto sono chiaramente dedicati alla protezione delle frontiere [4].
Ma di tutti questi muri, solo il muro dell’apartheid israeliano è stato edificato su territorio altrui. Un vero “Muro di Gerico moderno” che bisognerà abbattere, di cui la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia ha invitato lo smantellamento parziale in quanto taglia i territori palestinesi occupati, reputandone “illegale” la costruzione e “non conforme a numerosi obblighi legali internazionali che ricadono su Israele ” [5]. In cemento armato, alto otto metri, lungo 750 chilometri, tre volte più lungo del muro di Berlino e due volte più alto, questo “Muro dell’Apartheid” rinchiude più di tre milioni di persone in decine di cittadine e villaggi della Cisgiordania e della regione di Gerusalemme.
L’implosione politica di Mahmoud Abbas, il 5 novembre 2009, a sei giorni dalla commemorazione del decesso di Yasser Arafat, ha giustificato a posteriori lo scetticismo del capo storico dei Palestinesi verso i paesi occidentali e condanna la compiacenza del suo successore nei confronti della loro doppiezza. Essa segna la morte del processo di Oslo avviato nel 1993 che tendeva alla proclamazione di uno stato palestinese indipendente come termine ultimo della soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese, nello stesso tempo in cui rivela il servilismo del capo della diplomazia americana, Hillary Clinton, segretaria di Stato, nei confronti d’Israele e quella dell’Egitto, tanto nei confronti di Israele che degli Stati Uniti.
“L’addio alle armi” sarà fatale a Mahmoud Abbas. Bruciato dai suoi tentennamenti sul caso Goldstone e dallo sgarbo americano sulle colonie, la sua rinuncia ad un nuovo mandato presidenziale appare tanto più crudelmente patetica in quanto ha coinciso con una sferzante lezione di coraggio che gli è stata impartita da giovani palestinesi e pacifisti israeliani con il buco aperto nel muro dell’apartheid in occasione della commemorazione del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Un’azione che è suonata come un affronto a Mahmoud Abbas e a Israele, una sfida alla letargia delle istituzioni internazionali, un regalo postumo a Yasser Arafat, iniziatore della lotta armata palestinese, un insulto all’Egitto per il suo conformismo proamericano e all’Organizzazione delle Nazioni Unite per la sua impotenza a risolvere la questione palestinese.
Una proclamazione unilaterale d’indipendenza dello Stato palestinese rappresenterebbe un vero elettrochoc con l’effetto di definire il margine di autonomia del presidente Barack Obama nei confronti della lobby pro-israeliana nella determinazione della politica americana in Medio Oriente e la validità del suo discorso fondativo del Cairo (5 giugno 2009).
Il piano di divisione della Palestina, nel 1947, aveva legittimato un progetto che rappresentava in origine un “fatto coloniale”. L’iscrizione della Palestina nel patrimonio dell’umanità restituirebbe all’organizzazione internazionale un po’ di umanità, in mancanza di credibilità, restaurando i Palestinesi nei loro Diritti legittimi, abolendo le loro sofferenze e concedendo loro una magra consolazione alla grande ingiustizia che hanno patito per colpa della turpitudine occidentale. Darebbe un po’ di lustro al potere palestinese gravemente discreditato dalla eccessiva compiacenza verso la doppiezza dell’Occidente.
Le minacce di ritorsione israeliane in questo contesto appaiono pateticamente derisorie di fronte al fatto compiuto che gli accordi di Oslo del 1993 sono già stati vuotati della loro sostanza nel 1995 da parte di Benyamin Netanyahu in persona senza suscitare la minima reazione internazionale, di fronte al fatto che i Palestinesi nel tempo sono stati in anticipo il bersaglio di rappresaglie permanenti e continue da parte degli Israeliani e infine di fronte al fatto che tali minacce non potrebbero dissuadere i Palestinesi dal mettere in atto la soddisfazione del loro obiettivo supremo, la giustificazione di tutti i loro sacrifici, la realizzazione del loro destino nazionale.
Un tale passo, d’altronde, non rappresenterebbe una novità nel diritto internazionale. Sarebbe del tutto simile a quello fatto da Israele con la sua dichiarazione unilaterale d’indipendenza del 14 maggio 1948. Provocherebbe un rovesciamento psicologico che metterebbe gli Israeliani sulla difensiva, una decisione che avrebbe il merito di risolvere la questione del rischio di un conflitto territoriale levando l’ambiguità nelle intenzioni degli alleati d’Israele, gli Stati Uniti e l’Unione europea.
Termine ultimo di una guerra disuguale che dura da sessanta anni, la proclamazione unilaterale d’indipendenza della Palestina segnerebbe una data storica che suonerebbe nella coscienza universale come la sanzione delle manovre dilatorie d’Israele e del suo disprezzo della legalità internazionale. Senza dubbio sarebbe sentita dall’opinione pubblica internazionale come la fine dell’eccezionalità israeliana e la messa in regola secondo le norme internazionali della Stato d’Israele, unico stato al mondo insieme al Kossovo ad essere stato creato da una decisione dell’ONU.
Riferimenti
1. La promessa Balfour: il 2 novembre 1917, in piena guerra mondiale, il Ministro degli Esteri britannico, Lord Arthur James Balfour, pubblica una lettera nella quale indica che il suo governo è disposto a creare in Palestina un “focolare nazionale ebraico”. Per gli Inglesi questa lettera aperta non ha che lo scopo di rassicurare gli ebrei americani, portati a sostenere piuttosto le Potenze centrali che non un’alleanza in cui compare la Russia dal passato pesantemente antisemita. Ma trent’anni dopo andrà a legittimare la creazione dello Stato d’Israele. Indirizzata al barone Rothschild, la lettera è stata in realtà redatta in stretta concertazione con questo ultimo che presiede la filiale inglese del movimento sionista, promotore dell’istallazione degli ebrei in Palestina.
