IL DEBITO PUBBLICO, UN MECCANISMO DI REDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA DAI POVERI AI RICCHI

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DI IVAN GORDILLO
Rebelion.com

L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che entra realmente in possesso della collettività dei paesi moderni è il debito pubblico.
Il Capitale, Karl Marx (1867)

Gli ultimi avvenimenti economici e politici si stanno susseguendo a una velocità vertiginosa. La sparizione del governo della Grecia e dell’Italia in meno di dieci giorni
è stato un colpo duro inferto dai cosiddetti mercati alle deboli democrazie parlamentari per come le avevamo conosciute sinora. Il colpo di stato finanziario iniziato nel 2008 col piano di salvataggio pubblico per i capitali privati ha preso una forma più vasta: i tecnocrati provenienti della banca internazionale – da Goldman Sachs nel caso del massimo dirigente della Banca Centrale Europea (BCE) – occupano le posizioni di controllo di queste due nazioni. Ora le porte girevoli girano anche alla rovescia: non solo i politici in uscita occupano i posti dei consigli d’amministrazione delle grandi imprese, ma anche i tecnici del capitale privato dirigono governi, della cui legittimità rimane oramai ben poco.
Non solo si cerca di far rispettare le regole del capitalismo che vogliono privatizzare i profitti e socializzare le perdite, ma si detta anche il modo di farlo. Chi detta, se non è
un rappresentante eletto, non è un dittatore? Se fossero militari, parleremmo improvvisamente di stato militare. Si tratta di un abuso di potere ancora maggiore, visto che anche prima cercava di favorire alcuni a detrimento di altri, ma ora si è persa anche la forma.

In questa occasione tutti i dubbi indicati dai cosiddetti mercati si sono concentrati sul debito pubblico dei paesi della periferia europea. Ma come hanno fatto questi stati ad indebitarsi così tanto?

Squilibri commerciali, problemi per il capitalismo

Nel capitalismo globale ci sono una serie di economie che hanno un settore estero competitivo che consente loro di essere esportatrici nette, e quindi esportano più merci di quelle che importano. È il caso della Cina o della Germania. Queste economie si sono specializzate in una produzione per cui è presente una forte domanda che viene da altre nazioni: prodotti tecnologici, attrezzature o automobili nel caso tedesco, o manifatture, anche se con molta
tecnologia, nel caso cinese. La configurazione di questa produzione, fattore tecnologico a parte, si basa su un tasso molto alto del tasso di sfruttamento dei lavoratori, perpetuando condizioni subumane per
milioni di persone, come nel caso cinese, o con redditi congelati da decenni (dal 1989?) come nel caso tedesco. Dato che i manuali di economia utilizzati nelle università stabiliscono che un’economia, per essere solida e competitiva, deve avere forti esportazioni, fino a questo momento non abbiamo la possibilità di esportare merci sulla Luna, su Marte o su qualunque altro pianeta del solare. I fatti ci dicono che un’economia esporta se ce n’è un’altra che importa. Anche se gli apologeti e gli economisti ci suggeriscono che questa crisi può essere superata esportando, non tutti i paesi possono esportare, alcuni dovranno importare.

Ci sono paesi esportatori netti, come quelli menzionati, e paesi importatori netti, che importano più merci di quelle che esportano. È il caso dell’economia spagnola
e di altre della periferia europea. Il modello produttivo spagnolo – incentrato sui settori dell’edilizia, del turismo e dei servizi, e in minore misura dei veicoli da trasporto – è un modello produttivo instabile,
con una forte dipendenza dell’estero e generatore di disoccupazione e precarietà.

Le economie con surplus commerciali come quella tedesca non utilizzano i fondi ottenuti grazie a questo vantaggio competitivo per migliorare lo stato sociale per la popolazione, per aumentare i salari della classe lavoratrice, per far andare prima in pensione i lavoratori, tanto meno investono gran parte di questi introiti nel settore produttivo industriale. Questo gran volume di capitale viene destinato ai prestiti verso quei paesi che hanno deficit, a finanziare i passivi di altre economie come quella spagnola attraverso il settore finanziario. Il flusso continuo di crediti che consentì la bolla immobiliare doveva provenire da un luogo che non fosse lo stato spagnolo, dato che la sua economia era in passivo e dipendente dall’estero. Le banche e le casse di risparmio spagnole hanno potuto prestare a costruttori, promotori, imprese e famiglie per il fatto di poter chiedere denaro alle banche europee. Il debito spagnolo cresceva, sia per il deficit degli acquisti di merci, che per il debito finanziario. L’affare era perfetto e ha così sviluppato un settore bancario fortissimo grazie ai profitti di intermediazione tra il finanziamento estero e l’economia produttiva interna. Diciamo che era perfetto, fino all’arrivo della crisi.

