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La Redazione

 

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IKEA, QUANDO L'ABITO NON FA IL MONACO

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A cura di Davide
Il 17 Febbraio 2007
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DI OLIVIER BAILLY, JEAN-MARC CAUDRON E DENIS LAMBERT
Le Monde Diplomatique

Dietro l’immagine di un’azienda “etica” si nasconde ben altro sfruttamento. Ikea Dopo aver installato negozi in Russia e in Cina – mercati promettenti – il gigante svedese Ikea ha comunicato, in ottobre, che non intende aprirne in India «per via della legislazione eccessivamente vincolante per le imprese straniere». Il gruppo si accontenta di fabbricarvi i prodotti, senza vincoli – soprattutto sindacali – pagando ogni lavoratore 1,60 euro al giorno…

Quattrocentodieci milioni di clienti in tutto il mondo, centosessanta milioni di cataloghi distribuiti (superata la diffusione della Bibbia): Ikea, la multinazionale del prêt-à-habiter, gode di buona salute.

E il suo fatturato prosegue lungo l’impressionante spirale positiva: 3,3 miliardi di euro nel 1994, 14,8 milioni di euro nel 2005. Ovvero, un aumento di oltre il 400%. Difficile fare di meglio. Oggi, la società punta a conquistare due territori che finora le hanno resistito: la Russia e la Cina. Come scrive il periodico interno Read Me: «L’obiettivo è migliorare la vita quotidiana del più gran numero di persone possibile.Per riuscirci, i negozi devono vendere sempre di più a sempre più persone (1)»….Per Ikea, la felicità del popolo passa per l’acquisto. Ikea riesce a schivare gli attacchi delle associazioni dei consumatori, degli altermondialisti e degli ambientalisti: singolare, per una multinazionale che rappresenta a tal punto l’omologazione planetaria e il mercantilismo. Un risultato non da poco. Occorre ammettere che l’azienda è riuscita a creare un legame speciale con i suoi clienti, grazie a prezzi imbattibili, alla realizzazione nei negozi di spazi per i bambini, e a un mondo progettato per trovare tutto subito (e preferibilmente ciò di cui non abbia bisogno).

Non mancano gli aneddoti per illustrare l’unione tra clienti e impresa.

Non si udì forse un consigliere municipale di Stockport (Gran Bretagna) esclamare nel 2004: «Un’Ikea nel territorio del nostro comune, questa è la gloria (2)!» A fare eco a tanto entusiasmo, gli abitanti di Mougins, una cittadina francese, hanno lanciato una petizione: «Se anche voi non ne potete più di passare due ore in macchina e di fare più di duecento chilometri (andata e ritorno) per fare spese in un negozio Ikea, prendete al volo l’occasione che vi offriamo perché finalmente venga aperto un negozio Ikea nelle Alpes-Maritimes (3)!».

Tutto ciò non suscita ammirazione? Persone che lanciano una petizione (oltre duemila firme nell’agosto del 2006!), che affermano i propri valori, che si mobilitano… perché non c’è una succursale della multinazionale del mobile entro un raggio di duecento chilometri.

Un simile successo può avere conseguenze più drammatiche. All’apertura di un negozio in Arabia saudita, l’1 settembre 2004, l’azienda regalava un assegno di 150 euro ai primi cinquanta clienti e una folla vi si precipitò: due morti, sedici feriti, venti malori.

Come spiegare l’infatuazione mondiale per Ikea? Oltre ai bassi prezzi, una chiave del successo risiede nell’immagine di sostenibilità ambientale e sociale che la multinazionale ha costruito. Dopo il primo subappalto straniero (la Polonia, nel 1961), Ikea delocalizza una parte delle sue produzioni, alla ricerca di manodopera economica e sfruttabile. Perciò la percentuale della produzione realizzata in Asia è in continuo aumento. Attualmente, la Cina (celebre per il rispetto dei diritti dei lavoratori…) supera la Polonia, tanto da rappresentare il maggior fornitore della società, con il 18% dei prodotti del gruppo. In totale, il 30% del «made in quality of Sweden» proviene dal continente asiatico (4). Secondo The Observer, la percentuale della produzione realizzata nei paesi in via di sviluppo è cresciuta dal 32% al 48% tra il 1997 e il 2001 (5).