2. Il sequestro delle riserve naturali di Gaza da parte di Israele (seconda parte). Il vero oggetto del conflitto, di Peter Eyre, Mondialisation.ca., 3 novembre 2009, The Palestine Telegraph.
Il giacimento Mari B d’Israele entra in effetti nelle acque di Gaza e potrebbe essere definito in comproprietà. Israele riceve gas naturale da questo giacimento fin dal 2003 senza suscitare la minima condanna internazionale. Noble Energy ha scoperto il giacimento di gas Mari B nel marzo 2000 e ha dato inizio alla prima produzione israeliana offshore il 24 dicembre 2003. Il sito di produzione è destinato a produrre fino a 600 milioni di metri cubi al giorno. Noble Energy ha stimato che il totale delle riserve utilizzabili superava il trilione di metri cubici. Noble Energy è l’operatore principale el progetto con 47,059% della partecipazione diretta insieme ai suoi partner israeliani AvnerOil Exploration Limited, partecipazione 23%, Delek Drilling Limited, partecipazione 25,5% e Properties Ltd 4,441%. Gli Accordi di Oslo nel 1995 hanno dato ai pescatori di Gaza una zona di 20 miglia nautiche, una concessione annullata dal governo israeliano. L’accordo Bertini, nel 2002, ha dato loro una zona di 12 miglia, ridotta in seguito da parte dell’esercito israeliano a 6 miglia nautiche nel 2006. Questa zona è a sua volta inframezzata da zone tampone, la zona K, sulla frontiera nord con Israele larga 1,5 miglia nautiche e la zona M, a sud sulla frontiera egiziana con 1 miglio nautico di larghezza. Tra le due, è posta la zona L, totalmente controllata dalla marina israeliana in maniera estremamente aggressiva. Noble Energy
3. La foto che illustra questo articolo è presa dal sito http://www.jerusalemites.org/Testimonies/36.htm
Sito dedicato alle testimonianze di persone originarie di Gerusalemme “Al Makdissiounne”.
4. Il “Patto per l’immigrazione”, proposto sotto la presidenza francese dell’Unione europea (giugno – dicembre 2008) da Brice Hortefeux, all’epoca Ministro dell’Immigrazione, dell’Integrazione, dell’Identità nazionale e dello Sviluppo solidale, si proponeva a livello europeo un duplice obiettivo: da una parte, armonizzare le politiche europee in materia di flussi migratori in funzione della capacità di accoglienza dell’Europa sul piano del lavoro, dell’alloggio e dei servizi sanitari. Dall’altra, instaurare a livello comunitario un’armonizzazione delle politiche di espulsione dei migranti illegali, del diritto d’asilo e della promozione dell’immigrazione professionale legale.
La Commissione europea, da parte sua, ha identificato nel maggio 2009 una lista di 45 progetti di ricerca pubblico-privata, intitolata “Verso una società più sicura e una migliore competitività industriale” otto dei quali sono chiaramente dedicati alla protezione delle frontiere. I loro acronimi rivelano i loro obiettivi: EFFISEC (Efficient Integrated Security Checkpoints); AMASS (Autonomous Maritime Surveillance System); GLOBE (Global Border Environnement); TALOS (Transportable Autonomuos patrol for Land border Surveillance system); UNCOSS (Underwater Coastal Sea Survivor); WIMA (Wide Maritime Area Airbone Surveillance); OPERAMAR (An Interoperable Approach to European Union-Maritime Security Management); SECTRONIC (Security System for Maritime Infrastructure, Ports and Coastal Zones).
5. In una sentenza in data 9 luglio 2004, la Corte ha confermato ciò che temevano le autorità israeliane, ossia l’illegalità rispetto al diritto internazionale dell’opera in costruzione in Cisgiordania in nome della lotta contro il terrorismo. Il testo indica così che “la Corte ha concluso che la costruzione del muro costituisce un’azione non conforme a numerosi obblighi legali internazionali che ricadono su Israele”. Precisando che queste violazioni del diritto sono diretta conseguenza, secondo la Corte, dell’edificazione della “barriera di sicurezza”, la giurisdizione ha specificatamente menzionato gli ostacoli alla libertà di movimento dei Palestinesi, gli ostacoli al loro diritto al lavoro, al diritto alla salute, all’educazione e a un livello ” di vita adeguato”. Queste esigenze sono comprese nelle convenzioni internazionali alle quali lo Stato ebraico ha d’altronde aderito.
René Naba: già responsabile del mondo arabo-musulmano nel settore diplomatico dell’Agenzia France Presse, ex consigliere del Direttore Generale di RMC/Medio Oriente, incaricato dell’informazione, è in particolare autore delle seguenti opere: “Liban: chroniques d’un pays en sursis”, Éditions du Cygne; “Aux origines de la tragédie arabe”, Editions Bachari 2006; “Du bougnoule au sauvageon, voyage dans l’imaginaire français”, Harmattan 2002; “Rafic Hariri, un homme d’affaires, premier ministre” Harmattan 2000; “Guerre des ondes, guerre de religion, la bataille hertzienne dans le ciel méditerranéen ” Harmattan 1998; “De notre envoyé spécial, un correspondant sur le théâtre du monde”, Editions l’Harmattan
Titolo originale: “Le doyen des prisonniers politiques dans le Monde”
Fonte : www.mondialisation.ca
Link:http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=16220
22.11.2009
Scelto e tradotto per Comedonchisciotte.org da MATTEO BOVIS