Lo scoppio della crisi

La crisi si liberò nell’ambito finanziario e si può far risalire il suo inizio all’agosto del 2007, quando il primo fondo di capitali di rischio fallì dopo l’esplosione della crisi
dei mutui spazzatura negli Stati Uniti. La crisi finanziaria fu la prima onda di uno tsunami del quale dobbiamo cercare l’epicentro nell’entroterra, nei meccanismi propri dello sfruttamento e dell’accumulazione del capitale che erano arrivati al limite. Da una parte, il modello produttivo del capitalismo – in questa fase chiamato neoliberista – non poteva oramai ricavare i profitti attesi per restituire i debiti d’impresa. D’altra parte, la strada oramai aperta ai crediti al consumo – che nel contesto dei salari decrescenti degli ultimi anni aveva potuto mantenere costante il potere d’acquisto e quindi la vendita di merci (automobili, appartamenti, eccetera) – non poteva perpetuarsi. Alcuni diranno che viviamo al di sopra delle nostre possibilità, e noi rispondiamo che il capitalismo ci sta sfruttando al di sopra delle nostre possibilità già da molti anni. Se non ci fosse stato il massiccio ricorso al credito, la ricerca di un possibile investimento del denaro, di qualcuno a cui prestare in cambio di un qualcosa, di un interesse per saziare la sete di profitti, la crisi sarebbe scoppiata prima e in modo differente. Il sistema di credito ha posticipato in moto fittizio la risoluzione del problema, che avviene sempre attraverso l’unico meccanismo che reitera la sua logica nel capitalismo: la crisi.

La crisi è qualcosa di inerente al sistema, intrinseco al capitalismo e perfino necessario per la sua riproduzione nel tempo; ha bisogno di questa purga dei capitali inefficienti
e della concentrazione di quelli che sopravvivono. Dalle crisi, una parte del capitale ne esce sempre rafforzato, mentre una parte della popolazione viene buttata in mezzo alla strada senza nessuna forma di entrate che non siano i sussidi pubblici. La seconda grande ondata dello tsunami ha provocato un arresto generalizzato delle attività produttive nella gran parte dei settori economici. In Spagna dobbiamo sommare l’esplosione della bolla immobiliare, talmente annunciata e prevedibile che ci porta a sbalordirci per l’inattivismo dei governanti. La distruzione di milioni di posti di lavoro a causa della chiusura di imprese, che ha fatto aumentare il tasso di disoccupazione a livelli mai visti prima, è il gran dramma sociale della crisi.

Intervento dello Stato nella crisi, il salvataggio dei potenti

Durante i primi passi della crisi, il governo spagnolo, dopo averne riconosciuto tardi e male la dimensione, implementò una serie di misure per cercare di limitare gli effetti
negativi. Le politiche più importanti, erratiche e talvolta contraddittorie, si incentrarono su un forte intervento dello Stato per riscattare il settore finanziario che aveva forti problemi per l’aumento delle morosità, specialmente nelle casse di risparmio. Questi aiuti si sono sviluppati attraverso il Fondo di Acquisizione di Attivi Finanziari (FAAF), il Fondo di Ristrutturazione Ordinata Bancaria (FROB) e una serie di garanzie e crediti al settore bancario. Il tentativo di fermare la crisi dal settore edilizio con l’istituzione del Piano E (dotato in più di 10 miliardi di euro), la sovvenzione per l’acquisto di automobili col Piano 2000E e il Fondo di Economia Sostenibile (che raggiunse più di 20 miliardi) hanno completato il salvataggio dei potenti. Si aiutarono le istituzioni finanziarie, molto meno quelle le attività delle
imprese produttive e quasi per niente la creazione di occupazione.

La comparsa del deficit fiscale, un problema solo di spesa?