Sin dalle origini, il gruppo svedese puntò a proporre prodotti a «prezzi estremamente bassi». Nel 1976, nel suo «Testamento di un commerciante di mobili», il fondatore Ingvar Kamprad lo ha dichiarato: «Non dovrà essere lesinato alcuno sforzo pur di mantenere le tariffe ai livelli più bassi (…), questi prezzi bassi, ancora oggi giustificati, impongono dunque vincoli formidabili a tutti i nostri collaboratori (…). Senza una rigida limitazione delle spese, non riusciremmo a compiere la nostra missione (6)».

Sindacati? Inconcepibile! Però, contrariamente a quanto afferma Ikea, i bassi prezzi hanno avuto – e hanno tuttora – un costo sociale notevole. Tra il 1994 e il 1997, tre reportage delle televisioni tedesche e svedesi (7) hanno accusato l’azienda di impiegare bambini in condizioni degradanti in Pakistan, India, Vietnam e Filippine.

L’Asia non ha il monopolio dello sfruttamento «ikeano»: nel 1998, dopo la denuncia delle penose condizioni di lavoro in Romania, il sindacato dei lavoratori del legno e dell’edilizia, l’International Federation of Building and Wood Workers (Ifbww), ha minacciato il boicottaggio della multinazionale, raggiungendo alla fine la firma di un accordo tra i sindacati e il gruppo (si legga l’articolo nella pagina accanto).

L’Iway – così si chiama il codice di condotta di Ikea in materia ambientale e di condizioni di lavoro – vieta ad ogni fornitore l’utilizzo di lavoro forzato e infantile. Il punto 7 («Salute e sicurezza degli operai») specifica le condizioni di lavoro dei dipendenti, che devono indossare le necessarie protezioni per la produzione. Esso tutela anche la facoltà dei dipendenti di organizzarsi in sindacato o in altro tipo di associazione, a cui il sub-fornitori non devono opporsi.

Inoltre: non è tollerata alcuna discriminazione sulla base di genere, provenienza geografica, status ecc. A livello retributivo, infine, nessuno deve essere pagato meno del minimo salariale fissato a livello nazionale. Il carico orario di lavoro settimanale non può oltrepassare il limite legale.

Redigere un codice di condotta per annunciare semplicemente che si segue la legge può apparire bizzarro. Come se qualcuno dichiarasse solennemente di essere pronto a guidare a sinistra in Gran Bretagna.

Tuttavia, l’impatto dell’Iway è stato positivo sulle condizioni di lavoro dei dipendenti delle imprese di subappalto?

Per quanto riguarda il lavoro dei bambini (argomento sensibile per le coscienze occidentali), Ikea ha sicuramente sradicato tale pratica nei «suoi» stabilimenti, anche se l’Iway preferisce basarsi sulle leggi locali e precisa che «le legislazioni nazionali possono consentire l’impiego di persone tra i 13 ai 15 anni o dai 12 ai 14 anni per lavori leggeri (8)».

Per l’organizzazione degli operai in collettivi o in sindacati, o per il pagamento degli straordinari, è un altro discorso. Così, nel corso di un viaggio, nel maggio 2006, in un villaggio vicino a Karur, un centro tessile indiano del Tamil Nadu, nel sud-est del paese, abbiamo tentato di incontrare i dipendenti di un’azienda subappaltatrice. Shiva (9), sulla trentina circa, vorrebbe rispondere alle poche domande del visitatore occidentale ma la madre, un’anziana indiana dai capelli bianchi, è preoccupata. E se Shiva perdesse il lavoro? Il suo salario rappresenta l’unica risorsa della famiglia, composta, oltre che dalle due donne, dal figlio dell’operaia, un adolescente di 15 anni.

Non c’è nulla di cui aver paura, tuttavia. La giovane donna in realtà non critica il suo datore di lavoro. Racconta di pause-tè, di protezioni per gli occhi e per le mani. Evoca un ambiente sano. E ciò è vero.

«Ikea offre condizioni migliori, non c’è dubbio», afferma Maniemegalai Vijayabaskar, professore assistente al Madras Institute of Development Studies. Lo studioso, che ha collaborato a una ricerca (10) commissionata da Oxfam-Magasin du monde sui fornitori della multinazionale del mobile, aggiunge comunque: «Si creano un volto umano per evitare critiche e controversie. Ma non fanno molti sforzi per migliorare le condizioni di lavoro».