A questi interventi molto dispendiosi per le casse pubbliche è necessario sommare l’aumento della spesa per i sussidi di disoccupazione, dopo la distruzione di quasi tre milioni di posti di lavoro dall’inizio della crisi. Questo livello di disoccupazione, il 21,52 per cento nel terzo trimestre del 2011, comporta una spesa annuale di oltre 30 miliardi di euro.

Questo forte aumento delle spese contribuì a che si passasse da una situazione di attivo dell’1,9 percento del PIL nel 2007 a un deficit dell’11,1 per cento alla fine del 2009. Di fronte a questa situazione e pressati con forza dall’UE, i governanti hanno introdotto previsto un duro regime di diminuzione della spesa pubblica. La necessità di contenere le spese per frenare il passivo in crescita, provocato dal salvataggio destinato ai potenti, ha avuto un ruolo importante. Appoggiati dai mezzi di comunicazione convenzionali, quest’ultimi hanno lanciato un bombardamento mediatico centrato sull’idea di ridurre le spese ritenute eccessive. Convergència i Unio, partito alla testa della Generalitat de Catalunya è diventata l’ariete di una politica di tagli che si stanno imponendo in tutto lo stato. Questo programma si fonda sul taglio della spesa sociale, sullo smantellamento del rachitico Stato del Benessere, aprendo la sanità e l’educazione pubblica al capitale privato.

Il deficit fiscale ha due versanti: da una parte le spese – e abbiamo visto da dove provenga il suo aumento negli ultimi anni – e dall’altra parte le entrate. Le entrate del settore pubblico si ottengono soprattutto dalla riscossione delle imposte. Il sistema fiscale dello Stato spagnolo è chiaramente regressivo e insufficiente, la pressione fiscale è attorno al 32 percento del PIL, molto sotto la media europea. Le riforme degli ultimi anni hanno continuato a ridurre le imposte ai redditi più alti e al capitale, aumentando la pressione fiscale dei redditi salariali e le imposte indirette, come nel caso dell’IVA. Circa il 45 per cento delle entrate statali proviene proprio da questa imposta, completamente ingiusta, dato che grava sul consumo, indipendentemente dal reddito. L’ultima modifica di questa imposta, già in piena crisi, per ottenere più entrate erariali, ha provocato un aumento dal 7 all’8 e dal 16 al 18 per cento, mentre la promessa di far salire le imposte ai ricchi è rimasta una dichiarazione di propaganda.

Altra imposta importante è l’IRPF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche). Alla fine degli anni ’70, la fiscalità “che doveva consentire la democrazia” impose un livello di aliquota oltre il 63% ai redditi più alti (negli Stati Uniti e in altri paesi europei era ancora superiore). Al momento i ricchi pagano il 43%. La riduzione delle imposte ai risparmiatori (chi riesce a risparmiare in questo periodo?) che ha fissato un’imposizione fissa del 19%-21% alle rendite di capitale, le varie possibilità di esenzione fiscale offerte ai fondi pensione, agli investimenti delle imprese,
insieme alle ultime rimozioni delle imposte patrimoniali e di successione, sono alcune delle modifiche implementate che hanno portato benefici alla parte più benestante della popolazione. L’esistenza di forme societarie come le SICAV (Società di Investimento a Capitale Variabile), che utilizzano le grandi fortune e che pagano solo l’1% di imposte, sono un insulto in un periodo di crisi. Per quanto riguarda le Imposte delle Società (IS), si parla in teoria del 30% sui profitti d’impresa (il 25% per le PMI). Le grandi imprese spagnole (quelle che figurano nell’IBEX-35) hanno una media del 17%. Ossia, quello che pagano realmente, dopo aver trovato tutti i sistemi possibili di esenzione consentiti dalla legalità e, a volte, ai limiti – come nel caso dei paradisi fiscali – , è una percentuale molto inferiore rispetto all’IS.

Chi paga più imposte in questo paese sono i lavoratori con i redditi salariali. Questo è oltremodo grave per le classi popolari, perché negli ultimi anni la partecipazione dei salari nella ricchezza generata dall’insieme dell’economia è in calo, beneficiando i redditi da capitale. Allo stesso tempo un sistema fiscale centrato fortemente sugli stipendi fa sì che, quando si produce
una distruzione dell’occupazione come quella odierna, da una parte aumenta la spesa per i sussidi e dall’altro affondano le entrate erariali.