Le condizioni di lavoro? A prima vista, sono buone. I locali sono puliti e areati. Ci sono le pause-tè e materiale di qualità. Infine, l’Iway è affisso sulle pareti dell’azienda. Ma… nel 2003, il sindacato olandese Fnv ha commissionato all’organizzazione non governativa olandese Somo, specializzata in valutazione sociale delle multinazionali, un’inchiesta sui fornitori di Ikea in tre Paesi: l’India, la Bulgaria e il Vietnam. Per ciascun caso, i ricercatori hanno incontrato gli operai di tre o quattro imprese e hanno realizzato interviste al di fuori del luogo di lavoro. Hanno visitato gli stabilimenti e parlato con i quadri delle aziende.

Le conclusioni si riferiscono a dieci fornitori, che contano circa duemila dipendenti. Somo constata: «Si evidenziano ancora numerose violazioni del codice di condotta Ikea in tutti e tre i paesi e in tutte le imprese studiate». Le infrazioni più frequenti riguardano la libertà di associazione, il diritto alla contrattazione collettiva, i salari e gli straordinari. Nella situazione peggiore: nessun sindacato, sette giorni di lavoro su sette, salario minimo non rispettato. E ovviamente nessuno conosce i propri diritti e gli impegni della multinazionale del mobile.

Storia antica? Da quanto abbiamo potuto constatare in India nel 2006, presso i fornitori in subappalto di Ikea non esiste alcun sindacato.

Ufficialmente, la presenza sindacale è tollerata ma, ad ascoltare Shiva, non sarebbe necessaria: «Quando c’è un problema, ci riuniamo e ne discutiamo. Di solito per ricevere istruzioni sulla pulizia dei bagni, per esempio. E se ho un’esigenza, posso comunicarla al responsabile». Forse per la giovane età di Xana, un’altra operaia, e l’assenza di bambini da sfamare, la risposta suona diversa: «Un sindacato? No, non accetterebbero. E se ci sono controlli nella fabbrica, i padroni ci ripetono le bugie da ripetere…».

La situazione non è anormale in questa regione. Ogni iniziativa sindacale è soffocata alla nascita. È proprio questa la situazione che cercava Ikea, come ogni multinazionale che si stabilisce in India. Essa consente salari particolarmente bassi. Shiva dice di guadagnare 2.300 rupie al mese (40,20 euro). Paga 500 rupie (8,70 euro) al mese per recarsi in autobus al lavoro. Alla fine, questa retribuzione è sufficiente per vivere? Shiva sorride pudicamente. Quando la madre cucina davanti alla casa, la ricetta è sempre la stessa: «Si mangia in modo semplice, zuppa o soprattutto riso col sugo». E la carne? «Sì, una volta a settimana, la domenica. Ma non questa domenica perché è la fine del mese». L’incontro si è svolto il 20 maggio 2006.

ll codice di condotta Ikea non dà da mangiare ai dipendenti. Non fornisce nemmeno l’arredamento. Non vediamo scaffali Billy o letti Malm… l’abitazione di Shiva è spartana: due camere, qualche calendario sul muro, foto in bianco e nero, due materassi, due piccoli bauli come guardaroba. Un orologio, qualche rappresentazione religiosa.

Quando le ho chiesto cosa farebbe con 1.000 rupie in più al mese, Shiva ci ha descritto il suo modesto sogno di benessere: «Prenderemmo una cucina con una bombola di gas. Cucinare sul fuoco è difficile, con tutto questo fumo negli occhi. Nella stagione delle piogge, è difficile trovare legna secca. E raccogliere la legna è un lavoro duro». La povertà di Shiva non è un’eccezione nell’universo dei fornitori di Ikea. Piuttosto, è la regola.

Un’altra operaia, Manjula, sposa recente, ci dice che guadagna 2.360 rupie (41,40 euro) al mese. Ma, come esempio, ci mostra le buste paga di ottobre 2005, e questa somma rappresenta l’importo lordo (in tutte e due le accezioni di questa parola) da cui detrarre due assicurazioni previdenziali e un’assicurazione sulla vita. Dopo qualche calcolo, le 2.360 rupie iniziali sono scomparse. Perciò, Manjula ha lavorato ventiquattro giorni in ottobre e ha intascato 1.818 rupie (31,80 euro). Nonostante lavori sei giorni alla settimana, sfiora la soglia di povertà estrema. E tutto nel rispetto del codice di condotta «ikeano»…

Per sbarcare il lunario, gli operai aumentano le ore di straordinario.

«Lavorano dodici ore al giorno. Senza considerare la durata del tragitto per recarsi al lavoro – precisa Vijayabaskar. Durante i picchi di produzione, possono arrivare a lavorare anche quindici ore al giorno».

Ikea cerca di ridurre le ore di straordinario, ma la pressione che deriva sia dalle scadenze degli ordini che dal bisogno di denaro rendono inevitabile questo sovraccarico di lavoro. Le otto ore al giorno di lavoro vanno dalle 9.30 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 18.30.

Ma, nel cuore di un quartiere popolare di Karur, Kalaya deve precisare: «Se fai delle ore di straordinario dalle 19 alle 20 o alle 21, non ti vengono pagate. Se lavori fino alle 22.30, ti danno 50 rupie in più (0.87 euro). Di solito, il lavoro straordinario si fa due volte alla settimana».

Assam che lavora nello stesso posto ci garantisce che non ci sono straordinari nella sua impresa. La sera stessa, le macchine lavorano di notte e, appostati all’ingresso, vedremo le squadre entrare in fabbrica fino alle 20. A dimostrazione del fatto che i discorsi vengono edulcorati dalle scadenze e dalla paura di perdere il lavoro. Deenosha dice di avere un reddito supplementare. Non fa in tempo a rivolgerci la parola all’uscita dalla fabbrica, che già si scusa. Ha un altro lavoro dalle 20 all’una del mattino. Guadagna 80 rupie (1,40 euro) più il vitto.

In effetti, per Ikea Shiva, Kalaya, Deenosha sono «costi da limitare in maniera rigida». Tanto che, per consegnare gli ordini in tempo, i subfornitori subappaltano a loro volta. Inapplicato dai fornitori diretti di Ikea, l’Iway diventa a quel punto una totale astrazione.

Nessun controllo, nessun requisito, nessun limite se non la scadenza della consegna.

Ma anche tra i fornitori ufficiali il controllo del rispetto del codice di condotta rimane estremamente lacunoso. Chi svolge i controlli?

La maggior parte (il 93%) è realizzata dai quarantasei uffici acquisti di Ikea disseminati in trentadue paesi. La formazione di questi uffici è garantita dal Compliance and Monitoring Group (Gruppo di controllo e di conformità), una struttura della multinazionale svedese dedicata alla verifica dell’applicazione del codice. Anche il Compliance and Monitoring Group, composto da cinque persone (erano tre nel 2004) che assistono i controllori degli uffici acquisti di Ikea, effettua dei controlli. Cinquantatré, nel 2005 (11). Gli esaminatori esterni, come Kpmg, PricewaterhouseCoopers e Intertek Testing Services, hanno effettuato solo sette controlli nel 2004. La multinazionale del mobile riconobbe che il numero era esiguo ma assicurò che «il 2005 sarà diverso, con un elevato numero di controlli svolti da terzi (12)».

Il numero «elevato» è ora noto: arriva a ventisei controlli esterni sui 1.012 realizzati.

La linea rossa del lavoro dei bambini Inoltre, i pochi controlli indipendenti si basano in parte sul sistema di controllo interno introdotto da Ikea. Gli esaminatori non possono pubblicare i loro studi, di cui rendono conto direttamente ed esclusivamente alla direzione del gruppo. Tutte le verifiche, che si svolgono ogni due anni (ogni sei mesi o un anno per l’Asia), richiedono uno o due giorni. I novanta criteri dell’Iway vengono passati al setaccio.

Per otto ore al giorno, ciò corrisponde a un criterio ogni dieci minuti e quaranta secondi. Come verificare che non c’è pressione contro la formazione di un sindacato in dieci minuti? E le ore di straordinario? E il regolare pagamento dei salari? E il rispetto delle pause? E il lavoro forzato? Il lavoro dei bambini? Semplice.

Si chiede al padrone. Si consultano i registri dell’impresa. O peggio, si chiede all’operaio all’interno della fabbrica.

Le persone che realizzano queste ispezioni sono forse sincere e volonterose, ma le condizioni in cui vengono poste non permettono un controllo serio. Il metodo, dunque, è per lo meno «leggero» e sfavorevole alla libera espressione degli operai sulle loro condizioni di lavoro, tanto più che questo «controllo» si svolge contemporaneamente al controllo di qualità dei prodotti. Toneesh, ispettore qualità, ha visto due volte gli esaminatori di Ikea l’anno scorso: «Fanno qualche domanda, soprattutto sulla qualità dei prodotti, per verificare la produzione. Sono indiani, di Delhi o di Madras. Ma ci sono anche europei, che però si rivolgono solo ai dirigenti di livello superiore. A causa della lingua, i lavoratori non possono parlare direttamente con loro».