L’indebitamento pubblico come meccanismo di esproprio delle classi popolari

Questo deficit va finanziato in qualche modo. Le emissioni di debito pubblico sono il meccanismo utilizzato dagli stati per reperire il gran volume di denaro di cui
hanno bisogno per quelle spese che non riescono a coprire con le entrate ottenute dalla fiscalità. I buoni del tesoro danno diritto ai finanziatori a riscuotere un interesse per il denaro prestato, e alla fine del periodo stabilito viene restituito il valore nominale. Il tipo di interesse, il prezzo a cui il denaro viene prestato, è determinato dai cosiddetti mercati, secondo le loro considerazioni sul rischio da assumere e sulla solvibilità delle nazioni debitrici. Le pressioni speculative per aumentare gli spread e per esigere interessi più alti sono una costante, specialmente nelle emissioni di titoli avvenute nell’ultima settimana, quando lo Stato spagnolo ha chiesto 3,5 miliardi di euro e ha dovuto concedere il 7 per cento di interesse.

I cosiddetti mercati non sono altro l’intreccio delle del settore finanziario: banche e casse di risparmio, dirigenti dei grandi fondi di investimento e dei fondi pensione, compagnie di assicurazione, fondi sovrani, fondi di capitale rischio, eccetera. Imprese che hanno come dovere quello di ottenere profitti, investendo il denaro dei grandi capitalisti e dei risparmiatori del mondo, andando alla ricerca di rendimenti nel mondo finanziario sotto forma di interessi, finanziando progetti imprenditoriali o, nel caso del debito pubblico, prestando agli Stati.

Se il debito pubblico cresce e se viene finanziato da queste istituzioni, è a loro che viene destinata una parte sempre maggiore delle entrate fiscali che, come abbiamo indicato, ricadono sopra i redditi salariali e le imposte pagate dalla popolazione. La quantità di bilancio da destinare ai costi di finanziamento è in forte crescita, proprio mentre avvengono i tagli alla spesa sociale. Il debito pubblico è un meccanismo di privazione che utilizza il capitale per ridistribuire la ricchezza generata dal lavoro della classi popolari verso i risparmiatori e i capitali internazionali.

Si tratta di un meccanismo perfetto, grazie all’influenza politica dei finanziatori che sono riusciti ad imporre, grazie ad organismi come il FMI, la BCE e l’UE, le politiche
di aggiustamento necessarie, non per uscire a uscire dalla crisi, tanto meno per garantire il pagamento del debito pubblico, ma per aumentare i propri benefici a qualunque prezzo. Non importa se questo è a costo della sofferenza delle popolazioni, della riduzione dei salari e del peggioramento delle condizioni lavorative, della distruzione dello stato sociale e della cosiddetta classe media, della trasformazione di un alto tasso di disoccupazione in un fattore cronico che verrà definito strutturale, di aumentare il numero di famiglie confinate nella povertà. Il problema è che neanche queste misure, per la sua natura, consentiranno la restituzione del debito, e neppure risolveranno i gravi problemi delle economie indebitate, come nel caso della Spagna. Di fatto già stiamo già assistendo a questo, vedendo il condono del 50 per cento del debito pubblico greco contratto dalle banche tedesche e francesi e l’aumento del fondo di salvataggio delle istituzioni europee.

Oltre a questi movimenti, il capitale ha la necessità di gestire questa crisi senza riuscire a trovare una via d’uscita alternativa. E la crisi sta già durando da molto. L’ultima serie di questo film dell’orrore è intitolata la crisi del debito, o come i finanziatori si sono affrettati di portare la loro bolla finanziaria nei bilanci del settore pubblico. Il livello di indebitamento dell’economia nel suo complesso è un peso troppo grande, specialmente quando i governanti sono disposti a mettere a disposizione le risorse pubbliche per coprire qualsiasi problema del settore finanziario. In un contesto dove l’economia produttiva non compare – e neppure lo si desidera -, e invece di cercare di resuscitarla si cerca di affondarla con i piani di aggiustamento, sembra difficile credere che sia possibili generare ricchezza, necessaria non tanto per uscire dalla crisi, quanto per ripagare i debiti.

In questo contesto scegliere di non pagare il debito risulta uno dei cardini su cui fissare le lotte. Scegliere che le classi popolari non paghino le conseguenze di una crisi della quale non sono responsabili significa i finanzieri e per favorire il capitale.

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Fonte: La deuda pública, un mecanismo de redistribución de riqueza de pobres a ricos

30.11.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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