L’operaio Kalaya conferma: «Ieri, è venuto un uomo di Ikea. Ci ha mostrato un video sulla preparazione del prodotto di qualità. E ha posto alcune domande, ma solo sul prodotto». Probabilmente non è questo il tipo di domande che eviterà a Kalaya le ore di straordinario non pagate…

Di conseguenza, la politica di Ikea si limita a introdurre qualche addolcimento nello sfruttamento presso i suoi sub-fornitori. Certo, i dipendenti hanno acqua filtrata a disposizione, guanti, bagni separati e, a volte, persino le pause-tè. Ma bere il tè non aiuta il lavoratore ad arrivare alla fine del mese e appena emergono le vere questioni sociali – come i salari, la presenza dei sindacati, le ore di straordinario – il tono, come abbiamo visto, muta rapidamente.

A trarre il massimo profitto dalla responsabilità sociale rappresentata dal codice di condotta non è… l’impresa stessa? Da un lato, come ricorda Vijayabaskar, «Ikea ha scaricato i costi della sua politica sociale sui suoi fornitori». Dall’altro, essa può rivalutare la sua immagine attraverso questo impegno a costo zero, mantenendosi con una precisione da metronomo appena sopra la soglia di tolleranza per l’Occidente: il lavoro dei bambini.

Questi progressi sono acquisiti a buon mercato tanto più facilmente in quanto gli impegni dell’Iway non appaiono affatto vincolanti.

La presunta responsabilità sociale di Ikea non riesce nemmeno a sottrarre alla miseria totale alcuni suoi dipendenti. Per proclamarsi davvero «etica», la multinazionale dovrebbe consentire una vita decente ai lavoratori. E non parliamo di lusso, di televisione o di telefono cellulare. Ma di mangiare carne più spesso, di non dover ritirare dalla scuola i propri figli per mancanza di denaro, facendogli perdere un anno scolastico, di non dover mettere insieme due lavori, di godere di un vero giorno di riposo senza dover recuperare tutti i lavori di casa di una settimana. Per non dire di consentire che Shiva si offra un piccolo lusso tra gli scaffali di Ikea…

Olivier Bailly, Jean-Marc Caudron, e Denis Lambert, rispettivamente giornalista, ricercatore e segretario generale di Oxfam-Magasin du monde (Belgio), autori di “Ikea, un modèle à demonter”, Luc Pire, Bruxelles, 2006, 108 pagine, 15 euro.

Olivier Bailly, Jean-Marc Caudron, e Denis Lambert
Fonte: http://www.chainworkers.org
Link: http://www.chainworkers.org/?q=node/362
23.01.2007

NOTE:

(1) Read Me, rivista internazionale interna di Ikea, n. 1 marzo 2006.

(2) «Un Ikea o niente!», dossier «Ikea: la secte mondiale du kit», Courrier International, n. 722, Parigi, 2-8 settembre 2004.

(3) www.ipetitions.com/

(4) Ikea, «Social & environmental responsibility report 2005».

(5) «Trying to assemble a perfect reputation», The Observer, Londra, 25 novembre 2001.

(6) Frasi tratte dal «Testamento di un commerciante di mobili», citato in estenso nella biografia autorizzata di Ingvar Kamprad: Bertil Torekull, Un design, un destin. La saga Ikea, Michel Lafon, Parigi, 2000.

(7) Il documentario tedesco Mattan è citato da Manuel Balza e Davor Radojicic, «Corporate social responsibility and nongovernmental organizations», Avdelmng, Linköping, 30 gennaio 2004. I reportage svedesi sono stati citati da Susa Christopherson e Nathan Lillie, «Neither global nor standard: Corporate strategies in the era of new labor standard», University of Oxford, novembre 2003, e Lowry Miller, Piore Adam e Theil Stefan, «The Teflon shield: Trench war», Newsweek International, 12 marzo 2001. Cfr. anche «Ikea accused of exploiting child workers», BBC, Londra, 23 dicembre 1997.

(8) Iway Standard, point 15.

(9) Poiché diverse persone intervistate hanno manifestato il timore di perdre il lavoro se fossero state riconosciute, tutti i nomi dei lavoratori sono stati cambiati.

(10) Disponibile su www.madeindignity.be.

(11) Ikea, «Social & Environmental responsibility report 2005».

(12) Ibid.

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